RVG settimana 17
Radio-video-giornale del Villaggio
Settimana-17 del 2024
RVG-17 - da - Radio-Fornace
Settimana 17 2024-04-22 - Dicembre - Calendario - la settimana
22⁄04 - 17-113 - Lunedi
23⁄04 - 17-114 - Martedi
24⁄04 - 17-115 - Mercoledi
25⁄04 - 17-116 - Giovedi
26⁄04 - 17-117 - Venerdi
27⁄04 - 17-118 - Sabato
28⁄04 - 17-119 - Domenica
22 aprile 2024 - lunedi - sett. 17-113
Notizie dal Villaggio
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Cosa ascoltare oggi
TRAVEDONA-MONATE -
67) Selvetto: in dialetto Selvèt è la zona a sud del Rünch a ovest del paese di Travedona sul confine con Monate. Il termine selv come indica una zona di boschi ed è frequentissimo in toponomastica.
68) Sóche: piccolo balzo del terreno che sovrasta il Ruetàri a sud della zona boschiva del Bosch e del Bosch Gros. In dialetto soca designa la "gonna" ma non crediamo essere questa l'origine del nome. Per trovare un'etimologia più plausibile possiamo considerare la voce dialettale zòca che ha vari significati tra i quali "buco scavato per contenere acqua a scopo domestico, oppure la voce dialettale sòch "ceppo" o "ciocco", ad indicare forse una cumulo di ceppi di legno.
69) Strecciolo: è una strada stretta, detta in dialetto streciöö, che si dipana nel centro del paese. Un tempo era più lunga e portava fuori dal centro; ora invece è stata tagliata e designa un tratto non più lungo di 30 metri
70) Tajagrande: località nota anche come Tajanmèz. Prende il nome da una strada che divide in due parti l'antica zona boschiva del paese segnando l'arbitrario confine tra il paese e la campagna di Travedona .
71) Turàsce: piccola lingua di terra che si estende latitudinalmente in località Monate a sud del Löch poco distante dalle sponde del Lago di Monate ).
72) Vallone: in dialetto noto come Valün. Il sito è a nord del Chiosetto ed è caratterizzato da una leggero pendio che va restringendosi verso la strada provinciale che segna l'ingresso in Monate.
73) Vignöö: piccola area un tempo coltivata a vigna limitrofa al Peze al confine tra Travedona e Monate
74) Vignuvéle: località di Travedona a ridosso del Salvascéte e a nord del Laghèt un tempo utilizzata per la coltivazione dell'uva. Da pochi anni quest'area è stata ripresa in mano dalla Pro Loco cittadina e riutilizzata per produrre il vino di Travedona proposto spesso nella ristorazione locale ed esportato anche all'estero. Il nome dell'area dovrebbe essere con tutta probabilità un composto di "vigna" e "novella".
75) Zavattè: (žavattè) in dialetto sciavatàa designa "il ciabattino ". Il toponimo riprende il nome di un possibile artigiano che li vi lavorava o un soprannome di qualcuno che così poteva essere scherzosamente chiamato
Dal 1945 al 1960 (11⁄13)
C: On bel quader el tò, ma effettivament i ròbb hinn inscì anca ai dì d'incoeu, anzi, da quand gh'è nanca pu la leva militar obbligatoria, anca i soldà hinn per la maggior part di meridionai. Sperèmm che almeno quei che resten chi seguiten a fà quell che hann fàa i lór parent de on temp, che hinn diventàa di milanes anca lor. Ma famm savè on po mei quell che gh'è success in 'sti ann '50 (cinquanta).
M: tanti ròbb hinn cambiàa de allora, ma la sostanza l'è quella. Comunque per restà a quei ann, a quell che gh'emm giamò dì, podum giontà quaicoss d'alter: per comincià, nel '51 (cinquantun) gh'è cambiàa el sindich, Ferrari, on socialista anca lu, ma del Psdi, quel democratich, ch'el s'era dividuu dal Psi, ch'el poggiava i comunisti. E inscì se pò di che la continuava la tradizion di nòster governant, de idei socialisti, ma semper cont la voeuia de vèss lontan dai partii dominant, che a Milan hinn mai rièssìi a comandà. Disuu quest, i fatti de 'sta desèna che forse pussée de tucc hann cambiàa la nostra vita hinn stàa la television, che in Italia l'è rivada nel '54 (cinquantaquatter) e i supermercàa, quai ann dopo. Tucc e duu gh'hann avuu protagonista la nostra città; la tv cont la noeuva séd de la Rai in cors Sempion che l'è diventada cont el sò teàter denter la Féra el sit pussée famos d'Italia cont la trasmission "Lascia o Raddoppia?" che al giovedì la tegniva quasi tucc davanti al televisor, la maggior parte però minga in cà soa (el televisor el costava car, l'era ancamò ona ròba de sciori...), ma in di bar o financa in di cinematografi, che se de nò el giovedì sera ghe andava nissun; anca i supermercàa in Italia hinn nassuu a Milan, cont i primm dervìi nel '56⁄57 (cinquantases⁄sett), anca se on para de ann prima ghe n'era stàa dervì vun che però l'è subit fallì, perché troppa gent la credeva che self service voreva dì de cattà su la roba in de per lor, ma senza pagalla. Tutta ròbba che in America la gh'era giamò de vint'ann, ma che chi in de nun la voreva dì el massim de la modernità.
I GALLI CISALPINI (5-5 )
Gli storici non concordano sul luogo natio dei boi. L'etnia potrebbe essersi formata in gabbia oppure in Germania. Ciò che è certo, tuttavia, è che numerosi toponimi ancora oggi conservano il nome dei Galli Boi. La Boemia dal latino boi. Cioè ne è un chiaro esempio, ma anche la Baviera e persino la città di Bologna. Presenti in Europa fin dal sesto secolo, a.C. I boemi. Così come molte altre popolazioni celtiche, prevalentemente tra il quinto e il quarto secolo. Stanziarono nella Valle Padana. Condanno forse la città di Lodi e occuparono la città etrusca di Felsina, l'odierna Bologna, e divenne in seguito bononia presso i romani. Però mi ricordo del loro nome. Secondo polibio, i Bois sarebbero arrivati in città dopo che a adeste, ricco commerciante di felsina, richiese il loro aiuto per risolvere una disputa con i suoi concittadini. I boy, ammaliati dai doni che avevano ricevuto, si sarebbero stabiliti lì per continuare a goderne. In Italia il territorio dei Boi si estendeva in Emilia Romagna fino al fiume Montone, oltre il quale abitavano nei vicini Galli senoni. Infine, nel 189 a.C. Soggiogati dai romani. E poi se ne andarono dall'Italia, migrando a Oriente, verso il Danubio e in Boemia, dove restarono indipendenti fino al primo secolo a.C. In parte, vennero dunque assoggettati dai Marco e in parte si dispersero.
