RVG settimana 16
 
Radio-video-giornale del Villaggio
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Settimana-16 del 2024
 
 
RVG-16 - da  - Radio-Fornace
 
Settimana 16       2024-04-15 -  Dicembre - Calendario - la settimana
15⁄04 - 16-106 - Lunedi
16⁄04 - 16-107 - Martedi
17⁄04 - 16-108 - Mercoledi
18⁄04 - 16-109 - Giovedi
19⁄04 - 16-110 - Venerdi
20⁄04 - 16-111 - Sabato
21⁄04 - 16-112 - Domenica
 
 
 
15 Aprile 2024 - lunedi - sett. 16⁄106 
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Cosa ascoltare oggi
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Non fiori ma opere di bene
Quando c'era miseria e il benessere d'oggigiorno era di là da venire, tutto quel che si faceva o si comprava o si piantava aveva ragione d'essere solo se era conveniente, se dava frutti, se era cioè utile alla economia della famiglia.
Una pianta di abies picea, di camelia, di araucaria excelsa? Per che farne? Ma è ornamento per la casa, le dà un'aria distinta, signorile, la casa diventa tutta un altra cosa.
Allora (anni trenta) nessuno che non fosse ricco aveva dubbi. Invece del cedro del Libano un albicocco, invece della camelia bilobata un ciliegio, invece dell'araucaria una pianta di melo, di pero, o di fico. Non la bellezza, il verde fine a se stesso, ma l'utilità materiale delle pesche coltivate nell'orto di casa, delle noci, delle nocciole, dell'uva del filare che faceva da divisorio tra l'orto e il pollaio.
Dovunque ci inseguiva il fantasma della fame, la penuria dei soldi, la necessità di economizzare, di cavar sangue perfino dalle rape.
Il prato seminato davanti a casa era di trifoglio: oltre che a fare una specie di tappeto verde serviva da pastura per le oche che durante l'estate fornivano la piuma morbida per trapunte e cuscini d'inverno, ingrassate a dovere, costituivano il piatto forte per i cenoni di fine anno.
Filari di uva, piante di mele (nel mio giardino avevo un albero che produceva mele cotogne di una grossezza eccezionale: erano il sogno delle mie galline che a furia di beccate si mangiavano anche il torsolo), piante di pere in fila di quattro o cinque, piantone di kaki (ne producevano a quintali) noci giganteschi, una mia pianta di albicocche superava in altezza la mia casa di due piani, pesche, prugne gialle e blu così dolci e buone che venivano prese d'assalto dalle api prima ancora della loro maturazione.
Importanza capitale per l'economia paesana era costituita dai gelsi o mori, da noi chiamati "muròn": le loro foglie erano cibo prezioso e insostituibile per l'allevamento dei bachi da seta, attività prospera soprattutto nei primi venti anni del secolo.
Tutte le nostre campagne erano percorse da file continue di gelsi: il loro frutto, le more, era molto gustoso. (Per chi non ha mai visto un gelso in vita sua: ne esistono due più che centenari e sono così vecchi che hanno il tronco quasi cavo. Tuttavia, prosperano ancora benissimo; si trovano a Verghera a metà circa di Via Palazzo di fronte al cortile che porta il numero civico 24. Come riescono a sopravvivere? Vestono quest'anno come tutti gli anni precedenti, una ricchissima corona di vivissime e sanissime foglie verdi).
Si coltivava, durante la mia fanciullezza, il ravizzone, una piantina non più alta di trenta o quaranta centimetri, ricoperta di vivissimi fiori gialli dai quali, per spremitura, si otteneva un olio denso e saporito. Patate, segale (coltivata sui terreni più poveri), grano, granoturco o formentonino frumentone, granoturco di seconda semina (pannocchie e piante più piccole, rispetto al granoturco normale, seminate sui terreni dove si era già fatto il raccolto del grano) orti con tutte le verdure utili per la cucina di casa, zucche comprese; non mancavano le erbe per profumare gli alimenti.
