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Cascina Merlata
 
Poco distante da Cascina Pozzi, lungo Via Gallarate, troviamo la bella ma decadente Cascina Merlata in preoccupante stato di conservazione e, alle spalle, l’antica fornace di mattoni.
La Cascina Merlata deve il suo particolare nome ai “merli” che ornavano la sua facciata e dava il nome anche ad un vicino bosco, quello della Merlata, chiaramente riportato nella mappa del Claricio del 1659. Il bosco venne tagliato agli inizi del novecento.
A tal riguardo Luca Sarzi Amadè nel bel libro “Milano fuori di mano” così descrive il “favoloso Bosco della Merlata”. “ … grosso modo compreso tra la Cagnola, Trenno e Pero, popolato di selvaggina, lupi e grassatori (briganti ndr). Si racconta in proposito che i viandanti, prima di avventurarsi per la Gallaratese o la Varesina, facessero testamento.
Celebri i banditi Giacomo Legorino e Battista Scorlino, processati con 80 complici nel maggio del 1566. Il primo fu trascinato per due ore da un cavallo in corsa; quindi fu legato alla ruota, ma nonostante avesse arti e schiena spezzati, era ancora cosciente. Il cappellano implorò allora il boia di sgozzarlo “acciò non stentasse più e non perdesse l’anima”.
Analoga la sorte dell’altro.”
L’area è attualmente molto degradata ed in attesa della definitiva destinazione urbanistica.
Cascina Merlata era molto nota per un avviato allevamento avicolo ora dismesso.
Per alcuni anni, sul lato est, lungo Via Gallarate, venne realizzato un parcheggio di TIR (soprattutto provenienti dalla Turchia) che contribuirono non poco a degradare il luogo per le precarie condizioni di igiene in cui erano costretti a vivere gli autisti costretti a dei veri e propri bivacchi.
Di fronte alla Merlata c’era il casello del dazio ora ridotto ad un rudere cadente.
Nei pressi del dazio un certo “Pasqualin”, originario del bergamasco, tra le due guerre mondiali, si era costruito una piccola cascina da solo, nel tempo libro tra un lavoro e l’altro.
Era chiamata la “Cassinetta del Ciapparàtt” e venne demolita negli anni ’60 per far posto alle case del Quartiere Gallaratese di Via degli Appennini.
Vicino alla Torrazza, in via Busto Arsizio 27, c’era un’oasi, una cosa strana, impensabile a Milano, un piccolo podere coltivato a fiori di campo e vasche d’acqua pulita con dentro le ninfee ed i fior di loto.
Era la passione ed il lavoro di due persone splendide: Giovanna Foglizzo e Biagio Allevato.
Negli anni ’80 hanno dovuto sgomberare in seguito all’esproprio per costruire case, durante quella che è ricordata come “la guerra delle cascine”, un periodo brutto e poco limpido che speriamo non debba più ritornare.
La tenacia e l’amore per il proprio lavoro hanno spinto queste due persone a spostare le loro coltivazioni fuori Milano, a Cornaredo.
In questo modo Cornaredo si è arricchito di un giardino e noi a Milano di un ennesimo palazzone uso uffici.