Altrettanto importante fra le civiltà celtiche dell'Italia fu quella dei Galli senoni. Giunti attraverso le Alpi nel 400 a.C., come racconta. Attraversarono la Pianura Padana e Salerno sulle coste orientali dell'Italia, in Emilia Romagna, proprio vicino ai territori dei Boy e in mezzo ai fiumi uso e di. Provenienti indubbiamente dalla Gallia, alcuni loro rami parteciparono alle scorrerie Balcani che operate dal Celtic tra il quarto e il terzo secolo a.C. Fondarono la città di Senigallia moderna Senigallia, rendendola la propria capitale ed effettuarono delle grandi scorrerie sia in Toscana che in Magna Grecia, tanto che furono assoldati dai siracusani come mercenari per combattere contro i cartaginesi in Sicilia. Come gran parte dei loro fratelli Gallici, i senoni erano un popolo dedito alla guerra di Ventura e al saccheggio, ma si dedicavano anche al commercio dell'artigianato con i vicini piceni. Con la Colonia Siracusana di Ancona e con gran parte dei popoli italici delle più fiorenti colonie greche del meridione, tra cui Taranto. Sono conosciuti storicamente sopratto per essere stati i primi ad aver espugnato la città di Roma. Nel 391 a.C. C'è un brenno invase all'etruria e cinse d'assedio la città di chiusi. Gli abitanti di disperati chiesero aiuto a Roma, la quale intervenne. Ma nel 390 a.C. I romani non conoscevano ancora lo schieramento, manipolare, vennero sconfitti nella battaglia del fiume Allia e la città stessa venne brutalmente saccheggiata. Il Campidoglio, tuttavia, resistette e venne posto sotto assedio. Poi, dunque nominato dittatore Marco Furio Camillo, che però non venne investito dalla carica affinché Il Messaggero Ponzio Comino non giunse a Roma dalla città, da poco sottomessa di veio, spezzando così l'asse. Poiché la città era stremata dalla fame, il Senato decise di effettuare un accordo con i Galli. Brenno, accetto a patto che i romani avessero consegnato 1000 libbre d'oro puro. Il ramo occidentale dei senoni, quelli stanziati in Gallia, sopravvisse fino alle conquiste di Cesare. Poi il mitico popolo di brenno che fece tremare Roma scomparve per sempre dalla storia. E con i senoni concludiamo questo Atlante di Galli cisalpini.
San Satiro
D’ordine di Lodovico il Moro costrutta non sappiamo da chi, sul cadere del secolo XV ; il disegno però è bramantesco, e diffatti il ricchissimo ottagono della sagrestia è di Bramante co’ bassirilievi del Caradosso. Veda il lettore in quella mirabile prospettiva del coro il secondo passo fatto in Milano dall’architettura per giungere al moderno; in Sant’Eustorgio è il primo.
A quest’eleganza fu ridotta la chiesa nel 1817. Pizzagalli disegnò l’altar maggiore. Gr'. Rusca scolpi le statue, Strazza fuse i bronzi, il prof. Comerio vi rappresentò sul muro colla eleganza e severità del suo bel disegnare, quel miracolo da cui la pietà dei fedeli fu spinta ad erigere questo tempio.
Nella sagrestia dove i sacerdoti si parano, vi sono tre tavole antiche del Nolfo da Monza, secondo il Lanzi, san Giovanni, santa Lucia, sant'Apollonia. Nel locale di mezzo vi sono alcuni dipinti procaccineschi.
Nel braccio a sinistra dell’altar maggiore vi è nella chiesa antica la deposizione con molte statue, pregiato lavoro del Caradosso.
Questa chiesa, dopo l’ultimo restauro, riesce una delle più eleganti della città.
San Sebastiano.
Nell’epoca dolorosa in cui Milano era afflitta dalla peste l’anno 1576, per voto fatto dalla città, venne eretta questa chiesa in onore di san Sebastiano; il celebre Pellegrini ne concepì il disegno di forma circolare, e riesci una delle più belle che veggonsi in Milano. Magnifica è la parte esterna ornata di lesene binate d’ordine dorico, con cornice elegantemente lavorata; l’ordine ionico si vede superiormente all’attico praticabile. Tre porte, una maggiore ornata con colonne, e due laterali più semplici, danno ingresso all’interno, il quale corrisponde alla bellezza esterna per la sua semplicità ed eleganza; un ordine di lesene disposte in giro divide le cappelle arcuate ; il coro è di figura ottagona con cupola circolare.
Nell’altare a sinistra ammirasi una pittura stimabile del Martirio di san Sebastiano, e si crede anche dal Lanzi opera del Bramante. L’altare di marmo in cui fu collocato il Crocifisso è disegno del professor Levati; nel secondo a diritta Stefano Danedi, detto il Montalto, scolaro del Morazzone, espresse l'Annunziata, e nel semicircolo dipinse la Strage degli Innocenti.
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23 aprile 2024 - martedi - sett. 17-114
Notizie dal Villaggio
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Cosa ascoltare oggi
dati di concessione. (5- )
Una notte improvvisamente nevicò: era appena terminata la seconda guerra mondiale.
Era tanto alta la neve che copriva persino le sponde del Naviglio. Tutto fermo, tutto bloccato.
Verso mezzogiorno all'entrata del cortile appare un uomo; l'Aristide lo guarda bene e si mette le mani nei capelli. L'Ernesto Pellizzoni, da Morimondo dove era sfollato, se n'era venuto a piedi per giustificare la sua assenza data l'impossibilità di presentarsi in orario.
Dopo aver consumato il pasto a base di gorgonzola, seduto su uno dei gradini della scaletta che portavano alla vasca dove si rovesciavano i rifiuti, se ne tornò, sempre a piedi, a Morimondo; partì subito per paura di incontrare il buio.
Questo Ernesto fratello del Carlo con il quale era padrone del 56, sull'Alzaia s'intende, anch'esso distrutto dai bombardamenti, possedeva lì al 62 due torchi per panni, ed aveva anche una piccola officina per la costruzione delle bocche per forni di panettieri.
Ormai anziano andò a dare una mano ai Gambolò per sentirsi ancora utile. Se c'era dell'esagerazione nel senso del dovere c'era però anche e soprattutto il rispetto alla sacralità del lavoro.
Ci immaginiamo tanti sorrisini di compatimento: si è dimenticato che fra i lettori ci potrebbero essere degli impiegati dei pubblici uffici.
La barca, ossia il ";Corriere d'acqua"; rimase in attività sino al 1955 circa, poi fu sostituita dall'autotrasporto e non se ne parlò più.
Nello stesso stabile c'era ";l'Osteria del Porto";, il rifugio sicuro per alleviare l'arsura implacabile ed il freddo immagazzinato nel lungo viaggio.
C'è ancora quel locale; non porta più lo stesso nome ed è stato trasformato, anzi sfigurato all'insegna della nuova moda.
Dall' ";Isola Fiorita"; sita all'83, l'unica che conserva ancora la stessa dicitura, al S.Girolamo del 63 e, le altre le incontreremo poi, tutte hanno subito il medesimo destino.
Ormai sono frequentate da un tipo di clientela improvvisata.
E' scattata la molla dell'ambizione di attrarre una ";élite";, a modo loro s'intende, sempre più anonima e chiassosa, quanto sbiadita e squallida. Di fronte, al di là dell'Alzaia, la Via Angelo Fumagalli al secolo Carl'Ambroio (1724-1804). Abate Cistercense in Sant'Ambrogio, lasciò la carica nel 1796 per poter terminare la sua opera principale: ";le istituzioni diplomatiche";: l'aveva iniziata molti anni prima nella serena quiete dell'Abbazia di Chiaravalle.
In fondo alla via c'era un lungo muro sul quale si leggeva chiaramente ";Velodromo milanese";.
La conferma di questa istituzione sportiva ce la dà Raffaele Bagnoli nel volume secondo de ";Le strade di Milano";.