Erano tanti anche i campi coltivati ad avena per i numerosi cavalli del inutili dal progresso paese che sono man mano scomparsi, resi inutili dal progresso meccanico
Poiché la nostra campagna, non essendo irrigata, aveva bisogno di una certa quantità di acqua piovana che la natura non mandava mai in quantità sufficiente, ne derivava che la produzione agricola fosse scarsa e di non alta qualità.
Zona industriale soprattutto, la nostra proprietà terriera era spezzettata ed in genere bastava appena per il fabbisogno di una famiglia di cinque o sei persone.
Da quando il mondo è cambiato, davanti alle nostre case piantiamo cipressi, araucarie, magnolie. Non per la loro bellezza di flora qualificata, ma come simbolo e misura della nostra ricchezza.
Non esigenza estetica dunque, ma snobistica manifestazione di orgoglio e presunzione. Come dire la Mercedes invece di una Fiat utilitaria.
TRAVEDONA-MONATE
47) Móte Bianche: Il toponimo è attestato nell'area poco a nord del Miseröö e designa una piccola altura. La voce móte è di larga diffusione . La specificazione bianche forse si riferisce al colore chiaro dell'altura dovuta a particolari coltivazioni o inflorescenze, oppure si può rifare alle caratteristiche del monte forse un poco spoglio
48) Motta: due toponimi riprendono questa voce. A Travedona è presente il Mot ampia zona a sud del Furnas. A Monate è localizzabile il Móte poco a nord dal centro del paese.
49) Occhio: toponimo di dubbia localizzazione e di incerta etimologia registrato unicamente in una pubblicazione locale del 1990 dal titolo Il lago di Monate a cura di Paolo Baretti L'etimo del nome è da ricercare proprio nel nome öc "occhio" che indica, per similitudine, una zona da cui scaturisce l'acqua. Anche i parlanti locali affermano che le varie sorgenti presenti sul territorio erano dette "occhi" perché erano i luoghi in cui l'acqua zampillava facendo "lacrimare la terra".
50) Pasquée: area a nord est di Monate sul confine con Travedona poco a nord della Cascina Carolina (Fighiröre). In dialetto si definisce pasquée un "pascolo o terreno non coltivato", dal latino pascua "pascolo". I locali fanno notare come quest'area fosse caratterizzata da un terreno umido che era disposto come pascolo comune per tutti i mandriani del paese.
51) Peschére: zona di confine fra Travedona e Monate costituita da un'area ampia e pianeggiante che fino agli anni '50 del Novecento ospitava un'estesa coltura di pesche, prodotto rinomato e caratteristico della zona. Difficilmente il nome può avere attinenza con l'attività della pesca essendo una zona pianeggiante lontana dal Lago.
52) Peže: due zone di Travedona prendono questo nome. La prima è appunto Peže la seconda Péz. Ure peže "il pezzo di terra" è il singolare mentre i pez "i pezzi di terra" designa il plurale. Dal singolare si è forse arrivati per errore al toponimo Repetino attestato alla fine dell'Ottocento. Questi due luoghi non distanti tra loro erano situati nei pressi del centro del paese ed erano dei piccoli orti generalmente di proprietà della Chiesa che venivano gestiti dagli abitanti locali per coltitvare ortaggi e verdura di stagione
53) Piane: in dialetto pian è voce frequentissima per indicare un terreno pianeggiante. A Un toponimo Occulum è attestato anche in un atto notarile del 1198 in riferimento ad un campo venduto nel comune di Comabbio.   Travedona è una piccola area pianeggiante che collega una piccola pozza d'acqua detta Laghèt con le Funtanevive.
54) Piedimonte: cascina collocata a nord-ovest della Cascina Buon Gesù e ad est del centro abitato di Travedona in una zona in leggero pendio. Il nome si riferisce alla sua posizione ai piedi del cosiddetto Munt.
Lombardia, terra di laghi e di storia. Oggi vi racconterò 2 leggende della Lombardia.
