RVG settimana 18
Radio-video-giornale del Villaggio
Settimana-18 del 2024
RVG-18 - da - Radio-Fornace
Settimana 29⁄04 - 2024-04-29 - Dicembre - Calendario - la settimana
29⁄04 - 18-120 - Lunedi
30⁄04 - 18-121 - Martedi
01⁄05 - 18-122 - Mercoledi
02⁄05 - 18-123 - Giovedi
03⁄05 - 18-124 - Venerdi
04⁄05 - 18-125 - Sabato
05⁄05 - 18-126 - Domenica
29 aprile 2024 - lunedi - sett. 18-120
Notizie dal Villaggio
redigio.it⁄rvg101⁄rvg-xxx.mp3 - qualche parola sull'
Cosa ascoltare oggi
- redigio.it⁄dati2111⁄QGLH1091-festa-ulivo-pt02.mp3 - 6,01 -
- redigio.it⁄dati2111⁄QGLH1092-busto-bruscitti.mp3 - 5,33 -
Varano Borghi -
6) Gaggio: zona che un tempo ospitava due cascine ed oggi ospita il più grande complesso residenziale del paese. Questa zona si trova sul confine con il comune di Casale Litta e con la località Villa Dosia a sud-est del paese. Lo sviluppo di quest'area ha fatto sì che oggi gran parte di questo territorio sia amministrativamente gestito dal comune di Casale Litta
7) Malpaga: ampia località a ridosso del cimitero comunale. Un tempo quest'area era una delle poche coltivate anche se il terreno non era molto produttivo a causa di un terreno particolarmente arido, da qui con molta probabilità il suo nome (mal paga come poco redditizio) Quest'area dopo essere stata quasi completamente trascurata dall'uomo è oggi sede di grandi ville residenziali (V. Ternate n. 15).
8) Stabilimento: noto anche come Stabiliment de Varàn. Sorto nel sud del paese nel 1813 per volere dalla facoltosa famiglia legnanese dei Borghi (già proprietari di ampie zone di Comabbio, Ternate e Corgeno, nonché della stessa Varano), questo grande centro industriale ospitava laboratori di tessitura e filatura dando lavoro a migliaia di persone, non solo di Varano. Da questa attività la famiglia Borghi parti per sviluppare la propria fortuna economica che la porterà ad ampliare Varano e a rimodellarla, secondo le esigenze dello Stabilimento, nella forma urbanistica che assume ancora oggi. L'attività di tessitura durò per più di cento anni; oggi lo Stabilimento è stato in gran parte smantellato e le poche parti ancora funzionanti, comprate da nuovi proprietari, svolgono attività di assemblaggio materiali di plastica e telai.
9) Vigna secca: in dialetto noto come Vigne Sèch. La località posta a pochi metri a nord del cimitero comunale ha ospitato fino agli anni '70 del Novecento coltivazioni di gelsi per l'allevamento dei bachi da seta. Il toponimo è molto ricorrente (v. Ternate n. 35) anche se in questo caso particolare non sembra esserci una diretta corrispondenza con la coltivazione dalla vite.
Dati di concessione. (7- )
In quella famiglia si esercitava umilmente e silenziosamente la carità cristiana; non quella pelosa stile damazze che si fan chiamare della S. Vincenzo. Ceste di carbone per quelle povere donne ormai non più in grado di guadagnarsi da vivere col faticoso quasi disumano lavoro di lavandaia. Corredini ai bambini, contributi immediati affinchè le nozze non si celebrassero con una montagna di debiti e, tanti altri interventi non appena venivano a conoscenza di necessità impellenti.
La conduttrice di questa santa operazione era la figlia, appunto la pianista. E, venne il giorno...
Tutte quelle ragazze e gli amici del marito che avevano beneficiato, sparirono. Non si pretendeva riconoscenza, ma almeno il conforto della parola. Si dimostrarono perfette beghine ed impareggiabili ";basaman";. E' scritto da tempo: se vuoi uno sgarbo o una cattiveria, rivolgiti ai praticanti ostinati dalle mani giunte e sei sicuro di azzeccare in pieno. Quella santa donna si ritirò senza dire niente e senza recriminare, senza dimostrare la sua amarezza, ma nel suo cuore, si pensa o si può facilmente presumere, le son rimaste impresse le figure di quelle persone squalificate che dovrebbero vergognarsi di proclamarsi cristiane.
Compito dello spedizioniere era quello di avviare i carri trainati da robusti cavalli alla Stazione di Porta Genova. Lì arrivavano dalla Sicilia i treni carichi di botti contenenti il vino Marsala.
Le botti venivano depositate nei magazzini e poi distribuite ai vari clienti: alberghi, ristoranti, osterie. La moda di nuovi prodotti ebbe l'effetto di ridurre al minimo il consumo di tale prelibato vino; pensare, e qui viene a galla un ricordo caro, che una bottiglia di quello all'uovo accompagnata da un pacchetto di biscotti ";Savoiardi";, era il rito nel recar visita ai malati convalescenti. Presso questa ditta lavorava uno stalliere che era anche carradore e cavallante: ";el Battista";. Pur avendo una famiglia alloggiata al n°1 della stessa via, lui dormiva nel fienile sopra la stalla e lo fece fino alla fine, quando fu mandato a riposo l'ultimo cavallo ed arrivarono i camioncini.
Tutti lo chiamavano nonno.
Per anni ed anni dormi sulla cascina sopra la stalla, contando il batter degli zoccoli nelle notti brevi. S'alzava al primo suono delle campane per dare il fresco profumato fieno ai cavalli che lo aspettavano.
Parlava con loro ogni sera raccontando le attese nelle osterie, asciugava le criniere umide e li salutava alla voce, per nome.
la storica «martinella» del carroccio
E’ sul campanile di un eremo medievale dell’Oltrepò pavese la storica «martinella» del carroccio
Scoperta per caso durante ricerche sul monachesimo irlandese in Lombardia
La campana del carroccio donata, con la croce lobata, dal vescovo milanese Ariberto d’Intimiano all’esercito della Lega Lombarda come simbolo di richiamo al valore, all’unità e alla fede dei federati lombardi, si trova sul campanile dell’Abbazia di S. Alberto a Butrio di Ponte Nizza in provincia di Pavia.
Chi scrive queste note ha a sua volta approfondito con riscontri e sopralluoghi la scoperta e ha avuto modo di sviluppare, nell’ambito di ricerche storiche svolte sui rapporti tra i Malaspina e l’abbazia di San Colombano a Bobbio, l’interesse per la campana suscitato originariamente nell’architetto Cate Calderini dalle numerose segnalazioni locali, frutto anche, va detto, di testimonianze e di leggende vecchie di secoli.
Il marchese Obizzo Malaspina nell’XI secolo era signore di molte terre e castelli nel territorio che va da Pontremoli fino all’Alto Monferrato ed era personaggio molto influente all’epoca della battaglia di Legnano.
Alla calata in Italia dell’imperatore Federico I da Susa nel 1168 si schierò al suo fianco, col marchese di Monferrato e il conte di Biandrate, ma successivamente ritenne conveniente abbandonare la parte imperiale e aderire agli ideali della Lega Lombarda. Parteciperà quindi alle trattative della pace di Costanza, nel cui documento avrà una citazione particolare . In un manoscritto conservato nell‘Archivio di Stato di Pavia Obizzo Malaspina è indicato come primo «custode» della «martinella» del carroccio .
Un ulteriore supporto documentale ci è stato fornito da Fabrizio Bernini, uno storico del Pavese e del Vogherese , autore di varie pubblicazioni; alla sua cortesia dobbiamo le informazioni, le notizie e i documenti che ci hanno permesso di arrivare alla storica «martinella». L’eremo monastico risale ai primi anni del Mille, quando il frate Alberto, che osservava la regola di S. Benedetto, scelse come luogo di preghiera una grotta naturale tra Begna e Borrione, dove poi sorgerà l’abbazia per opera dello stesso monaco che vi rimase dal 1020 al 1073. Ampie e precise sono le testimonianze raccolte dal Bernini. Esse sono comprovate anche da un memoriale redatto da padre Paolo Cassola, rettore dell’eremo di S. Alberto dal 1900 al 1920. Egli, attingendo anche dal carteggio dei Malaspina, conservato nell’Archivio di Stato di Pavia, aveva raccolto in questo manoscritto la storia dell’abbazia e della campana del carroccio, per ottenere un sussidio straordinario dal Ministero della guerra per i restauri della stessa abbazia.