Riportiamo uno stralcio dell'autore a proposito di questo primo velodromo:
";Solo al termine della via, la casa che fa angolo con Via Argelati, rappresenta l'ultimo esemplare di quelle vecchie abitazioni che caratterizzavano l'ambiente. Di fronte ad essa, dove è sorto il nuovo gruppo di case dall'architettura borghese qualificata, fu costruita la prima pista di terra battuta per le corse in bicicletta che, per alcuni anni, fu considerata come il velodromo di Milano.";
Marzo (3⁄3)
Una leggenda ci parla di San Giuseppe come artiere del legno e commerciante di friggitoria , infatti non è raro vedere, sia nelle falegnamerie che nelle rosticcerie, l'immagine del santo. Si racconta che il falegname Giuseppe, della stirpe di David, al termine di ogni giornata lavorativa, trovasse per terra, accanto al suo bancone di artigiano, molti per cuocere trucioli; non sapendo come sbarazzarsene, provò ad usarli le frittelle di cui era ghiotto il suo figliolo Gesù. Un dolce profumo si sparse per le vie di Nazareth richiamando tanti bambini che reclamavano anche per loro le gustose frittelle, tanto che Giuseppe, aiutato da Maria, da allora dovette alternare il mestiere di falegname a quello di friggitore e venditore di tortelli.
È con San Benedetto (21 marzo) che si entra ufficialmente in prima vera e le rondini ce lo annunciano: A San Benedett, la rondena la vegn al tèce .
Le rondini, chiamate anche galinèle dla Madona , sono considerate di buon augurio nelle case coloniche dove nidificano numerose e indisturbate, come ci fa sapere lo scrittore e poeta Iginio Ugo Tarchetti (autore del famoso romanzo Fosca), nel suo volume di poesie Disjecta: Benedetta quella casa alla cui gronda i bei nidi appendete! .
Pifania... tutt i fest la menna via; ma poeu riva San Benedett e ne porta on bel sacchett! . Mentre l'Epifania è l'ultima delle feste del periodo natalizio, San Benedetto e l'Annunciazione ci al preparano periodo pasquale: Tra el spos e la sposa, se somèna la linosa! .
Tra lo sposo (San Giuseppe - 19 marzo) e la sposa (Annunciazione di Maria - 25 marzo) si semina il lino. Man mano che la primavera avanza, le violette perdono il loro delicato profumo. A la Madonna di Garzon, de vioeul se ne catten pù, perché ormai hann pers tutta la soa virtù! . L'Annunciazione è chiamata nel bresciano la Madonna dei Garzoni, perché è consuetudine in questo giorno assumere nuovi lavoranti per la campagna, però, sempre in quel giorno si poteva anche cambiare padrone senza tanti problemi: Quand la vioeula la profuma pù, mandi el padron a dà via el cuu! .
Il 25 marzo a Fiumelatte (Varenna) si attende l'apparizione dell'acqua. Il paese prende il nome dal torrente omonimo che esce in superficie solo da marzo a ottobre.
L'acqua esce impetuosamente dalla montagna il giorno dell'Annunciazione, quando in loco si festeggia la Madonna Nera, e si esaurisce il sette ottobre giorno della Madonna del Rosario; per questa sua caratteristica Fiumelatte viene chiamato: El fium di dò Madonn! .
Passata la quaresima e festeggiate le Palme, parliamo delle varie manifestazioni che si svolgono durante la settimana santa cominciando da una antica usanza propria della gente dell'appennino pavese, dove al giovedì santo si usa bruciare nel campo vicino casa ogni cosa che non serve più. Il senso vero della cerimonia si è perso nella notte dei tempi ma forse si rifà all'abitudine di pulire le case in prossimità della ricorrenza pasquale, come ci ricorda la sapienza di noster vécc: Pasquetta la voeur la cànetta! di attribuire al fumo efflusso dai piccoli falò il oppure infastidire e tener lontani i rettili velenosi, evitando ai contadini, che si apprestano a tornare nei campi, il rischio di possibili morsicature. Nel mantovano sono convinti che: Chi vol süche in abondansa ia meta zò par la Stmana Santa! infatti, per tradizione, la seminagione importante avviene il venerdì santo; in questo giorno si seminano: prezzemolo, insalata, porri, coste, carote, verze, cavolfiori e piselli. Mario Merlo, studioso delle tradizioni pavesi, ricorda che fino agli anni Trenta del secolo scorso, nelle campagne della Lomellina, durante la settimana santa, si usava abbracciare tutti gli alberi da frutto nella convinzione che, così facendo, il raccolto sarebbe stato abbondante.
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24 aprile 2024 - mercoledi - sett. 17-115
Notizie dal Villaggio
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Cosa ascoltare oggi
Dati di concessione. (6- )
Un vecchietto arzillo e lucido raccontava quasi inebriato, dei giorni di gara. Non appena veniva segnalato l'arrivo di una carrozza sulla quale viaggiava un ";pistard";, i ragazzini più svelti l'attendevano per accaparrarsi l'onore di portare la bicicletta sino alla pista: seguiva la rituale ";mancetta";.
Il vecchietto classe '900 lo chiamavano ";Ambrosin";, da Ambroeus equivalente a sempliciotto; ma non lo era per niente, era soltanto bonario.
Quando il velodromo fu chiuso il terreno venne acquistato dai Minorini, antica famiglia residente in zona Argelati.
Diciamo un po' chi era questo Signor Argelati Filippo nato a Bologna nel 1685 e spentosi a Milano nel 1751.
Era uno storico che diresse la tipografia Palatina Milanese.
Collaborò con il Muratori alla realizzazione di quella monumentale opera, qualcosa come ventotto volumi che trattano la storia dal IV° al XVI° secolo: ";Rerum Italicorum Scriptores";.
Questo illustre Signore porta un nome troppo difficile da pronunciarsi: le nostre donnette per tagliar corto dicevano: ";Fili Porgelati"; e, non se ne parlava più.
Torniamo ai Minorini.
Uno lo ricordiamo poichè la moglie Crosti Giuseppina, sua vedova, alla morte lasciò una rispettabile somma alla Cà Granda, Ospedale Maggiore. L'altro perchè era il padre del Lodovico.
";El Lodo"; come era simpaticamente chiamato in quartiere, ebbe i natali nel 1892 nella patrizia casetta all'angolo della Fumagalli.
Era orgogliosissimo dell'orto giardino ch' era sorto appunto dov'era il velodromo.
E, ne aveva ben ragione perchè al centro troneggiava un superbo ciliegio alto.
Finchè un lontano giorno verso il '60 circa, via il muro con la scritta, eliminato l'orto, incominciò l'avventura del nuovo quartierino.
Il progetto per la costruzione della prima casa ebbe vita difficile e fu protagonista di una patetica vicenda: da essa i nuovi progettisti in carica dovrebbero trarne una lezione da ricordare per tutta la vita.
E la vicenda era proprio il ciliegio: ";casa nuova sì, diceva la Signora Giuseppina Giussani, vedova del Lodo e madre della Maria Carmen che amorevol mente viene chiamata Cicci, ma il ciliegio non si abbatte!";
Finalmente saltò fuori, almeno parve, il progetto giusto.
Il palazzo crebbe, fu finito, vennero ad abitarlo gente di fuori e, poco tempo dopo, purtroppo il ciliegio morì.
Fu la prima cosa bella a morire fra tante altre cose belle che esistevano sulla Riva.
Al n°10, una piccola casa che fu poi abbattuta, era circondata da ampi magazzini.
Vi agiva uno spedizioniere il Signor Ettore Fornonzini, un uomo tutto lavoro ed innamorato del progresso e delle novità; se a quei tempi, fosse stata messa in vendita la luna, con ogni probabilità l'avrebbe comperata.
Sua figlia Regina si dilettava in modo eccellente al pianoforte.
Quando rientrava dall'America, dove si esibiva, un tenore di vaglio, faceva un salto a salutare questi suoi conoscenti.