Nel bellissimo lago d'Iseo c'è una leggenda. Si dice che il 14 luglio di ogni anno il lago si tinga di uno strano colore cupo. Secondo la storia si tratta di una strega, la matta, che trascina sul fondale chi osa farsi il bagno. Si tratta di una leggenda, è vero, ma ci sono state davvero delle strane morti durante la famosa giornata della matta? Bergamo e Seriate c'è un portone di pietra noto come il portone del diavolo. Fu realizzato nel 1550 e su di esso si racconta una leggenda. Si dice che l'architetto, non riuscendo a realizzare quel portone second o le indicazioni assurde dei committenti, esclamò, nemmeno il diavolo riuscirebbe a costruirla. Quella notte il diavolo si palesò davanti all'architetto e costruì il portone per suo conto. I committenti rimasero sbalorditi, ma ancora non erano soddisfatti e così l'architetto si rivolse ancora al diavolo. Alla fine il portone fu realizzato esattamente come era stato richiesto e si dice che poco prima di un temporale nella zona del portone si possa sentire l'odore di zolfo, un segno della presenza demoniaca.
Gino, nell'anno 999 il vecchio Ponte Romano crollò e chi voleva passare dall'altra parte passando da Pavia, doveva utilizzare le barche. Si dice che il 24 di dicembre un gruppo di persone vuole raggiungere l'altra sponda, ma una nebbia fitta impedì loro il passaggio. Si palesò una figura vestita di rosso e fece apparire un ponte fatto di nebbia. Si rivolse infine ai passanti e disse, questo ponte diventerà di pietra se il primo che lo attraverserà mi donerà la sua anima per sempre. L'arcangelo Michele, che era presente fra i passanti, disse al diavolo che avevano bisogno di riflettere e gli chiese intanto di completare l'opera, mentre loro avrebbero deciso chi mandare per primo il diavolo completa l'opera e San Michele decise di far attraversare un caprone. Il diavolo fu ingannato e nessuno dei presenti venne sacrificato.
       **************** fine giornata ************************
 
 
 
16 Aprile 2024 - martedi - sett. 16⁄107
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Cosa ascoltare oggi
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Cap. 3 - Il Castello o rocca e il fosso (1⁄2)
Il nome che negli antichi tempi sarebbe stato conveniente a questa nostra terra, più che di borgo (1) sarebbe stato quello di fortezza perchè oltre le sette fortissime torri che come rocche lo munivano, ebbe sempre all' ingiro il fosso e il bastione. Da quella parte poi, ove sorge la chiesa di S. Michele, sorgeva la rocca principale, ed anche ora a chi guarda bene il luogo, facilmente la cosa appar verosimile. Ma il fatto è attestato anche da scritti e documenti.
(1) Secondo il Ferrario, Busto Arsizio avrebbe cominciato a chiamarsi, nelle carte officiali, colla denominazione di borgo nella seconda metà del sec. XIII. Infatti nelle pergamene di data anteriore si trova quasi sempre in loco Busti. Tuttavia è certo che fin dal secolo XII Busto aveva già acquistato una certa importanza e nella carta dell' Ager Mediolanensis pubblicata dal Giulini nella parte IX delle Memorie spettanti alla Storia, al Governo ed alla descrizione della città e della campagna di Milano nei secoli bassi, Busto apparre indicato come borgo
Infatti Anselmo Pozzi, che redasse gli elenchi di tutti i redditi della Chiesa parrocchiale di S. Giovanni Battista di questo borgo, alla presenza di Baldizone Stampa, console milanese di giustizia, testimonia di averli scritti nel castello di questo borgo nell'anno 1242. Detto castello fu eretto in quella parte del borgo che era la più alta affinchè da esso si potesse sorvegliare tutto il paese e il territorio circostante. Ancora vi rimane in piedi la torre che allora serviva per esplorare, ora invece porta le campane della chiesa sopra ricordata. Solamente la sommità di essa è di recente costruzione. Nel 1559 fu, a spese della comunità, adattata a torre campanaria per tre campane. Anche ora si vedono molti blocchi di pietra dura, che furono tolti dalle rovine della torre, sparsi qua e là nei giardini parrocchiali e nelle case dei privati. Ma, se non mi inganno, insieme alla torre starebbe ancora in piedi anche il castello se gli intestini odi civili dei Milanesi e le frequenti battaglie, e le terribili inimicizie tra i Torriani e i Visconti, tra la classe popolare e quella dei Nobili, e la libidine di potere, e le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini non avessero sconvolte le città e rovinati i paesi e i castelli. E fra questi io non dubito che ci sia stato anche il nostro.