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30 aprile 2024 - martedi - sett. 18-121
Notizie dal Villaggio
Cosa ascoltare oggi
- redigio.it⁄dati2111⁄QGLH1093-busto-giobia-pt01.mp3 - 6,47 -
- redigio.it⁄dati2111⁄QGLH1096-baco-seta-01.mp3 - 6,25 -
L'È MEJ SARAI SÙ IN D'ON CORTIL D'ON MUSEO COME ON BALLABIOTT
Ballabiòtt : espression dialettale che la voeur dì persona che la var pòcch, de la qual se pò nò fidass : tra el sempliz facilon e el ver e pròppi imbrojon .
I vègg milanes sann però che per capì ben el sò ver significaa se dev fà duu pass in centro e pontà in su la Pinacotècca de Brera. Gh'è minga bisògn de pèrd tanto temp tra i sal per ammirà di quader meraviglios. L'è assee andà denter in del cortil de l'Accadèmia e guardà. Lì, in mèzz, bèlla granda gh'è la statoa dedicada da la città a Napoleon.
L'imperador, el grand conquistador, che l'avaria dovuu sfilà cont i trupp sòtta l'arch de trionf del cors Sempion, l'è immortalaa in del bronz senza vestii: biòtt, come on dio grècch. Almen quèsti eren i intenzion de l'artista.
Ai milanes di primm temp del Vòttcent però la scultura l'ha faa on effètt del tutt divèrs. I popolan, ma fòrsi anca i nòbil, hinn minga riessii a vedè in quèlla statoa nient de eròich ò de spriritualment classich. El comment de tutti l'è staa molto sempliz: «El par vun ch'el balla biòtt».
De chì, la dis la tradizion, el soranòmm ballabiòtt daa prima a la statoa del Napoleon (che l'è stada sarada in del cortil de Brera inveci che missa in mostra in d'ona piazza) e poeu a chissessìa ch'el se comporta senza serietà.
Tutt quèst per dì che el succèss ò la mancanza de succèss d'on monument di vòlt l'è ligaa a di fatt che gh'hann pòcch a che vede cont el giudizzi artistich ò cont i premèss colturai che n'hann stabilii la realizzazion.
I statov, a differenza di quader, gh'hann de spèss ona fonzion pubblica e donca, cont el pubblich gh'hann de fà i cunt. Basta pensà che fin fann i monument de significaa politich: miss in mostra in de la bòna sòrt, spostaa in di canton sconduu quand cala la popolarità del soggètt che gh'è rappresentaa, adrittura tra giò e distrutt quand, cont on improvvis cambiament, la popolarità calada la diventa on cròll violént. Per quèst, se el Comun el decidarà de rivedè la posizion e l'esistenza stèssa de cèrti monument cittadin, el doarìa tegnì cunt, oltra ai valutazion di tecnich, di espèrt e di critich, anca del giudizzi de la gent, che, tutt'i dì, si e troeuva denanz ai oeugg. Monument magari senza on particolr valor artistich, ma car ai abitant d'ona zòna perchè ne fann part da semper e hinn ormai on element del qual se pò nò fà a men perchè el fa part del panorama sentimental disegnaa dai lor ricòrd.
Alter òper, inveci, anca se firmaa da famos autor, hinn minga riessii a conquistà on spazzi in del spirit de la città e di milanes: realizzazion ch'hann minga savuu causà entusiasmo ò affett, ma nanca l'ironia distaccada necessaria a creà on soranòmm per toeu in gir. Basta pensà a la Guggia e Fil del piazzal Cadòrna ò al misterios Monument al Pertini in via Manzon.
E hinn quèsti i òper ch'el Comun el doarìa fà sparì, magari sarandoi sù in del cortil d'on quai museo in doe di espèrt, student e studios pòden esaminai e ammirai, e sparminn però la vista ai passant ingenov.
Pròppi come el vègg ballabiòtt .
Quand a paccià e bev vun el se fa senti l'è meij minga invidall e le meij toeugh on vestii.
Quando a mangiare e bere uno si fa sentire, è meglio non invitarlo e' meglio comperargli un vestito.
Vecchio detto milanese che equivale all'altro anche più noto: «L'è meij caregall che impienill!», ovvero: «È meglio caricarlo che riempirlo!» >, dove si intende affermare che c'è gente che per essere soddisfatta occorre di una quantità tale di cibo che sarebbe meno costoso regalarle un abito; indubbiamente l'espressione che si ravvicina di più è quella genovese «U gh'ha nu stomegu de dui camali de portu» (ha lo stomaco di due scaricatori del porto).
El cicisbeo
Did scisciàa, ong resignàa [l'è ciar patent che l'è timidezza, rabbia [o pentiment.
Dita succhiate, unghie [rosicchiate è chiaro patente
che è timidezza, rabbia o [pentimento.
Un detto con tutta la sua eloquenza; un motteggio per coloro che hanno la cattiva abitudine di fare l'una o l'altra cosa quasi per vizio in circostanze di perplessità, indecisione.
Busto Arsizio - cap. 9 (1⁄4)
«capitolo 9
Sono partiti i << lurücchi » o « zurücchi » che dir si voglia (dal zurüch tedesco, e, prima di loro, i francesi venivano chiamati familiarmente i « lüsanfran>> dall' << allons enfants » della marsigliese); non si sono ancora sistemati i nuovi uffici di Sua Maestà Sarda; tutto è ansia per la guerra che si avvicina ai giorni di San Martino e Solferino; i primi militi della Guardia Nazionale fanno la loro apparizione col giubbotto a righe turchine; i cantastorie che intrattengono il « colto e l'inclita » sulla piazza cantano già le prime strofe patriottiche; e già si sente aria di insofferenza e di rivolta. << Adesso come prima»: parola d'ordine degli insoddisfatti.
Il 27 giugno il Capitano Gio. Donato Travelli << rassegna » all'Onorevole Deputato Politico di Busto Arsizio, un suo preoccupato rapporto: « L'Esponente Capitano della Guardia Nazionale Bustese, denuncia che per comunicazione di probissime persone, che indicherà anche nominativamente ove sia del caso, jeri a sera, verso le ore 11 pomeridiane il Crespi Battista detto il Muto del Mania famigerato sinistramente per condotta pregiudicata, con altri due individui, che si va a procurare di conoscere di nome, in un attruppamento di popolo, che veniva verso il Corpo di Guardia attuato nella Contrada della Finanza (l'attuale via Cavour), in occasione d'un arresto eseguitosi, minacciava di scaricare delle pistole nello stesso Corpo di Guardia, e contro i militi Nazionali, e ne furono impediti da individui vicini, che in seguito a regolare procedura, che si avesse ad instruire si potranno scoprire.
<< Interessa urgentemente, una perquisizione rigorosa al domicilio del Crespi, soggetto assai pericoloso e di notoria capacità a qualsiasi delittuosa azione, per trovarvi armi, o munizioni, che presso un simile individuo potrebbero essere fatali, ed anche l'arresto personale dello stesso Crespi, che fu sempre ed è tuttora un pessimo soggetto sotto ogni rapporto. Busto Arsizio 27 giugno 1859 ».
I deputati Pasquale Pozzi e Angelo Airaghi trasmettono la lettera ai RR. Carabinieri con una nota: < Crespi Battista detto il Muto è individuo di pessima condotta pregiudicato per detenzioni moltissime sofferte come ladro e aggressore... ». La perquisizione subito effettuata la notte stessa non frutta nulla: il Crespi non è in casa, i parenti non ne sanno nulla e non si trovano armi. Ma i deputati insistono poco soddisfatti dell'insuccesso, ed entra in scena anche un soprannome noto, il Bili.
<< All'On. Comando dei R. Carabinieri in Luogo. Ad onta che dalla perquisizione eseguita al domicilio del nominato Gio. Battista Crespi non sia emersa le esi stenza di armi o munizioni essendosi egli trovato assente da casa ad ora così avanzata, la Deputazione avendo tutto il fondamento di credere che questo cattivo soggeto sia assente per commettere misfatti, trova opportuno di interessare l'On. Comando a porsi sulle tracce onde conseguire il di lui arresto.