E' facile intuire quindi che non poteva congedarsi senza fare una cantatina. Allora fra lo stupore dei presenti, il nitrire dei cavalli e l'odore di fieno, volavano le note di ";Oh paradiso"; la romanza da l'Africana di Meyerbeer che doveva essere una sua specialità.
Quando piante, aglio e olio sconfiggevano la peste
Piglia tre once di cera nuova, due once di olio d'oliva, una mezza oncia di olio di hellera (edera), di olio di sasso, di foglie di aneto, di bacche di lauro peste, di salvia, di rosmarino e un poco d'aceto".
Questi ingredienti li farai bollire fino ad ottenere una pomata che dovrai spalmare sulle tempie, le narici, i polsi e le piante dei piedi, ma soltanto dopo aver mangiato aglio e cipolle e bevuto aceto.
Era la ricetta - correva l'anno 1630, l'anno della peste "manzoniana" ferita dagli untori come antidoto contro il contagio, anche nota come "unguento dell'impiccato", perchè strappata, sotto tortura, a un poveraccio poi finito sulla forca.
Ad altrettanto infallibili e naturalmente diaboliche ricette ricorrevano, sempre gli untori, per lo scopo opposto, per incrementare il numero degli appestati.
Questi "nemici del popolo" usavano, come elemento base, gli "escrementi putrilaginosi delli bubboni", che costituivano la fonte principale del diffondersi della pestilenza, grazie anche al contributo delle innumerevoli schiere di famelici topi e a nidiate di talpe.
I restanti componenti delle ricette usate dagli untori erano talvolta parto della fantasia popolare. Si arrivò a immaginare che bisce, rospi e ramarri, dopo aver mangiato "creature morte", andassero sotto terra a confezionare unguenti.
"Si pigliava di tre cose, tanto per una. Cioè un terzo della materia che esce dalla bocca dei morti, dello sterco umano un altro terzo, e del fondo del ranno un altro terzo". La paternità di questo impiastro se l'attribuì, conve nientemente torturato, Gian Giacomo Mora, vittima innocente della caccia all'untore. Faceva il barbiere, aveva moglie, un figlio e tre bambine e perse tutto: vita, famiglia e casa (all'imbocco della via oggi a lui intitolata) ai primi di agosto del 1630. Condannato a morte, col "complice" Guglielmo Piazza, dal Senato milanese il quale ordinò che "i nominati Piazza e Mora sieno torturati, adoperando anche il canape; che posti sur un carro sieno condotti al luogo del supplizio, per via sieno tanagliati con ferro rovente, dinanzi alla bottega del Mora sia ad entrambi mozza la mano destra, sien loro sfracellate le ossa, si innalzi la ruota, essi vi sieno intrecciati vivi, dopo sei ore scannati, poi si ardano i cadaveri, le ceneri si gettino al fiume, la casa del Mora sia spianata e sullo spiazzo eretta una colonna che abbia nome d'infame e porti una iscrizione del fatto".
La "colonna infame" fu abbattuta nel 1778 per iniziativa di Cesare Beccaria e di Pietro Verri. La cronaca del processo a Gian Giacomo Mora l'ha scritta un certo Alessandro Manzoni.
Se sa che a chi temp là i impestaa eren talment tant de toeut el fiaa e allora ghe pensaven ben i untor che ne inventaven voeunna tucc i or.
E l'aj e la pollina, o giò de lì, che se stemm ben la femm giust tucc i di.
In mezz a tanti impiaster e vespee el Mora, che el faseva domà el barbee, denanz al sò stanzin, colonna infama, l'è staa mondaa 'me se el fudess 'na rana.
Monumento Castelbarco presso Ispra sul lago maggiore
La famiglia Castelbarco, una delle più illustri ed antiche famiglie della metropoli lombarda, possiede , come è uso delle principali case patrizie, in amenissima posizione presso il lago Maggiore, una elegantissima villa di campagna, ove passa buona parto dell’ anno, godendo le salubri aure di quella amenissima parte delle nostre provincie. Presso quel luogo di delizie sorge il monumento, e che fu eretto alla memoria della principessa Antonietta Litta Albani Castelbarco, morta nel 1855 a dì 4 ottobre. Il monumento merita una speciale considerazione. Esso fu cominciato su disegno del distinto architetto Luigi Robecchi di Milano nel 1856, e non fu compiuto che nel 1865, costando l'ingente somma di lire 200,000. L’esterno è tutto di granito bianco delle cave di Baveno sul lago stesso; l’interno è di granito rosso delle cave suddette. L’edificio si divide in tre piani. Nel piano superiore, in cui si entra dalla porta sotto il portico, sta la cappella, la cui cupola a quadretti è sostenuta da colonne di granito rosso, tirato a lucido, sul piano di mezzo trovasi la tomba, della illustre estinta, posta a levante dell’edificio. La tomba è pure di granito e l’immenso coperchio e d’un sol pezzo.
Nel piano inferiore trovansi i sotterranei.
Questo monumento, forse l'unico privato di tale importanza e di così ingente spesa, trovasi sulla strada che da Angera conduce a Ispra e dirimpetto a Belgirate, Dalla sommità si gode uno stupendo panorama del lago e del viale fiancheggiato di cipressi, che conduce alla riva del lago, ove termina con una balaustrata pure di granito. L’ edificio è grandioso, e distribuito con moltissima arte e buon gusto.
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25 aprile 2024 - giovedi - sett. 17-116
Notizie dal Villaggio
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Marzo (3a⁄3)
I momenti più suggestivi della settimana che precede la Pasqua erano e sono le funzioni serali: la partecipazione dei fedeli, i costumi delle varie congregazioni, il cantico dei sacerdoti e la statua del Cristo Morto, creavano un evento difficile da dimenticare, come ad esempio, la secolare processione che tuttora si svolge ad Orzinuovi, in provincia di Brescia, con la partecipazione di molti devoti.
La sera di venerdì santo a Gromo, in val Seriana, sui monti circostanti, si usa ancora accendere dei grandi fuochi. Il rituale del fuoco lo si ritrova in Valtellina, nella zona di Bormio, dove la mattina del sabato santo, sul piazzale della chiesa, si brucia una gran catasta di legna; la brace, benedetta dal sacerdote, viene poi raccolta dai contadini e sparsa negli orti, nei campi e nei prati per avere un buon raccolto. In questo giorno, in tutte le chiese, si celebrano le liturgie che portano alla risurrezione di Gesù.
Nel Duomo di Milano, l'Arcivescovo, benedice il battistero e battezza alcuni bambini conferendo loro i nomi di Pietro, Giacomo e Giovanni, in onore degli Apostoli prediletti da Gesù.
A cerimonia conclusa le campane tornano a suonare festosamente... Campane di Lombardia voce tua, voce mia,
Voce, voce che vai via e non dai malinconia... .
Con questi versi, tratti da una poesia di Clemente Rebora, vi ricordo che: Var pussee ona sgarlada de marz, che ona bonna sapada in april! , ovvero: vale più graffiare il terreno a marzo che una buona zappata in aprile, perché: Someneri fa' a bonora, el va ben che l'innamora! .
Tracce della sventurata Gertrude a Palazzo Marino
Nella stanza del sindaco, a Palazzo Marino, è nata la Monaca di Monza. O forse era la stanza accanto, o un'altra ancora. C'è un po' di confusione, d'accordo, ma davvero non si riesce a essere precisi: troppe trasformazioni e rifacimenti e traslochi ha subito l'ambiente nel corso dei secoli.