Infatti i Bustesi durante la grande contesa tra i Torriani e i Visconti, sorta per la signoria del Milanese, furono sempre fedeli alla famiglia dei Visconti e alla classe dei nobili contro i Torriani (1). Ma questa fedeltà procurò al borgo molti mali e grandissime offese, tra le quali la distruzione del castello fatta da Napo Torriani, contemporaneamente a quella delle altre rocche patrizie. Tutto questo, dall'esame delle storie, si sa che avvenne nell' anno 1276, cioè un anno prima che l'arcivescovo Ottone, della famiglia dei Visconti, dopo un lungo esilio suo e di molti patrizi, conquistasse il dominio assoluto del Milanese, dopo aver sconfitto l'esercito di Napo presso il borgo di Desio e aver preso Napo stesso che l'imperatore Rodolfo aveva nominato poco prima governatore di tutta la Lombardia. Questa vittoria sui Torriani, Ottone la riportò con l'aiuto del grande Matteo, suo pronipote, e di altri molti. Siccome poi Matteo ebbe l'incarico di una ambasceria per l'arcivescovo presso l'imperatore Rodolfo, Ottone gli sostituì come comandante dell'esercito, Alberto Confalonieri, bresciano, che era pretore (2) di Milano. Costui, come racconta Bernardino Corio nella sua storia di Milano, cacciati gli abitanti da Castel Seprio, condusse il 28 ottobre 1285 l'esercito a Fagnano, che dista dal borgo di Busto quattro miglia, avendo. in animo di stabilirsi presso Castiglione che Napo aveva quasi distrutto dalle fondamenta con altri borghi e castelli in odio dei patrizi milanesi.
(1) Nella lotta tra i Visconti e i Torriani non solo Busto ma tutta la parte nord del Milanese (l'Alto Milanese) tenne per i Visconti, mentre la parte sud (il basso Milanese) era per i Torriani.
(2) Podestà, dice il Corio nella Storia di Milano, parte II cap. VII, dove diffusamente racconta questo episodio della lotta tra Visconti e Torriani.
dal 1945 al 1960 (10⁄13)
M: Eh già, ma sérom istèss tuce in città, éren semper pocch quei che podéven andà in vacanza, e la città l'era pièna de milanes che viveven in gèner in del sò quartier, anzi in de la soa via, dove gh'era tusscoss, la cà, l'osteria, i bottegh, voeuna per ogni gèner el lattée, el prestinée, el cervelée, l'offellée, el droghée, la posteria che la vendeva on po de tusscoss, e via inscì, e poeu se cognosseven tucc; e i fioeu giugaven in strada, anca s'el cominciava a diventà pericolos per el traffich. E a 'sto proposit, l'è in chi ann lì che i milanes hann fàa conoscenza di gran bus in tanti strad important, che sarien poeu diventàa la Metropolitana, che la sarà poeu inaugurada nel '64 (sessantaquatter), ma in compens s'è anca comincià a dismètt diversi linei del tram, compres el famos Gambadelègn, che l'era attiv fina dal 1880 (milavòttcentvot tanta), per lassà post ai filobus de la circonvallazion esterna e a noeuv linei da autobus, che in quei ann sbatteven foeura di fumm spuzzolent, inscì come del rest i automobil, che semper pussée gent la se podeva permètt.