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01 maggio 2024 - mercoledi - sett. 18-122
Notizie dal Villaggio
redigio.it⁄rvg101⁄rvg-xxx.mp3 - qualche parola sull'
Cosa ascoltare oggi
- redigio.it⁄dati2111⁄QGLH1097-casa-bustocca.mp3 - 3,32 -
- redigio.it⁄dati2111⁄QGLH1094-busto-giobia-pt02.mp3 - 7,45 -
Dati di concessione. (8- )
Quando la stalla fu chiusa, singhiozzò disperatamente aggrappato al collo del moro.
IL VERO POETA
Un architrave - qualche mattone - son testimoni - d'una casetta:
l'hanno distrutta - hanno abbattuto - con le sue mura - tanta tristezza.
Ci stava un uomo - un vero poeta - la notte usciva - a declamare -
con la sua voce - calda e profonda, - brani di dramma - battute amare.
Nessuno mai - l'ha preso sul serio - neanche sua madre - l'aveva capito
con ossessione - l'aveva stordito, - doveva farsi - una posizione.
La posizione l'ha fatta in un lager - dove ha lasciato - mezzo polmone;
nelle baracche - di legna marcia - scriveva versi - sopra un cartone.
Per tanti anni - ha fatto l'attore - in un teatro - con poche scene;
qualche parrucca, - e nel sottopalco s'era ghiacciato - anche il cerone.
Era un teatro - di povera gente - veniva in sala - con lo scaldino
ed aspettava - il gran scenone - da raccontare - alla vicina.
Han detto in tanti ch'era un fallito - qualcuno ha detto - ch'era un barbone,
non gli riguarda - non fa attenzione - torna a cantare - qualche canzone.
Una di queste - è tutta un'accusa - l'altra rammenta - giorni felici, l'ha scritta apposta
per farne un coro; - la canteranno - quei pochi amici.
Sulle macerie di quella casetta hanno costruito un palazzo lussuoso tanto per non essere da meno con gli altri dirimpettai: so che qualcuno si è preso la briga di chiamarli ";le torri";.
Si pensava e ci si illudeva che i nuovi inquilini o condomini arrivati chissà da dove, senza tradizionali basi ben radicate in un quartiere, con pazienza e costanza, si sarebbero inseriti nell'ambiente.
Non s'era fatto i conti con la loro estrazione non certo popolare in quanto a cultura, che non poteva contemplare tale processo.
Pochi i casi validi a rendere meno dura la disillusione.
Non si sa bene e, forse nemmeno vale la pena di saperlo, se il loro stare insieme, si fa per dire, uscio a uscio abbia potuto suscitare il desiderio di rapporti amichevoli e profondi: in parole povere qualcosa di serio.
Pensiamo proprio di no.
";Sarà difficile ch'io ti sposi"; dice un antico adagio ";dal ciel vedrai cader la neve nera";.
Qualcuno dei nostri vecchi, volutamente fatti scomparire, con una certa arguzia tipica degli uomini di ringhiera, avrebbe certamente sottolineato che in una delle case nuove: ";gh' è voeuna che l'è al governo";.
Tanto per finire in gaudio questa divagazione, certamente non a tutti simpatica.
SOROR JULIANA DE PURIZELLIS DE CASSINIS DE VERGHERA (1426-1501) (2-2)
L'attività delle "selvatiche" (così erano chiamate le donne penitenti, che pregavano vivendo una vita primitiva di stenti e privazioni, lontane dal mondo) da quel momento assunse, sotto l'impulso di Caterina e di Giuliana, nuove forme di vita pratica, evolvendo da un individualismo ascetico ad una comunità inserita nel tronco allora assai vivo della regola agostiniana.
Le celle, le capanne, le grotte sparirono e accanto alla basilica della Madonna sorsero le alte mura del monastero, arcigno e potente come una fortezza, ma come una fortezza della fede. Giuliana fu sempre considerata, nella sua qualità di prima compagna di Caterina da Pallanza, cofondatrice delle romite del Sacro Monte.
Quando questa morì (aprile 1478), benché fosse eletta a succederle nella direzione del Monastero, per le sue innegabili doti di governo Benedetta Biumi, tutte le suore si strinsero spiritualmente intorno all'ormai vecchia conversa Giuliana.
Non sapeva né leggere né scrivere e delle tante preghiere ispirate dalla pietà cristiana, aveva imparato solo il Pater Noster e l'Ave Maria. Divideva il suo tempo tra la macerazione del corpo stanco e vecchio e l'obbedienza; era umile con le consorelle e prodiga nel soccorso ai poveri e agli infelici.
Giuliana morì settantacinquenne il 15 agosto 1501 e le sue spoglie mortali riposano nell'oratorio della Basilica di S. Maria, vicino alla Beata Caterina, da Pallanza.
Le vite dei santi sono intessute di fatti meravigliosi: quelle di S. Francesco, di Santa Caterina, di Sant'Antonio, di S. Chiara ne sono l'esempio più fulgido. Il meraviglioso nella vita della Beata Giuliana sta nella sua profonda umiltà che è stata la pietra angolare su cui hanno poggiato tutte le altre sue virtù: l'obbedienza, l'amore per i suoi simili, il lavoro indefesso, la preghiera costante, il sopportare con ferma rassegnazione tutte le prove e le tentazioni mandatele dal Signore. Un carattere deciso e assoluto, fiorito dalla sua origine di umile contadina. Per seguire Gesù abbandona la sua casa, la sua terra, i genitori, i fratelli, la brughiera: non ha forse il Maestro detto che non è degno di lui chi non ha il coraggio di abbandonare tutto ciò che possiede?
Giuliana non ha avuto esitazioni o debolezze: ha abbandonato la vita contadina che le poteva dare sicurezza e gioia, per la solitudine e la preghiera.
Il «fenomeno»> Fred Buscaglione
è un personaggio atipico nel panorama della musica leggera italiana. Inizia la carriera suonando il contrabbasso, si diploma al Conservatorio e si cimenta anche col violino. Lo attira il jazz e la sua voce, roca e particolare, lo asseconda in questa direzione. Siamo ancora negli anni dell'anteguerra quando, girando per i locali di Torino, fa amicizia con Leo Chiosso che scrive testi per canzoni, per programmi radiofonici e teatrali.
Inizia fra di loro un sodalizio che, nel dopoguerra, sfocia in risultati davvero sorprendenti. Fred viene lanciato come un personaggio alla Clark Gable di periferia, un rubacuori da strapazzo, ma molto simpatico.
Il suo repertorio si anima di pupe imprevedibili che lo amano e lo fanno soffrire. Nascono canzoni memorabili che incontrano il favore del pubblico, come Che bambola!
Mi trovavo per la strada
circa all'una e trentatrè
l'altra notte mentre uscivo
dal mio solito caffè,
quando incontro un bel mammifero modello 103, che bambola!
Chi è Porfirio Villarosa se non Buscaglione stesso, viveur made in Italy? Canzoni ironiche che si adattano perfettamente allo stile di vita di Fred, col baffo da conquistatore.
I locali alla moda se lo contendono e lui presenta Teresa non sparare, con una singolare interpretazione del testo.
Teresa, ti prego, non scherzare col fucile per la rabbia tua, la bile può scoppiar.
Perciò Teresa, ti prego, non scherzare col fucile, far così non è gentile...
Un altro clamoroso successo si rivela Eri piccola (così).
T'ho veduta, t'ho seguita,
t'ho fermata, t'ho baciata.
Eri piccola, piccola, piccola così.
Tutti i testi di Chiosso funzionano a meraviglia ed è un trionfo. Molto bello il brano Che notte (quella notte!)
Che notte, che notte quella notte!
Se ci penso mi sento le ossa rotte; beh, m'aspetta quella bionda che fa il pieno al Roxi-Bar...
Di Chiosso e Buscaglione, ai primi passi, è anche un pezzo particolare, diverso da tutti gli altri. Forse anche difficile da piazzare, Jumbala Bay. Piace a Gino Latilla che deve faticare non poco con Angelini per farlo accettare nel repertorio. Si rivela una canzone azzeccata. Latilla, riconoscente, si presta per aiutare il lancio di Fred come cantante del complesso degli Asternovas, che annovera musicisti come Pisano e Libano, destinati a una brillante carriera. Uscendo dal suo cliché, Buscaglione canta Guarda che luna, uno slow molto piacevole e pieno di atmosfera, scritto da Pallesi e Malgoni.