Certo è che Marianna de Leyva (diventerà suor Virginia e, nei "Promessi Sposi", la "sventurata" Gertrude) venne al mondo, nel novembre o nel dicembre del 1575, nel palazzo che il nonno materno, Tomaso Marino, aveva cominciato a farsi costruire nel 1553 su progetto di Galeazzo Alessi, l'architetto più in voga dell'epoca.
Non aveva badato a spese il banchiere Marino, che veniva da Genova già ricco e a Milano, scaltro, intraprendente, spregiudicato e assistito dalla dea bendata, era riuscito ad accumulare in tempi brevi un'enorme fortuna come appaltatore di gabelle (la più redditizia e impopolare era l'imposta sul sale), finanziatore di eserciti, del papa e dell'imperatore Carlo V, e avido usuraio. Grazie al rapporto coi potenti, gli era riuscito di farsi nominare marchese di Castelnuovo, duca di Terranova, senatore, cavaliere di Santiago.
Tanto bastava, si suppone, per ritenersi soddisfatto, appagato, invidiato. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. Ed ecco in agguato, dietro l'ingannevole facciata di un ostentato perbenismo, la tragedia familiare. Sanguinosi drammi a catena: il figlio Andrea, 14 anni, uccide un servo; un altro figlio, Nicolò, per gelosia ammazza la moglie; lo stesso Tomaso Marino (ma qui mette zampino la leggenda che peraltro si giustifica perchè trova radici in terreno fertile, considerati i precedenti misfatti) avrebbe messo a morte una sua giovane, bellissima amante, Arabella Cornaro, nobildonna veneziana.
Protagonista dell'ultimo dramma è Marianna. Nasce tre anni dopo la scomparsa del nonno: Tomaso Marino è morto il 5 maggio 1572, a 97 anni, ed era sull'orlo della bancarotta, aveva perso i favori della Corte di Madrid, la sua immensa fortuna si era ridotta in briciole, il vagheggiato gran palazzo era rimasto incompiuto. Sarà completato, con la facciata verso piazza della Scala, soltanto nel 1889-90 da Luca Beltrami. Marianna, dunque. Il padre è il conte don Martino de Leyva, feudatario di Monza e figlio del primo governatore spagnolo di Milano; la madre è Virginia Marino, figlia di Tomaso. A 11 anni Mariannina è costretta nel convento delle Benedettine di santa Margherita, a Monza; a 16 diventa monaca, è suor Virginia, dal nome della madre.
Il seguito della storia i "manzoniani" la conoscono: la "tresca amorosa" con Giampaolo Osio "nobile, ricco, abbondante di ozio e dissoluto", due maternità, l'assassinio di una conversa, la scoperta dello scandalo, il processo canonico e la condanna alla segregazione perpetua, scontata dapprima in una cella di tre metri per uno e ottanta nella Casa delle Convertite di Santa Valeria, che era il ricovero delle prostitute anziane e ammalate. Finchè il cardinal Federigo le concede di andare a morire nel convento monzese che l'aveva accolta bambina. Correva l'anno 1650.
(2) - La tosa de la tosa del Marin nassuda in del palazz de marca stròlega faa su per via di appalt 'n del scorbin, a vundess ann l'ha miss el vel de monega. Virginia el nom de lista e, faada granda, de vizi n'ha ciappaa ben on sconquass: duu fioeu de sfròs e l'omm semper in branda e on mazzament de restà lì de giazz. El nost Manzon Gertrude l'ha ciamada lassand la storia giusta 'me l'è stada.
1) palazzo marchiato da un sinistro sortilegio.
2) canestro, cesta, paniere.
Busto Arsizio - cap. 7 (5⁄5)
Scrive il Bianchi:
<< Ecco finalmente dopo avere esaminato me stesso scrupolosamente, gli altri, le circostanze, gli accessorij, ecc. a rispondere alle due lettere speditemi. Non temo, perchè sotto la tirannide, il misero non è creditato e disprezzato; ma il nuovo governo libero e di savie leggi difende gli innocenti e va in cerca della verità ».
Questo, il prologo.
Lo accusano di negligenza?: ma sono « infami calunniatori, insidiatori di un padre di famiglia »; lo curano per coglierlo in fallo?: ma l'inquisitore << muore senza arrivarci, e così un secondo, che « fece lo stesso, ma non la vinse; ed io prego per loro scrive il Bianchiessendo più cristianissimo del Re di Francia ».
Lo accusano di mala volontà?: ma l'anno 1854 quando venne il colera « un medico era già ammalato, gli altri due si ammalarono per codardia. Io ho servito per 10 giorni, Busto, i due Ospedali, Sacconago e tutto insomma, nessuno ha potuto tacciarmi di negligenza, e cosa ho percepito? niente. Chi comandava allora diedero i denari ai poltroni, ed a me niente, ed io non ho parlato. »
Dei suoi ignoti calunniatori dice che « poichè la bestia si conosce al pelo, e non ci vuole l'occhio geometrico di Archimede, o l'astronomo di Oriani per individuarli, ma io siccome ho la logica in testa e non nelle scarpe... conoscendogli alla livrea, sapendone i loro secondi fini mi fa raccapriccio, io che in 32 anni come dissi ricevetti premi, lettere d'onorificenze, ed ora per questi vigliacconi dovrò avere ingiuste mortificazioni... ».
E così, di bene in meglio, il focoso dottor Bianchi cita e scomoda i classici < italiani latini e francesi »>, Nicolò Machiavelli, il diritto canonico, il « Presidente di Monteschioù nel suo spirito delle leggi », il Beccaria, la Casta Penelope, il dottor Rajberti e, finalmente, anche il Porta che chiama in suo aiuto perchè, avendo egli (Bianchi) studiato sui classici,
<< classic sont e voeuri stagg, sarò fors'anc
on cojon, ma on cojon classeg almanc... ».
Ma non finisce così: si paragona « all'abbronzito guerrier che non li teme » (i calunniatori); protesta in rima il suo amore ai bustocchi:
«< che ne mai la destra stesi per offendere i Bustesi... >>; afferma che questo scritto non è altro che una prefazione alle sue opere future », e poi, quando tutto il memoriale è steso in bella calligrafia, pronto da consegnare alla Superiorità, non sa trattenersi dal metterci di suo pugno, con una scrittura impossibile:
<< io farò a costoro
di stoppa rimaner la barba d'oro... >>;
e, più sotto:
« no, non son di quei babioni
che si fanno infinocchiar... »,
e, ultima considerazione: << e se questo mio scritto gli ha divertiti ne godo, se gli ha annoiati, come è più fa- cile, dirò con Alessandro Manzoni, mi abbiano per iscusato per che non l'ho fatto aposta »>.
Finì col buscarsi, per la seconda volta, una ammonizione « a sensi e per gli effetti del prescritto dai capitoli che regolano la condotta di chirurgia e delle altre disposizioni eccetera... >>
Qualcuno dei nostri nonni l'avrà anche conosciuto, questo chirurgo bizzoso ed estroso, flebotomo nemico dei salassi, medico nemico dei colleghi, scrittore nemico della sintassi.
**************** fine giornata ************************
26 aprile 2024 - venerdi - sett. 17-117
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Varano Borghi -
Varano Borghi: m. 281; kmq 3.32; abitanti 2190.
Comune della provincia di Varese, situato 14 Km a sud-ovest del capoluogo sulla sponda nord-est del Lago di Comabbio.