L’Eden è a un passo da Milano. Nella campagna piatta di Cornaredo, fra un centro sportivo e un deposito di pullman, eccolo apparire d’un tratto, una distesa di rose dalle sfumature e profumi più svariati, laghetti di ninfee e fior di loto, margherite, cosmee, peonie, zinnie, fiordalisi. Ma a richiamare l’Eden non sono solo i fiori: è anche il tuffo improvviso di una ranocchia, il guizzare di pesci, la sera gli sciami luminosi delle lucciole, rimpiante da Pasolini. A mezzogiorno, sotto il sole a picco, si vede solo una donna che lavora curva, un cappellaccio da mondina in testa. Non è un caso perché viene da Vercelli, zona di risaie; Giovanna Foglizzo, 60 anni, creatrice di questa meraviglia; e quel che dice vale quel che fa. “Pensi, mio padre, allevava pesci e, intorno al 1910, li mandava a Milano, alla pescheria Spadari, che li conservava vivi in una cava dove adesso c’è il Gallaratese, trasformata in un bellissimo parco. Più tardi i miei genitori accettarono di lavorare lì e del loro compenso faceva parte anche la vendita dei fiori. Così, durante la guerra, sotto i bombardamenti, andavo in giro in bici con la mamma a offrirli: fioristi a Milano allora ce n’erano pochi. Poi i proprietari vendettero la cava, ma mia madre, con la clientela che si era fatta in 10 anni, riuscì a comperare un po’ di terreno lì vicino e a coltivare di nuovo i fiori. Oh è una donna in gamba anche adesso che ha 89 anni”. “Ma lo sa” continua Giovanna con gli occhi che le brillano” che gli abitanti del quartiere portavano gli amici sui balconi per vedere dall’alto quel nostro paradiso?”. E poi? Il viso di Giovanna si oscura: “Poi qualcuno, col pretesto di costruire, è riuscito a farci andar via (e anche il Consiglio di Zona s’è mosso troppo tardi)”.
Giovanna alza il capo di scatto: “Ma allora sa che cosa abbiamo fatto? Ci siamo portati via tutto, migliaia di piante e di bulbi, e li abbiamo ripiantati qui. Poi con le acque ancora pulite del Villoresi, abbiamo creato i laghetti per le ninfee e i fiori di loto, col sistema che si usa per il riso e cioè l’acqua che scorre anche d’inverno sotto la crosta del ghiaccio. Abbiamo cercato pesci e rane, che divorano moscerini e larve nocivi e così non abbiamo bisogno di prodotti chimici”. I vostri fiori sembrano comuni; ma perché sono così belli? ”Certo, sono fiori di campo, meno perfetti di quelli delle serre, ma hanno una grazia, un calore, una morbidezza… Vede per esempio quelle rose Queen Mary?” Vengono forse dall’Inghilterra?
“Ma neanche per sogno, c’è gente che crede che i bei fiori possono venir solo da lontano, invece crescono benissimo anche qui. Il fatto è che la natura ha una forza di recupero incredibile; ma lo sa ad esempio, che qui son tornate gallinelle d’acqua che non si vedevano più da anni? Certo bisogna faticare, qui si zappa tutto a mano”. Vuol dire che fa tutto da sola? “Eh quasi, anche se ho due sessantenni e un quarantenne che mi aiutano. Ma con la volontà e la passione si fa tutto!”. Vuole raccontarci la sua giornata?
Adesso Giovanna è seduta in un capanno che fu un cascinotto (sotto mazzi appesi a testa in giù di “elipsterum roseum”, fiorellini bianchi e rosa che così seccheranno senza perdere il loro fascino). La sua risposta è orgogliosa: “Sveglia la mattina alle 5 e giro in camioncino dei fioristi miei clienti, non vendo al pubblico perché non sono attrezzata; a mezzogiorno, al Gallaratese ad accudire la mamma; poi via di nuovo a Cornaredo fino alle 9 e mezzo di sera.
Certo, quando vado in un negozio e vedono le mie mani così sciupate, mi offrono i prodotti meno cari. Ma il lavoro mi appassiona; per me è come andare al mare”. Viene gente a vederla? “Si certo, sono curiosi. Pensi che una volta ho detto ad un bambino di cogliere delle fragole e lui s’è messo a piangere perché non vedeva il cestino; credeva che le fragole nascessero da quello!”. Ma a lei cosa piace di più?
“Guardate i miei fiori vivi, mi spiace quando li taglio, ma devo pur vivere. E speriamo che nessuno mi porti via di nuovo la terra”. Poi offre al giornalista e al fotografo un dono straordinario: due grandi mazzi di rose.
Bene, se mai Milano un giorno si deciderà a ricordare chi l’ha fatta più bella (e non solo più grande) ricordi questo nome: Giovanna Foglizzo, coltivatrice diretta.
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