Guarda che luna, guarda che mare,
da questa notte senza te dovrò restare, folle d'amore, vorrei morire,
mentre la luna di lassù mi sta a guardare...
Rientra nel personaggio con Whisky facile, una canzone autobiografica. È proprio lui quello, con la sigaretta eternamente fra le labbra e un bicchiere di liquore da vuotare. Ha bevuto un po' troppo anche quella notte quando, all'alba del 3 febbraio 1960, si schianta a Roma con la sua Thunderbird color rosa, contro un camion. Non esiste ancora il controllo con l'etilometro, ma le parole della sua ultima canzone sono una dichiarazione di responsabilità. Se c'è una cosa che mi fa tanto male è l'acqua minerale! È proprio entrato nel personaggio. I fan accorrono numerosi al suo funerale per testimoniare il loro dolore. Fred è ancora vivo nei ricordi della gente.
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02 maggio 2024 - giovedi - sett. 18-123
Notizie dal Villaggio
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Cosa ascoltare oggi
IN GIRO PER LE PORTE (15- )
Quando era di riposo, camminava pendendo a sinistra come avesse sempre il borsone a tracolla.
Nelle serate d'estate scioglieva la stanchezza accumulata nel continuo andare, mettendo a mollo i piedi: l'acqua veniva riscaldata in un catino esposto sulla ringhiera assolata.
La sua smisurata passione per i fiori seminati e raccolti in alte cassette a muro, recava qualche conforto alla vitaccia grama.
Andava di rado all'osteria per evitare discussioni.
Quelli che lavoravano "sotto Comune" o alle dipendenze dello Stato, venivano tollerati, purchè non mettessero in bella mostra il loro privilegio di "piantastabile", lavoro assicurato. Se sgarravano saltavan fuori le massime "vojalter tranvier sii di mandrogn o giò de lì".
"I portaletter e i borlacatt, dazieri, se hinn no badin hinn lomellin" e, via di questo passo senza trascurare i ferrovieri anche loro coinvolti nel discorso. Si pensi che in Via Faraday, una laterale di Lodovico il Moro, esiste una casa costruita nel 1910, alla quale hanno affibbiato il nome "cà di portaletter", appunto per il tipo e la professione degli inquilini.
Patetica la tua figura "Gioanna matta": non eri per niente pazza, forse un poco stramba, ed inventavi storie a non finire.
Tra una decina e l'altra del rosario, le raccontavi ai bambini terrorizzati dal buio delle cantine usate come rifugio antiaereo; la specialità tua era la varietà di battute comiche e maliziose che uscivano dalla bocca, si fa per dire, della balbuziente "erba peteghina".
Ogni sabato sera s'aspettava la scena fissa, e tutti a sbirciare dagli usci semi aperti o appostati lungo le ringhiere.
Attenzione: sta per arrampicarsi su per le scale, la famiglia de la Fiora; meta la loro stanza.
Sequenza scenica.
La moglie scendeva al trani per raggiungere il marito: ricordiamo che per trani si intendon quelle osterie dedite alla mescita dei vini pugliesi, donde il nome.
Visto il marito allegrotto, si lasciava tentare da alcune "staffette" di squinzano o giù di lì, dimenticando in breve lo scopo della sua visita.
I figli maschi, erano tre, non vedendo arrivare i genitori si preoccupavano a turno di rintracciarli; chiaramente ad uno ad uno facevan la stessa fine. Ed ecco allora che, buttati fuori dal locale, si formava la malsicura cordata; a tempo di record un'oretta buona per conquistare il quarto piano. Nel dì ch'era di turno per il riposo settimanale, i giovanotti e le signorine assediavano il Battista, cameriere in prima al Carminati, ritrovo noto in piazza Duomo con vista su piazza Mercanti, per saper ben ben come andavan le cose in un "sit de nott" a loro inaccessibile.
Lui, ricamava ed arrotondava in abbondanza tirando fuori, oltre ai fatterelli piccanti, cifre quasi astronomiche che la gente spendeva nelle raffinate baldorie: indi chiamava in causa la Lina del secondo piano, donna che poteva confermare essendo serva in casa di ricchi signori, e di quei signori confidente del signorino maggiore.
Notti da hooligans con la "Compagnia de la teppa"
Non sarà un primato di cui andare orgogliosi, ma Milano ha anticipato di ben 170 anni gli scatenati hooligans che approfittano degli appuntamenti sportivi per manifestare la loro violenza. E' evidente che per la nostrana Compagnia de la teppa, poco meno di due secoli fa, altri erano i motivi per inventare cagnara e spedizioni punitive. Le partite di calcio a quel tempo non potevano certo essere un pretesto. Tuttavia si possono riscontrare due elementi in comune, tra gli hooligans di oggi e i teppisti milanesi di ieri: la violenza gratuita e la predilezione per le osterie e le sbronze colossali.
Ma, anzitutto, perchè teppa?
C'è chi ha fatto derivare la parola dal croato teppis, che vuol dire violento; altri, sembra con più valida ragione, hanno osservato che teppa, in dialetto milanese, significa muschio e poichè la Compagnia usava spesso ritrovarsi di notte all'aperto su una scarpata del Castello ricoperta di muschio, sarebbe questa l'esatta origine dell'appellativo. Non basta: distintivo dei teppisti era un cappello di feltro di colore variabile ma dal pelo a riccio "lungo sollevato e scomposto" (come spiega Giuseppe Rovani nei suoi "Cento anni"), proprio come il muschio: ecco dunque un altro solido argomento per spiegare quel nome.
La Compagnia de la teppa teneva il suo quartier generale all'osteria e sovente traslocava.
Dall'osteria del Galletto a quella del Monte Tabor (era aperta a Porta Romana, frequentata dagli aristocratici, dal vicerè Ranieri e consorte), alla Villa Simonetta: non andiamole a cercare, sono tutte scomparse.
I suoi componenti non erano malavitosi di professione, bensì figli di buone famiglie borghesi, nobili, artisti (lo scultore Pompeo Marchesi): giovanotti scapestrati, dagli ideali infranti, che uscivano dal terremoto provocato da Napoleone e mal sopportavano l'avvento della Restaurazione. Bastonare un passante sconosciuto sorpreso in solitudine in piena notte, prendere a sberle un ufficiale austriaco, entrare in un locale per buttare all'aria una riunione conviviale, pestare un marito per portargli via la
moglie: erano questi i passatempi preferiti dalla Compagnia de la teppa. La quale rimase in vita dal 1818 al 1821 e finì i suoi giorni in un'aula del tribunale: 118 imputati.
Il fattaccio che ne decretò la sparizione va ricordato.
Due cervelli della banda, il sedicente "barone Bontempo", anche noto come "Mazzasès" (ammazzasei) e lo svizzero Mauro Bishinkommer organizzarono il rapimento di una ventina di dame, tra le più altezzose e galanti dell'alta società, e le condussero alla Villa Simonetta, dove era stato predisposto un sontuoso banchetto, a base di manicaretti intrisi di afrodisiaci.
Come commensali le attendevano altrettanti nani, racimolati da "nan Gasgiott", addobbati da re e principi con costumi affittati alla Scala.
Il festino degenerò e la teppa dovette intervenire per calmare a colpi di bastone i nani più eccitati. Le signore furono poi riaccompagnate a domicilio indenni e non fiatarono.
Ma lo scherzo era andato oltre i limiti, la gendarmeria ne venne a conoscenza e scattarono le manette.
Fioeu de gent per ben e no del guast 'na batteria de marca giovinaster, quand ghe girava de traa per ari el bast," oltra a del mal, faseven di disaster.
(1) - Vers el vòttcentvint la gran battuda, tarej al vent, bonbon con pres de streppa. Ma poeu, 'na nott, la pola l'ha bevuda 'sta grama Compagnia de la Teppa.
1) la frase significa "fare cose sconsiderate". Oggi diciamo "fare casino".