Il toponimo Varano, in dialetto Varàn, è con tutta probabilità un prediale da riferirsi al gentilizio latino Varius con il suffisso aggettivale -anus (cfr. Varano de' Melegari -PR-). La specificazione Borghi aggiunta nel 1906 è un omaggio all'Ing. Paolo Borghi, nativo del luogo, esimio cittadino creò un grande stabilimento per la lavorazione del cotone che diede lavoro a molte persone di tutto il nord Italia
1) Boffalora: dai locali nota come Bufalöra. Un tempo nominata sulle carte anche come Buffalora. Ampia zona leggermente rialzata a sud del centro del paese che si estende su una propaggine di terra a ovest della Torbiera. Voce largamente attestata in Lombardia (v. Osmate n. 3).
2) Costa; è una lunga lingua di terra che si affaccia sul Lago di Comabbio e porta dal vecchio Stabilimento alla piazza del paese. La voce è ampiamente diffusa in Lombardia, anche qui derivati come Costina, Costone, Costino'
3) Dandalo: toponimo registrato solamente nelle carte del Cessato Catasto Lombardo del 1860 e non più conosciuto oggi dagli abitanti del comune. Ipotizzando un errore nella trascrizione cartografica, il nome potrebbe fare riferimento al dandalò, che è uno strumento di ferro utilizzato dai calzolai per lisciare la suola delle scarpe Con questo nome, forse, si designava una piccola zona del paese che ospitava le attività dei calzolai.
4) Funtanasc: zona a sud-ovest del centro abitato dove sono presenti due sorgenti sotterranee che forniscono a tutt'oggi una parte dell'acqua al comune di Varano Borghi, Sopra a questa località infatti sono state costruite le pompe idrauliche atte a rifornire il paese.
5) Funtanit du Bèl: area sulle sponde orientali del Lago di Comabbio, dove, fino ai primi anni '30 del Novecento, le donne andavano a lavare i panni. Quest'area era composta da tre lastroni di pietra posti come lavatoio che si immergevano nelle acque del lago. Il sintagma che costituisce il toponimo è un chiaro riferimento ad una o più fonti d'acqua (Funtanit infatti designa un nome plurale), lo specifico invece risulta poco chiaro. Alcuni abitanti del paese interpretano il nome come "Fontane delle belle (signore)" con una sorta di ironia.
SPAZACA DETTO ANCHE SULÈ
Era il ripostiglio ultimo di tutte le "cose" della casa che una volta si usavano quotidianamente e che ora, perché sorpassate e quindi inutili, si posavano in "abbandono" in un "angolo" speciale detto sulè. Aggeggi che erano stati utili e che non poche volte ci avevano dato un poco di felicità. In suo onore, la mattina dell'otto ottobre, mentre aspettavo di andare a fare le spese "ho sciolto" "al spazacà" un cantico che forse non morrà. Ta piaserìss, eh? Ma te se nò, 'I don Lisander. Pazienza, bisogna cuntentàss. Ul spazacà era lo spazio delimitato dal tetto e dal soffitto di stanz. Era per noi ragazzi il posto ideale per nasconderci, sicuri che lì nessuno avrebbe pensato di cercarci. Polvere, ragnatele, sedie spaiate e spagliate (sedie senza il sedile di paglia) padell, padelott, paiò da ramm metù in sulè da quand sa pizèa pù 'l fog in dul camen. Ul cadregott, ul staniò, ul telàr da bicicleta senza la cadèna e cui ròo senza cupertòn.
Ier, che noia, l'ha piuùu par tutt ul dì. Ver i des ur da sira - al sea nò se fa - somm andài a fa 'n gir e somm finìi sul spazacà. Visen a la trapula par ciapà i fuìtt al caalen da sconca tutt pituràa da russ (quanta pulvar ghe 'n gir e quanti ragnatel suspes sui cudaghett dul tecc) ho vist un cadregott cunsciàa da fa pietà, un tàbar ch'al par un culabrod, un zucaròn tutt scalcagnàa ch'ul bord da pel viola, la me cartela cun dent un silabari cui foj mangiàa di ratt. In un cantòn gh'e setàa giò, sul gomit dul canon du la stua, un fiulèn ch'al gha nò des ann scundùu, pien da paura, par ciapà nò la paga.
La me mama Cechina la sa scalmàna che stìza la gha indoss! la sa sgula par nient sota, in curtil, tra 'l puzz e la rudera, e la ma ciàma cuntinuament par nom.
soror juliana de purizellis de cassinis de verghera (1426-1501) (1-2)
Nella lettera indirizzata dalla venerabile badessa Benedetta Biumi a Mons. Gasparino de Porris, di cui si conserva una copia nella Biblioteca Ambrosiana, tra l'altro si legge: "la devotissima sorella Giuliana fu donna di vita venerabile e di somma perfezione".
Questa serva di Dio era ricca di fede, di virtù e di costanza; l'obbedienza, tra le virtù da lei possedute, non soltanto fu ammirevole, ma addirittura incredibile.
Era tale la sua carità che non appena le veniva chiesta qualsiasi cosa, subito la faceva se appena le era possibile farla. Non cessava mai un istante di lavorare, né rifiutava di fare tutti i lavori più umili e servili, della vita monastica, come aveva fatto per anni nella sua vecchia casa, nella completa obbedienza ai genitori.
Giuliana Puricelli è fondatrice, con la beata Caterina di Pallanza, del Monastero agostiniano di Santa Maria del Monte sopra Varese.
Nata a Verghera nel 1426 da poveri contadini, resterà essa pure fino alla morte contadina nel profondo dell'anima per quel suo darsi sempre da fare, per quella specie di attaccamento al sacrificio che l'ha caratterizzata durante tutta la sua esistenza.
Il 14 ottobre 1454 lasciava la sua casa dove il padre autoritario la angustiava, e in compagnia di un fratello, saliva i sentieri che portavano alla vetta del Sacro Monte. La via era malagevole, ma, la giovane, robusta e abituata alle fatiche della terra, era animata dalla forte volontà di superare ad ogni costo l'ultimo ostacolo che la separava dalla meta tanto sospirata.
Da quel momento incominciava una vita nuova. Fra se' e il passato appena abbandonato, Giuliana poneva con fermezza un abisso che non avrebbe più tentato di valicare.
Col morire di quel giorno straordinario sentiva spegnersi in cuore i lunghi anni trascorsi nel mondo che considerava come un esilio senza pace.
Rinunciava a diventare sposa e madre, si privava di tutte le libertà che la vita (allora certamente non facile) le poteva offrire. Che cos'era tutto questo in confronto al mistico piacere di diventare creatura d Dio! Lassi, finalmente, si sentiva fuori dal mondo, di quel mondo che per la verità, aveva poco conosciuto ma nel quale aveva intuito l'implacabile nemico di ogni tentativo di perfezione cristiana.
Dio aveva donato a lei, ignorante fanciulla di campagna, il più grande amore che possa stare nel cuore dell'uomo: l'amore per Primo fatto importante, anzi capitale per lei, fu l'incontro con Caterina da Pallanza, la quale fu subito conquistata dalla innocenza e dalla forza di carattere della giovane vergherese.
**************** fine giornata ************************
27 aprile 2024 - sabato - sett. 17-118
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Dati di concessione. (13- )
Un bel dì si chiese: "Se comprassi un carretto, di roba ce ne starebbe di più e tirerei fuori meglio la giornata!" e, comprò il carretto.
Ma, il carretto era pesante da trascinare ed allora per poterlo trascinare comprò un asino: ciucco sì ma non proprio bestia.
L'asino era tanto caro, servizievole e fin troppo obbediente: tanto obbediente che imparò, seppur con tanto impegno, a non mangiare e quando ebbe ben bene "imprenduto", morì.
Questo somaro ed il suo padrone, qui nel quartiere, passarono alla storia. Nacque così quel detto "te gh'è on po de l'asin del Maran"; a chi fosse rivolto è facile immaginare.