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03 maggio 2024 - venerdi - sett. 18-124
Notizie dal Villaggio
Cosa ascoltare oggi
Storia di Busto - e le relazioni
I quartieri e le contrade del borgo
Ma io e da alcune piccole memorie e specialmente dal legato Verfloa dei Castoldi che morì circa il 1350 ho appreso che questo quartiere non si chiamava Piscina ma Pessina e la strada si dovrebbe chiamare Pessinunte. Fu Pessino, un emporio della Frigia, e se crediamo a Strabone, un luogo di mercato costruito dai re Attalici o Asiatici con portici e un tempio dedicati a Cibele, madre degli dei, in onore della quale era stata innalzata una statua e si facevano dai Frigi delle rappresentazioni teatrali turpissime, accompagnate dal suono delle tibie e dei timpani. Questa statua o grande sasso, che per essi fungeva da statua, fu trasportata dai Romani dal monte Ida, donde Cibele prese il nome di Idea, a Roma e posta sul Palatino, sotto il consolato di P. Cornelio Scipione Africano e di P. Licinio, come attesta Livio nel libro 19. Ma dopo tredici anni M. Giunio Bruto dedicò alla stessa Cibele Berecinzia un tempio fatto fabbricare dai consoli P. Cornelio e C. Claudio.
I Romani poi vollero che il 12 Aprile, giorno in cui la statua era stata trasportata a Roma, si celebrassero quei giuochi che furono chiamati Megalesi, cioè grandi. In essi gli attori rappresentavano sulla scena con grande lascivia le azioni più sporche e più turpi, e questa impura superstizione dei Romani altri, per altri rispetti onestissimi, abbracciarono e divulgarono, vagando per le città, senza trattenersi da parole o da fatti indecenti, cosicchè furono chiamati i sacri cinedi di Cibele. Questa dea fu identificata con Rea e con Vesta e dai Romani fu chiamata Pessinunzia dalla città di Pessinunte.
Ora si deve credere che giuochi di questo genere siano stati portati dai Romani anche nell' Insubria, perchè, essendo pieni di licenza e turpitudine, stimavano fossero gratissimi a tutto il consesso degli Dei che, come scrive Diodoro nel libro IV della sua Biblioteca, si credevano generati da quella dea e cioè al Sole, alla Luna, a Giunone, a Nettuno e a Plutone.
Ora, tornando al nostro borgo, dopo che i Romani ne ebbero il possesso, si deve pensare che vi cele- brassero anche questi giuochi e specialmente in questo quartiere dove già dicemmo che dagli stessi fu eretta la rocca.
Perciò io direi che questo quartiere fu chiamato Pessina, e la contrada Pessinunte, dai giuochi che si celebravano in onore di Cibele a Pessinunzia. Alcuni vestigi di questi giuochi si osservano ancora Milano e quasi in tutta l' Insubria. Infatti non v'è quasi paese di essa in cui, in un giorno stabilito, gli uomini non s'aggirino schiamazzando troppo liberamente e abbandonandosi ad atti licenziosi quasi fossero divenuti pazzi. Qui poi, questo costume è più vivo che in altri luoghi; poichè il 24 luglio gli uomini corrono per il borgo, suonando flauti e zampogne e, percuotendo oggetti di bronzo come fossero timpani, irrompono nelle case delle donne di malaffare; e in queste azioni si distinguono sugli altri gli abitanti di questo quartiere e quelli della contrada Sciornago.
Quanto queste costumanze si accordino con quelle dei giuochi Megalesi, lo mostrano i versi di Ovidio nel libro IV dei Fasti:
Tosto Berecinzia col corno ricurvo Suonerà, e vi saranno le feste della madre Idea. Andranno i mezzi-maschi, e percuoteranno [pazzamente i timpani E i bronzi, percossi col bronzo, risuoneranno. Il flauto dà come prima i ritmi frigi.
Di qui forse derivò quella oscenissima maniera di parlare che così si propagò che non solo gli uomini, a cui dalla superstizione romana era permesso, ma anche le donne alle volte la usano senza alcun riguardo al decoro e alla cristiana onestà (1).
(1) È quasi inutile osservare che questa lunga elucubrazione sul- l'origine del nome del quartiere Piscina va relegata nel mondo dei castelli in aria. Essa però dimostra l'erudizione del nostro cronista, che cita di prima mano gli autori latini e insieme il vezzo, comune fin dal medio evo e rafforzatosi nei secoli dell' Umanesimo, di ricorrere ai Romani per spiegare anche ciò che con essi non ha niente a che fare. La spiegazione più semplice e più verosimile è che il quartiere si chiamasse Piscina (e non Pessina) per la presenza della famosa vasca a cui si conducevano gli animali per l'abbeverata.
È contiguo alla contrada Pessinunte il quartiere che chiamiamo Sciornago o Zoornago. Esso è il più piccolo per numero di edifici, ma per lo splendore di essi, per la quantità delle ricchezze, per la generosità pia non è superato da nessun altro. Dopo aver indagato accuratamente la forma e l'etimologia di questi nomi, mi son fatta la convinzione che essi siano corrotti e penso che si debba dire non Sciornago o Zoornago ma Siornaco o Zoornaco; e a ciò mi fa pensare e l'angustia del luogo e la qualità degli abitanti. Abbiamo detto che è un quartiere assai angusto e piccolo; esso ha anche degli abitanti facilissimi all' ira. Perciò non è fuor di luogo asserire che si chiami Siornaco, che significa piccolo, turbolento e torbido e preparazione al dolore. Infatti sior significa piccolo, turbolento e torbido; nachon, invece, dolore preparante. O almeno si dovrà dire Zoornaco, che significa quasi la stessa cosa, se è vero che zoor vale iracondo e nachon preparante il dolore o preparazione dell' iniquità, perchè questa contrada è iraconda e facile a organizzare la vendetta, e i suoi abitanti difficilmente si lasciano superare da chicchessia e sono intollerantissimi delle ingiurie. (1)
(1) Anche la spiegazione, ingegnosa se si vuole, del nome del quartiere Sciornaco, proposta dal cronista, non può essere ac- cettata; poichè niente giustifica il ricorso che il Crespi fa a parole tedesche (Zorn, in tedesco, significa ira) o celtiche, per spiegare un nome che deve riferirsi a circostanze locali.
La terminazione in ago si trova, infatti, in molti nomi di paesi della regione lombarda (Sacconago, Crennago, ecc.) e pare signi- fichi abitazione; e il nome Scior perchè non potrebbe essere il milanese Sciur - signore (dal latino senior)?
In appoggio a questa mia interpretazione cito il fatto che il quartiere Sciornago, press'a poco le odierne vie Porta, Lualdi ed adiacenti, fu in antico abitato dalla parte più ricca della popolazione del borgo.
Il Ferrario (o. c.) ci dice solo che questo quartiere era abitato da più famiglie dei Gallazi, ma si può ricordare che i Gallazi diedero a Busto fin dal Medio Evo notabili, parroci e magistrati, e che dalle carte notarili appaiono fra le più ricche famiglie del borgo.
Per questo io propenderei a credere che il nome Sciornago sia derivato al quartiere dalla qualità di ricchi dei suoi abitanti.
Ma veniamo all'ultimo quartiere. I nostri maggiori l'hanno chiamato Vico sano per l'aria salubre e per il cielo clemente; e infatti non v'è contrada in tutto il borgo che abbia un'aria più temperata e più costante. Per questo, quando scoppiò la peste che nell'anno 1524 dall' Incarnazione del Verbo invase non solo Milano ma anche i luoghi vicini e principalmente questo borgo, quelli che erano stati preposti a curare il morbo stimarono che nessun luogo fosse più atto a piantare le capanne degli infetti e a curare il morbo che quello che chiamiamo il prato di Sanovico (1).
(1) A questo riguardo si deve notare che nella tradizione e nel dialetto bustese il nome del quartiere, che corrisponde all'odierna via Montebello e vicoli annessi, è Savigo non Vicosano. Il che farebbe pensare dapprima al nome di un Santo: San Vico, cioè San Lodovico. Ma poichè non consta che i Bustesi ebbero mai una devozione speciale verso questo santo, bisogna accettare la spiegazione del Crespi e pensare che Savigo sia derivato da Sano vico. Il fatto poi, asserito dal nostro cronista, che il quartiere godesse d'un clima migliore degli altri e contasse pochi ma begli edifici, quantunque possa suscitare un po' di meraviglia perchè il quartiere cosi com'è ancor oggi, col dedalo dei suoi vicoli e con l'angustia della sua contrada, appare a noi moderni come tutt'altro che sano e bello, può essere facilmente spiegato pensando che questo quartiere è posto a settentrione e riceve quindi l'aria fresca e sana dei monti, e nella sua parte più settentrionale si elevava gradatamente verso la porta rendendo possibile l'erezione di edifici che, a confronto della maggior parte delle casupole costituenti il borgo, potevano esser detti belli.