Attraversiamo il ponte e, ci troviamo in Via Pasquale Paoli: quale significato possa avere un patriota Corso, 1725-1807, sul Naviglio Grande, lo sa solo chi ce l'ha messo.
I nuovi arrivati non sanno niente, ma noi che qui abbiamo radici profonde, questa strada la chiamavamo e la chiamiamo sempre la "Via Noeuva"; così fu definita dalla gente quando venne aperta, essendo a fondo chiuso. Agivano importanti, per quei tempi, "lavoreri", fabbriche di grido.
In primis l'officina delle biciclette, la "Dei"; la campanella, avviso per gli operai in attesa di prendere il posto di lavoro era come un segnale orario. "Gh'è sonaa l'ora del Dei, ciappa la cartélla e fila a scoeula".
La fabbrica risale agli inizi del '900 e risulta che Umberto Dei fosse un pistard, che aveva sostenuto competizioni anche in America.
In fondo sulla sinistra la "Pavesi e Volpato" maglificio di prima qualità. Ma chi era veramente questa gente che si guadagnava da vivere negli opifici già menzionati, non ultimo il Siero Terapico Ente morale Serafino Belfanti e che, abitando sulle ringhiere aveva costituito un nucleo sociale, una geografia umana il cui denominatore comune era la povertà?
E' necessaria una pausa: tanto il mio barcaiolo non si sta annoiando. Ascolta divertito una sagoma inqualificabile di imbianchino a tempo libero e, saggio ubriaco a tempo pieno.
Sul ponte sta solennemente declamando: "Io, Armando Quaglia, vi dico sempre del bene e mai del male".
Aggiungeva poi, eloquentemente eccitato: "Viva Caldara, viva Filippetti, viva Turati. I "fazzolétt", i fascisti della sezione Diaz in attenta perlustrazione, lasciavano correre.
Proprio loro che al posto della Garbo sognavano "Faccetta nera", ci facevano sopra una ghignatina.
E, questa pausa non si esaurisce; vengono in scena i personaggi veri, insostituibili inquilini delle alte case a quattro piani più solaio abitabile; quattro piani di una volta per intenderci.
Ogni piano, tra corridoio e ringhiera, aveva in carico una quindicina di famiglie.
Uno dei proprietari di questi caseggiati, non dormitori, ma case ripeto, era il Commendator Edoardo Cirla.
Sposò una Binda assumendosi in tal modo anche la responsabilità della nota cartiera sita in Conca Fallata.
Aveva più del signorotto inglese che del "padron de cà".
Alto, baffi coltivati e regolati da mani esperte ed una capigliatura da far invidia a parrucche di lusso confezionate per grandi attori.
Abito a doppio petto, relativo gilè, ed un cappello semirigido con il bordo dell'ala alzato per tutta la circonferenza.
Batteva il bastone ornato di pomello d'avorio nel salir le scale: la notizia del suo arrivo, passando di uscio in uscio, fulminea saliva al quarto piano. Visitava personalmente gli inquilini anche per riscuotere l'affitto. Non tutti erano in grado di mantenere l'impegno ed allora, nel caso di comprovata necessità, sarebbe ripassato il prossimo trimestre.
Lo sfratto doveva essere l'ultimo atto da compiersi; e quando lo si doveva eseguire, vuol dire che si era giunti all'estremo.
La gente veniva "ritirata" alle "Bande Nere".
Gli ospiti vestivano in abito grigio pepe e sale, tanto per distinguerli e così ancor più umiliarli.
"Scior Doard, me pioeuv in cà". Non se lo faceva ripetere due volte, chiamava:
"el Gioannin magutt
mari de la Carlotta
rostida da on mal brutt"
ed in poco tempo, tutto risolto.
Gli edifici del borgo
Pochissimi sono in questo borgo gli edifici che ostentino una certa sontuosità e magnificenza di struttura, eccezion fatta per quelli di uso ecclesiastico. (1) Tuttavia e per l'ampiezza del territorio e per il numero delle case, esso supera quasi ogni altro luogo del territorio milanese e perfino parecchie città fortificate e munite di mura.
Il borgo, infatti, comprende nel suo circuito 272 case assai grandi che contengono più di settecento famiglie o focolari, e sebbene non abbia nessuna frazione e le case non siano separate tra loro che da piccoli giardini, il suo perimetro misura non meno di un miglio.
Ma il non aver edifici assai alti e sontuosi può esser per questo paese ragione sufficiente per levargli importanza. Al contrario esso fu sempre un luogo abbastanza forte, spesso ebbe nemici acerrimi e troppo spesso dovette alloggiare e nutrire truppe che vi svernarono.
Questi fatti anzi spiegano il perchè della bassezza e povertà delle case; più facilmente, infatti, esse si salvavano dalle offese nemiche quanto meglio erano protette dai bastioni. Ma c'è di più. Il borgo sorge in una pianura aperta ai venti di settentrione e gli abitanti non possono difendersi dalle loro offese che costruendo case di poca altezza. Già dicemmo che le fondamenta del borgo furono gettate dapprima tra i sepolcri degli Etruschi e nel suolo bruciato, e in un secondo tempo tra le rovine e tra le radici degli alberi; v'era quindi da temere che, se le fondamenta non si fossero poste molto in profondo, in breve gli edifici sarebbero crollati.
(1) II cronista evidentemente descrive il borgo come era al suo tempo, cioè alla fine del sec. XVI e al principio del XVII.
Capilavori dell’ arte e dell’ industria - decorazioni interne d’appartamenti
di Lepantre
Questa volta attingeremo nell’inesauribile cartella di Lepantre, compositore d’ornamento, di cui abbiam già avuto materia di parlare nel nostro giornale.
Si tratta in primo luogo di un fregio coerente monumentale, che può servire per una gran sala, una galleria ecc.
Questo bellissimo lavoro, quei maestosi fogliami, quelle figure intrecciate con motivi di fantasia, espresse in oro ed a colori molto vivi, possono divenire una splendida corona, per un edificio o servire d’incorniciatura ad un plafon ornato di pitture.
Il profilo della porta e del camino ci danno una idea del buon gusto e dell’esattezza dispiegata da Lepantre nella decorazione interna degli appartamenti.
Il caminetto è per se solo un soggetto di studio per molto professioni industriali.
Insistiamo sulla parola studio, perchè, come ci siamo espressi altra volta, le memorie artistiche che veniam pubblicando ricercandole in tutti i tempi, non sono modelli da imitare, ma documenti da consultare.
**************** fine giornata ************************
28 aprile 2024 - domenica - sett. 17-119
redigio.it⁄rvg100⁄rvg-17-119.mp3 - Te la racconto io la giornata
Notizie dal Villaggio
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Cosa ascoltare oggi
redigio.it⁄dati4⁄QGLA008-dialetto-storia-6981-1.mp3 - Parte 1 ("Il dialetto e storie") - Una serie di racconti di come si viveva un tempo non troppo remoto - I contratti di besti - Alla fiera di San Giuseppe e il mercato - Contrattazioni a marenghi - facebook - #35 #48 -
redigio.it⁄dati4⁄QGLA009-dialetto-storia-6981-8488.mp3 - Parte 2 ("Il dialetto e storie") - Una serie di racconti di come si viveva un tempo non troppo remoto - La Bataglia da Legnan e Busti - La vigna della Boschessa - Il bosco del Figuzzo e della Bersanella Brambilla presso Busto Arsicio - La memoria dei popolani - #27 - #35 #48 - #69 -
IN GIRO PER LE PORTE (14- )
La Marion, centottanta chili di donna, attendeva il ritorno di suo marito l'Attilio, infermiere al Zonda.
Il suo arrivo annunciato da una lunga e rumorosa discussione con l'altro infermiere, el Bollettin, metteva in agitazione tutte le donne delle porte. Un piramidone per la Luisina, "ona polentina", impasto di farina di lino scottante da applicarsi sul petto protetto da un brandello di tela, per el "piccaprei", scalpellino, che si era buscato una bronchite e, per el "ghicc" una porzione de "salamar".
Era el "ghicc", così chiamato perchè da ragazzo aveva fatto il chierico, un uomo piccolo dagli occhi di lago conoscitore di tutti i postriboli e tenutarie varie.
Pur tuttavia fraternizzava con un distinto signore dall'abito smunto, consunto ma non bisunto, che non nascondeva una buona fattura ed un trascorso rispettabile; si è sentito dire che ogni mattina accompagnava una nobil donna decaduta a prendere la minestra dai frati a Monforte e, c'è da crederci.
A fare da contrappeso, un omone bontempone e simpatico, direttore generale del reparto sbronze.
Il sabato, la domenica, il lunedì, senza trascurare le code del mercoledì e del giovedì, coinvolgeva gli uomini delle case trascinandoli in baldorie a suon di prosecco ed affini.
Ricevette persino un premio dalle case produttrici ritenendolo un rivenditore, mentre in verità era un privato consumatore.
Riportiamo una curiosa, bizzarra e spassosa affermazione del nostro omone e del suo socio, appunto "el ghicc".
Erano convinti di essere i più eminenti della classe 1904, salvo, detto con degnazione, il Principe di Piemonte loro coscritto.
E così di corridoio in corridoio, di ringhiera in ringhiera, ci si addentra sempre più nella galleria: non ci troveremo solo quadri a fosche tinte, ma scopriremo anche teneri e romantici acquarelli.
Uno di questi, la Carla, l'unica che aveva i requisiti, "dattada" come dicevano quelli delle porte, a frequentare le pasticcerie: le altre ragazze si accontentavano del "pan con l'uga e del pan coi figh."
Vestiva in modo se non chiassoso, abbastanza vistoso, ma non pacchiano e si truccava provocando le sibilline critiche di quelle che non se lo potevano permettere: lei aveva il portamento. Il marito, "el Nino Ravetta", uomo elegantissimo e raffinato, uno dei pochi che poteva permettersi le scarpe di vernice, era investito della carica di "guardiasala" al Savona, un locale in Corso Genova, dove si ballava.
La mamma della Carla, Adelina la "donnin", tanto era piccola e minuta che ben ripiegata poteva essere contenuta in un sacco da montagna, faceva parte del quartetto da camera, o meglio da stanza, del rosario serale.
Con lei l'Angelina Dondè, la Pierina, madre dell'autore di questa carrellata, e la Rachele, la grande vecchia dal dentino solo......
"La pussee veggia de la porta:
l'ha rangiaa l'impastadura, dopo vess morta".
"El Lisander portaletter", uomo che metteva soggezione: forse era la divisa corredata da relative fasce tipo "buffa", fanteria.
Amore, musica e leggende nel verde di Villa Simonetta
F U n nome dolcissimo, Clelia Simonetta, e i cronisti del tempo testimoniavano che la gentildonna era assai bella, colta e amabile, particolarmente appassionata di musica che allora, a cavallo tra il Sette e l'Ottocento, forniva pretesto e motivo per godibili concerti e trattenimenti nei salotti della gente importante. I cronisti più maliziosi aggiungevano che, riposti gli strumenti, spesso Clelia si appartava col compagno di turno in un'altra stanza per riprendere con diverso piacere, il concerto da camera. Giudizio morale a parte, niente da eccepire. Senonchè nell'alcova, dopo una carezza, un bacio e qualcosa di più, capitava talvolta che la effervescente creatura si trasformasse in un diabolico mostro: si comportava come la mantide religiosa, l'insetto che uccide e divora il maschio dopo aver fatto l'amore. Insomma, forse perchè l'amplesso non era riuscito di perfetto gradimento, forse soltanto per noia, l'incauto amante provvisorio veniva invitato a una passeggiata nel vastissimo parco e la signora, d'un tratto, pronunciava a gran voce la parola "amore" che un'eco prodigiosa ripeteva trenta volte. Alla trentesima, dalla macchia sbucava il sicario che strangolava o stilettava il malcapitato. Oppure quest'ultimo - stando a un'altra versione - veniva fatto precipitare in un pozzo profondo, irto di lame, in cui trovava lenta e orribile morte. Leggende, calunnie gratuite?
Forse a quell'epoca prosperavano cronisti di scarsa coscienza professionale a caccia di scandali: se non li scoprivano, li inventavano. Noi siamo in grado soltanto di assicurare che, nei giardini di villa Simonetta, non s'è mai trovata traccia di pozzi.
Villa Simonetta, dunque. Citata in una carta antica come una meraviglia tra "le ville di delizia o palaggi camperecci dello Stato di Milano", era stata dapprima chiamata "la Gualtiera", perchè fatta costruire, alla fine del '400, da Gualtiero Bascapè, cancelliere di Ludovico il Moro. Era stata quasi inte ramente rifatta nel 1547 da Domenico Giunti ed era diventata "la Gonzaga" dal nome di Ferrante Gonzaga, governatore di Milano, al quale l'aveva regalata un gruppo di appaltatori come ringraziamento dei favori ricevuti dal medesimo per i lavori delle mura cittadine.
Finalmente era passata ai Simonetta, discendenti di quel Cicco che, dopo essere stato gran fiduciario degli Sforza, era stato fatto decapitare da Ludovico il Moro nel 1480. E villa Simonetta è rimasta a dispetto di vari, successivi passaggi di proprietà.
Ora appartiene al Comune, che l'ha destinata a sede della Scuola Civica di Musica. E che provvede a continui restauri. Ingenti danni l'ex superbo edificio aveva subito per i bombardamenti del 1943, ma già nell'800 era cominciato il suo degrado diventando ospedale, lavanderia, officina meccanica, osteria, caserma.
Eppure era stato dichiarato monumento nazionale.
1) arroganze.
Ai temp antigh l'era la Gualtiera per via del sò padron, el Bascapè, tanto devot e anca tirapee del Moro, on principon de fera.
Ma, prima che la Clelia la rivass, l'è passada 'me Gonzaga in onor de 'na tal paga di scior spagnoeu ben colmi de smargiass."
L'era la Clelia, donna Simonetta, ona beltà e i omm je contentava: dopo avè faa i sò facc, tornada quietta, mettendegh la creanza, je strangolava.
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La lista degli argomenti della settimana 17
- travedona-monate -
- dal 1945 al 1960 (11⁄13)
- i galli cisalpini (5-5 )
- san satiro
- san sebastiano.
- dati di concessione. (5- )
- marzo (3⁄3)
- dati di concessione. (6- )
- quando piante, aglio e olio sconfiggevano la peste
- monumento castelbarco presso ispra sul lago maggiore
- marzo (3a⁄3)
- tracce della sventurata gertrude a palazzo marino
- busto arsizio - cap. 7 (5⁄5)
- varano borghi -
- spazaca detto anche sulè
- soror juliana de purizellis de cassinis de verghera (1426-1501) (1-2)
- dati di concessione. (13- )
- gli edifici del borgo
- capilavori dell’ arte e dell’ industria - decorazioni interne d’appartamenti
- in giro per le porte (14- )
- amore, musica e leggende nel verde di villa simonetta
Sommario
Le dirette
Pensiero della settimana