Molte cose ornano questo luogo di cui diremo in appresso.
Solo, a conclusione di questo capitolo, aggiungerò che a ogni quartiere si accede per le rispettive porte, delle quali altrove dicemmo. Presso di esse furono edificate le case dei custodi che il popolo chiama parnarecie ma io chiamerei prunarecie dai bracieri vicino ai quali i custodi sedevano (d'inverno) (1). Ma oramai tutte queste porte sono cadute in rovina e, eccetto le volte, niente è rimasto, quantunque si vedano ancora i vestigi e delle prunarecie e dei ponti mobili, e io stesso abbia osservato nella casa parrocchiale della Chiesa di S. Maria in Piazza delle grosse catene che vi sono state conservate fino al nostro tempo.
(1) Il nome, storpiato come al solito dal popolo, è ricondotto dal Crespi alla sua esatta lezione. Esso viene da pruna che in latino vuol dire bracie, carboni accesi.
Quali vicende disgraziate abbia incontrato il borgo e quali cose meravigliose vi siano accadute
È impossibile narrare quante volte questo borgo abbia esperimentato l'avversa fortuna; tuttavia tenterò di riferire i fatti che ho appresi o dalle relazioni anteriori o dai monumenti antichi o che le vicende dei tempi mi inducono a credere siano realmente avvenuti.
Tralascerò i danni e quegli antichissimi eccidi che il borgo subì o dal senone Brenno o sotto i Romani, perchè già ne ho fatto menzione quando ho narrato gli inizi del borgo, là dove dissi che esso fu ridotto all'estrema rovina e per tanto tempo rimase così devastato che ne venne un grandissimo bosco, ricoscimento
TRAVEDONA-MONATE -
67) Selvetto: in dialetto Selvèt è la zona a sud del Rünch a ovest del paese di Travedona sul confine con Monate. Il termine selv come indica una zona di boschi ed è frequentissimo in toponomastica.
68) Sóche: piccolo balzo del terreno che sovrasta il Ruetàri a sud della zona boschiva del Bosch e del Bosch Gros. In dialetto soca designa la "gonna" ma non crediamo essere questa l'origine del nome. Per trovare un'etimologia più plausibile possiamo considerare la voce dialettale zòca che ha vari significati tra i quali "buco scavato per contenere acqua a scopo domestico1185 (cfr. Socco frazione di Fino Mornasco -CO-)18%, oppure la voce dialettale sòch "ceppo" o "ciocco", ad indicare forse una cumulo di ceppi di legno.
69) Strecciolo: è una strada stretta, detta in dialetto streciöö, che si dipana nel centro del paese. Un tempo era più lunga e portava fuori dal centro; ora invece è stata tagliata e designa un tratto non più lungo di 30 metri (v. Cazzago Brabbia n. 25).
70) Tajagrande: località nota anche come Tajanmèz. Prende il nome da una strada che divide in due parti l'antica zona boschiva del paese segnando l'arbitrario confine tra il paese e la campagna di Travedona (v. Cadrezzate n. 33).
71) Turàsce: piccola lingua di terra che si estende latitudinalmente in località Monate a sud del Löch poco distante dalle sponde del Lago di Monate (v. Cazzago Brabbia n. 28).
72) Vallone: in dialetto noto come Valün. Il sito è a nord del Chiosetto ed è caratterizzato da una leggero pendio che va restringendosi verso la strada provinciale che segna l'ingresso in Monate (v. Mercallo n. 24).
73) Vignöö: piccola area un tempo coltivata a vigna limitrofa al Peze al confine tra Travedona e Monate (v. Cadrezzate n. 38).
74) Vignuvéle: località di Travedona a ridosso del Salvascéte e a nord del Laghèt un tempo utilizzata per la coltivazione dell'uva. Da pochi anni quest'area è stata ripresa in mano dalla Pro Loco cittadina e riutilizzata per produrre il vino di Travedona proposto spesso nella ristorazione locale ed esportato anche all'estero. Il nome dell'area dovrebbe essere con tutta probabilità un composto di "vigna" e "novella".
75) Zavattè: (žavattè) in dialetto sciavatàa designa "il ciabattino "Il toponimo riprende il nome di un possibile artigiano che li vi lavorava o un soprannome di qualcuno che così poteva essere scherzosamente chiamato
Ospedale di Saronno: un percorso di 108 anni
La storia comincia lontano, ufficialmente il 10 settembre 1893, quando fu inaugurata la prima sede dell’Ospedale di Saronno: dieci letti e tre infermiere sotto la direzione straordinaria di Padre Monti, il fondatore dell’Ordine dei Concezionisti, proposto recentemente per la beatificazione, da Papa Giovanni Paolo II. Un percorso lungo 108 anni che, sul filo della memoria, richiama subito i milioni di persone che hanno varcato la soglia del nosocomio per riceverne cure e prestazioni, alle centinaia di medici e infermieri che si sono prodigati, per dare sollievo ai loro pazienti, con i mezzi messi a loro disposizione.
La cittadinanza di Saronno, vive la realtà dell’ospedale in modo quasi esclusivo, considerandola, a torto o ragione, una cosa che appartiene per diritto alla città. Del resto, l’iter per la costruzione dell’ospedale è proprio da ascrivere al merito esclusivo di alcuni benemeriti cittadini saronnesi: Giovanni Campi, Giuseppe Legnani e Giovanni Volonteri che, ancora trent’anni prima dell’inaugurazione dei "dieci letti", vale a dire nel 1861, costituirono una commissione per raccogliere i mezzi necessari per realizzare un ospedale pubblico. Verso la fine del secolo, grazie alla munifica donazione di un’area di circa 10.000 metri quadrati ubicati nell’allora periferia della città, da parte delle sorelle Lucini, si diede inizio ai lavori di ampliamento e alla costruzione del primo vero edificio ospedaliero. Il nuovo nucleo fu inaugurato nel 1901 e a condurre il nuovo ospedale, fu chiamato don Giuseppe Borella che con un piglio imprenditoriale ed un carisma particolare riuscì, in quindici anni, a far ingrandire il nosocomio e a renderlo una realtà molto importante per tutto il territorio saronnese. Un busto in bronzo, all’ingresso del padiglione di Medicina, ricorda a tutti coloro che varcano la soglia l’opera di questo prete-imprenditore che è riuscito a coniugare carità ed efficienza. Agli infermieri di Padre Monti si aggiunsero, per il reparto femminile, le suore del beato don Luigi Guanella, altro personaggio che ha lasciato i segni del suo passaggio, fondando la Congregazione delle Figlie di Santa Maria della Provvidenza. Nel 1924, l’ospedale, viste le dimensioni e l’importanza territoriale conquistata, fu classificato come Ospedale di Circolo. Nello stesso anno, un altro lascito, del saronnese Morandi, permise la costruzione del nuovo padiglione riservato alla maternità e da allora è stato un susseguirsi di modifiche strutturali che hanno portato l’ospedale cittadino, ad essere una realtà molto importante per Saronno e per tutto il circondario. Alle suore di don Guanella, subentrarono le Suore Francescane Angeline la cui presenza, rimasta ininterrottamente intrecciata all’esistenza dell’ospedale, continua ancora ai nostri giorni. Nel 1993, l’ospedale ha festeggiato, alla presenza dell’allora Ministro per la Sanità Maria Pia Garavaglia, i suoi… primi cent’anni. Oggi, è diventato parte integrante dell’Azienda Ospedaliera di Busto, Tradate e Saronno alla cui direzione generale c’è il dottor Ambrogio Bertoglio. La direzione sanitaria di Saronno è affidata al dottor Cavallaro, mentre il dottor Osvaldo Basilico è responsabile per la parte amministrativa.
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04 maggio 2024 - sabato - sett. 18-125
Notizie dal Villaggio
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Cosa ascoltare oggi
Dati di concessione. (9- )
L'attività dello spedizioniere comportava l'assunzione di uomini di fatica, i facchini.
Onde avere la possibilità di averli raggruppati, diciamo a squadre, s'era costituita una cooperativa.
Il primo ";ufficio";, anticamente si trovava in Alzaia Naviglio Grande n°6, fu poi trasferito in Piazzale Stazione Genova più per ragioni di comodità che di necessità; il lavoro non mancava, ce n'era tanto da richiedere mano d'opera su altre piazze.
Per poter rintracciare questi robusti ed infaticabili omaccioni, era semplicissimo: bastava mettere dentro la testa nell'osteria accanto; un calicino giusto e, contratto fatto.
L'insegna in vetro color amaranto, una dicitura in oro scuro: ";Osteria della Regina"; il nome della padrona, simpaticamente soprannominata la ";Gondrana"; riferendosi alla sua stazza grossolanamente assomigliante ai robusti brocchi della Ditta Gondrand.
Era una Ravini imparentata con quel tal Ravini nominato ";el Verdi"; data la sua smisurata passione per l'opera lirica, della quale conosceva non solo romanze, ma brani e recitativi; alla sua maniera, s'intende.
Anzichè pollo scriveva "pulo" e "risso" al posto di riso, ma sapeva far di conto, senza sbagliarsi mai.
Ad una certa ora, sera tarda se non notte, s'adunavano quelli che del canto ben ne conoscevano lo stile ed il fascino. Fossero "brusaton" ovvero cremazionisti anticlericali, oppure "paolott" o "martorott de l'oratori" non importava; ciò che valeva era il cantar bene.
Quando scivolavano nel lirico, per intonarsi "s'interzavano", passandosi sottovoce le tonalità da azzeccare.
Sicuri delle tre note de: la ve..., la ve..., la ve..., attaccavano con precisione da bacchetta:
"La Vergine degli Angeli.........
"e via sino alla fine del brano.
Nel coro della "giardiniera", ce la mettevan proprio tutta.
Si disponevano intorno ad un tavolo; ognuno serrava tra le mani un bicchiere colmo, di vino s'intende.
Poi il solista incominciava:
"Ohi giardiniera ti voglio far sposa dammi una rosa, dammi una rosa, ohi giardiniera sarai la mia sposa dammi una rosa del tuo giardin".
Ed il coro stando seduto rispondeva:
"Non posso dartela la tengo nel cuore
voglio l'amore voglio l'amore,
non posso dartela la tengo nel cuore, voglio l'amore
ed a questo punto tutti si alzavano e levando il bicchiere a gran voce esclamavano
e la libertà"
Sotto quell'Arco c'è un camaleonte
Esistono monumenti che si comportano come camaleonti. Facili a mutare opinioni, opportunisti, validi per tutte le stagioni. Stagioni politiche, non meteorologiche. Gli basta un piccolo ritocco, cambiare un fregio, un ornamento, sostituire una iscrizione, una dedica e la trasformazione è compiuta. Classico esempio di questa disinvolta metamorfosi è l'Arco del Sempione, ribattezzato della Pace, nato per celebrare Napoleone ma inaugurato da un sovrano austriaco e infine testimone delle nuove fortune di una Italia che si avviava all'unità.
Certo, per agevolarne i vari, successivi adattamenti contribuì la durata dei lavori. La prima pietra era stata posata il 14 ottobre 1807. Ma trent'anni dopo Pompeo Calvi poteva ancora dipingere il quadro "L'Arco della Pace in costruzione".
Il fatto è che l'Arco (lontano parente, su progetto del marchese architetto Luigi Cagnola, di quello che Roma imperiale aveva dedicato a Settimio Severo) era stato concepito a gloria dell'invitto Napoleone il quale però, di lì a pochi anni, 1814, era stato battuto e confinato all'Elba.
In aprile a Milano erano ritornati gli austriaci e due mesi dopo, anche in conseguenza della crisi economica che aveva accompagnato gli eventi politici, si era ritenuto conveniente sospendere i lavori. Cesare Cantù, scrivendo nel 1857, afferma che "al 1814 erasi all'imposta delle due arcate minori".
Il cantiere si rimise in movimento nel 1826, dopo che la Congregazione municipale (oggi diciamo il Consiglio comunale) aveva chiesto e ottenuto dalle autorità austriache "di poterlo proseguire (l'Arco) applicandovi i crediti che le provincie avevano per somministrazioni militari e supplendovi pel resto lo Stato. Così ripigliaronsi i lavori - è sempre Cesare Cantù a ricordare - e furono finiti nel 1838".
L'Arco, dunque, fu inaugurato il 10 settembre 1838 dall'imperatore Ferdinando I, venuto a Milano per farsi incoronare re del Lombardo- Veneto. Arriviamo infine al dicembre 1859, quando (registrava Giuseppe Gargantini nella sua "Cronologia di Milano" edita nel 1874) "viene cancellata l'epigrafe ricordante giorni di schiavitù e sostituita altra per rammentare il solenne ingresso di Vittorio Emanuele e di Napoleone III ed eternare la memoria della nostra liberazione". Per la cronaca, i due sovrani erano passati trionfanti sotto l'Arco l'8 giugno di quell'anno, dopo la vittoria riportata sugli austriaci a Magenta.
Millavottcentsett: adree cont i zibrett - (1) ciabatte, pantofole. Qui il verso ha il significato di "rincorrere". - ) - che tacchen a traa in pee on arc d'onor al pussee grand de tucc, l'imperador. Ma prima che madurass la circostanza Napoleon l'aveva perduu la stanza.
Millavòttcentrentòtt: - gh'è on alter rebelòtt, la "dedicatio" la gira 'n su l'istant che vegn 'n scenna el primm di Ferdinand.
Millavottcentcinquantanoeuv: sortiss ona doppietta che se moeuv: "Vaa scancellaa d'on bott sto vecc spuell. Gh'è chi el second Vittori, el Manuel, in batteria de vun ch'el faa el so vers, alter Napoleon de marca terz".
Ergo: cinquant'ann fà, storia de cuntà, - i fazzolett de negher eren no priv, poeu s'hinn tengiuu d'on ross bell viv. Adess che la grand polta l'è menada i fazzolett hinn smunt 'me 'na cagiada.
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07 maggio 2024 - domenica - sett. 18-126
Notizie dal Villaggio
Cosa ascoltare oggi
I quartieri e le contrade del borgo
Tutte le case di Busto sono racchiuse in quattro quartieri principali: Basilica, Piscina, Zornago, Sanovico.
Il quartiere di Basilica (1) In dialetto bustese: Basega. ) per la quantità di popolo, per la moltitudine delle famiglie e per l'ampiezza del territorio supera tutti gli altri. Da esso per la porta di oriente i borghigiani si dirigono alla volta della città
I nostri antenati chiamarono questo quartiere col nome di Basilica perchè ivi principalmente si teneva il mercato ed era più ampio e più notevole degli altri quartieri. Esso si divide in tre minori contrade, la superiore, che è volta a settentrione, si chiama contrada Ratto, l' inferiore, che si dirige a mezzogiorno, contrada Palearia, la mediana, che si spinge dalla porta del borgo fino alla piazza, si chiama contrada Strato per le pietre che vi sono disseminate e composte. La contrada Ratto era posta in luogo più alto e fu chiamata così, a mio avviso, sia perchè è posta a settentrione, sia perchè, forse, il bastione era ivi più alto, sia, infine, perchè di là si discende alla restante parte del borgo; infatti è una via in discesa. Quanto al nome della contrada Palearia diverse sono le opinioni. Alcuni pensano che sia stata chiamata così perchè in questa contrada più che nelle altre si fabbricano oggetti di paglia. Ivi principalmente si fa la macinatura e si tritura il grano essendo il luogo ben esposto ai raggi del sole. Ma io credo che la contrada abbia derivato questo nome dal fatto che quivi ha preso inizio il borgo costituito in origine di capanne di paglia. Infatti i Galli, che fondarono moltissimi paesi dell' Insubria, scacciati i nemici, come dice Bonaventura Castiglioni, a poco a poco discesero dai monti, che abitavano, al piano e ivi costruirono per molti anni, a ricovero degli armenti e degli arnesi pastorali, dei tuguri di paglia per difendersi dalle ingiurie del cielo, secondo il costume dei Numidi; poi, dopo molto tempo, appresi i costumi italici, sull'esempio delle altre città, che avevano visto gue reggiando per l'Italia, cinsero le città di mura e fortificarono i borghi con bastioni per respingere più facilmente le incursioni e le offese dei nemici.
(2) La porta d'oriente era la porta Milano situata al principio del Corso XX Settembre all'incirca dove era il passaggio a livello della vecchia sede ferroviaria.
(3) È quella che in dialetto bustese si chiama a contraa di ratti.
Ora è lecito credere che così sia avvenuto anche in questo borgo e che la contrada Palearia e la contrada Basilica siano state chiamate così perchè quella ebbe inizio con le capanne di paglia e questa fu sempre il quartiere principale del borgo. Da questa maniera di costruire i luoghi forse derivò il suo nome la famiglia dei Paleari, che fiorì nel borgo fino al 1386 (1). (1) Le ragioni addotte dal cronista a spiegare i nomi delle con- trade Basilica, Ratto e Palearia hanno del falso e del vero. Il Ferrario (o. c. pag. 156) si accontenta di citare i nomi delle contrade, lasciando ogni spiegazione di essi. Secondo noi il nome di Basilica che si trova in una pergamena del 1243, è di origine romana e si collega al fatto che in questo quartiere si teneva il mercato; la contrada Ratto probabilmente deve il suo nome ai minuscoli roditori di grano che vi dovevano abbondare per la esistenza di molini primitivi. Più probabile appare la spiegazione del nome della contrada Palearia, sfrondata s'intende dal lungo accenno ai Galli; sebbene si possa capovolgere il ragionamento e pensare che la contrada abbia preso il suo dal nome dei Paleari che vi abitavano.
Per ampiezza di abitato e per numero di famiglie s'accosta alla contrada Basilica quella che alcuni chiamano Piscina. Secondo essi si sarebbe così chiamata perchè dalla sua porta, che guarda a occidente, si va nei luoghi dove abbonda il pesce e per essa viene importato nel borgo dal lago Maggiore e dal Ticino.
Altri invece dicono che si chiama Piscina perchè attraverso questo borgo e questo quartiere si trasportavano i pesci in città dai luoghi pescosi, prima che fosse scavato il Cuvisso o Naviglio che dal corso del Ticino, i Milanesi, ad allontanare la fame, come dice Catone, condussero per quasi duecento stadi fino al borgo di Abbiategrasso, poi come un fosso chiusero entro la stessa città di Milano, nell'anno 1257, al tempo di Martino della Torre, il quale per i meriti acquistati a Roma ebbe dai Lombardi le più alte cariche (1(1) Nel 1179 fu fatto il primo tronco di canale dal Ticino ad Abbiategrasso; nel 1257, sotto il podestà Amizone Carentano, da Lodi, il cavo fu prolungato fino a Milano. ). Altri infine fecero derivare il nome Piscina dalla piscina che è in mezzo al borgo; ad essa fin dalla porta del quartiere scorre il fosso che raccoglie le acque piovane. E in verità il borgo ha una grandissima vasca, costruita nel centro dell'abitato, che raccoglie le acque che cadono dai tetti e scorrono per le vie in declivio, nettandole dalle immondizie (2).
Dall'esame della struttura degli edifici è lecito pensare che la piscina sia stata costruita allorchè il borgo fu edificato la seconda volta e la ragione della sua costruzione sia stata la mancanza di fiumi e di fonti e la profondità dei pozzi. Essendovi infatti dal livello dell'acqua alla bocca del pozzo più di 50 cubiti, era assai malagevole l'abbeverare i giumenti ed estinguere gli incendi che per caso fossero scoppiati. Dunque da questa piscina dicono alcuni sia derivato il nome all'intero quartiere.
(2) A questo punto il già citato trascrittore del 1714 aggiunge tra parentesi: Questa in seguito fu tolta via e ne furono costruite altre presso le porte del borgo a comodo degli abitanti e per le necessità occorrenti. Questo piacque indicare al trascrivente
(1) Nel 1179 fu fatto il primo tronco di canale dal Ticino ad Abbiategrasso; nel 1257, sotto il podestà Amizone Carentano, da Lodi, il cavo fu prolungato fino a Milano.
(2) A questo punto il già citato trascrittore del 1714 aggiunge tra parentesi: Questa in seguito fu tolta via e ne furono costruite altre presso le porte del borgo a comodo degli abitanti e per le necessità occorrenti. Questo piacque indicare al trascrivente
Poeu pensall domà ona persona matta de robagh el lard de bocca a la gatta!
Può pensarlo soltanto una persona matta di rubare il lardo di bocca alla gatta!
Vecchio modo di dire, quando qualcuno tentava una impresa il cui esito era scontatamente impossibile, a limite di follia.
El pugil
Chi compra per tant e vend per pocch el se vanza la dj occh.
Chi compra per tanto e vende per poco si avanza la delle oche.
Questo detto è nato tra i commercianti e suona come un monito a coloro che pur di fare concorrenza svendevano le merci, mettendo in difficoltà i colleghi e finendo poi col fallire; il detto era molto in uso tra gli ortolani del Verziere in piazza S. Stefano.
Obizzo Malaspina, il primo custode della «martinella»
Così risulta che la campana del carroccio sarebbe stata custodita per lungo tempo nella residenza privilegiata di Obizzo Malaspina, il castello di Zucchi nella Valle di Nizza, uno dei più fortificati del tempo, che sorgeva a 715 metri di altitudine tra i monti Succo e Bagnara. Padre Cassola descrive il maniero di Zucchi come un ameno castello munito di cinque torri difesa,dal quale si godeva un grandioso e magnifico panorama su tutta la valle Staffora. Era il maniero più strategico, più munito e inespugnabile di tutto il territorio .
Dalla rocca di Zucchi la «martinella» del carroccio era stata portata all’abbazia di S. Alberto (ma non si sa in che periodo e da chi) e collocata in un modesto campanile a vela sul tetto dell’oratorio di S. Maria annesso alle altre costruzioni dell’eremo fondato da S. Alberto. La ricostruzione cronologica degli abati e rettori della Badia di Butrio assegna la titolarità dal 1454 al 1461 a Taddeo de Noxeto (Noceto), discendente dal nobile casato di Busseti di Tortona, che fu anche il primo abate commendatario, in quanto la badia era stata nel frattempo elevata a commenda dal Vaticano.Forse fu proprio questo abate a prendere in consegna dai discendenti di Obizzo Malaspina la campana del carroccio,dovendo dotare il nuovo campanile della chiesa dell’eremo di un concerto campanario facendola così collocare insieme ad altre due di nuova fusione. Il trasferimento a Butrio della storica «martinella» del carroccio ad opera dell’abate Taddeo sarebbe provato dall’aggiunta del suo nome alla iscrizione, su due righe, nella parte superiore dello stesso sacro bronzo: «MCCCCLIIII xps rex venit i pace ds horet- e...Tadeus de Noxeto comedatarius abacie S. Alberti». La trascrizione e chiave di lettura di questa scritta sulla campana è offerta da un monaco della stessa abbazia, Padre Placido Lugano , che afferma: «Nella prima riga si hanno due lacune: tra la «s» e la «e» manca una lettera: dopo la «e» ne mancano tre. Sciogliendo le abbreviazioni e riempiendo le lacune si legge: MCCCCLIIII Christus rex venit i(n) pace D(eu)s h(on)oret(ur): S.(A.) e(tus), cioè Sanctus Albertus in luogo di Deus honoretur, si può leggere anche D(eu)s h(om)o re(surrexi). Il S. Albertus sarebbe il nome dato alla campana ».
La data, 1454, posta sulla stessa, non deve quindi ingannare, e non è contraria alla tradizione che identifica questa campana con la «martinella» del carroccio.
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La lista degli argomenti della settimana 14
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- la storica «martinella» del carroccio
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- quand a paccià e bev vun el se fa senti l'è meij minga invidall e le meij toeugh on vestii.
- el cicisbeo
- busto arsizio - cap. 9 (1⁄4) - «capitolo 9
- dati di concessione. (8- )
- soror juliana de purizellis de cassinis de verghera (1426-1501) (2-2)
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- obizzo malaspina, il primo custode della «martinella»
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