C: L'è el progrèss caro mio, che cont la tecnica el seguita a dagh tanti ròbb noeuv e indubbiament el ghe fà cambià anca i abitu din, ma me par che i co de la gent hinn ancamò quei de mila ann fa. Quai volta funzionen bén, quai altra mal; S'te me diset puttost di politich de allora?
M: Certo el co de la gent e anca di governant el cambia nò cont la velocità de la tecnica, ma se pò minga negà che la politica italiana e anca europea, in 'sti ann ona ròbba bòna l'ha fada, e l'è debon ona gran ròbba, quella de fagh avè 75 (settantacinq) ann de pas, e sperèmm che alter tanti ghe ne sien ancamò, ma per el rest de stupidad n'ha fàa tanti e indubbiament hann toccàa anca Milan, e quasi semper per fa di dagn, vist che el governo de Roma l'è semper stàa distant di problèmm de l'economia e del svilupp, cont on'idea de Stato a metà tra el comunismo e la Gésa, e vist che praticament l'Italia l'è stada divisa domà tra democristian, che ciappaven i danée di american, ma forse pussée ordin dal Vatican, e comunisti, che ciappaven ordin e danée de la Russia, che allora la se ciamava Unione Sovietica. E inscì i milanes hann dovuu fa quasi tusscoss in de per lor, anca se ona colpa ghe l'hann anca lor, cioè quella de vorè minga interessass de politica, o forse de vèss minga bon de vèss politich. In di quei ann li, se te doman- davet ai fioeu che eren adrée a finì la scòla che mestée voreven fà, quasi a nissun ghe vegniva in ment i uffizzi pubblich e men che men la politica, e inscì pian pian seguitavum a vèss magari semper pussée bravi à lavorà, a tirà su fabbrich e bottégh, a in ventà di mestée noeuv, ma i légg ie faseven i alter e chi a comandà eren semper pussée quei che vegniven de lontan, tanto che in di uffizzi pubblich de Milan ormai quasi tuce vègnen da la bassa Italia. Ma per fortuna la forza di milanes, de allora e d'incoeu, l'è rièssida a fagh crèss istèss, anca perché se cressevom minga nun, gh'éra minga de danée nanca per lor, politich, burocrati e compagnia bèlla.
SCHERZ, CANTA E BALLÀ A COMAND: ALLEGRIA OBBLIGADA, CHE TRISTEZZA!
«Oh, se Dìo voeur da adèss sèmm in Quaresima. L'è finida con 'sto Carneval!».
;Dì, ma tì te se sentet ben?».
«Benissim, anzi, da incoeu mèj. Mì ne podevi pù de mascher, fest, gioeugh, schèrz...».
«Ò bèlla, ò bèlla, mì savevi nò de 'sta toa vocazion masochista. Te fa piasè soffrì?».
Dì nò di stupidad... L'è pròppi nò masochismo, mì voraria domà on poo de lògica».
Famm capì
Tì pénsegh ben a sora. El Carneval el nass come ultim s'cioppettant moment de legria prima de la Quaresima, del temp de penitenza, de limitazion, de sacrifizzi. Ona sòrta de compensazion anticipada. Inscì come la gran pacciada pasqual la darà el via libera al tornà indree del divertiment, de la giòia. Almen a tavola. Donca per avè el diritto a festeggià el Carneval bisognarìa impegnass a rispettà con altertant impègn i restrizion de la Quaresima. Ma adèss chi l'è che le fa? Se festeggia el Carneval, ma se ignora la Quaresima. Inscì l'è tròpp facil. E poeu, che bisògn gh'è de dedicà on period determinaa al Carneval? Chì oramai l'è carneval semper e depertutt. Basta guardass in gir, per i strad. Basta leg i giornai, guardà la television. Lì l'è ona carnevalada continoa: la gent che la vosa, che la fà i gèst, che la taccà-lit, che la cunta sù i sò fatti; di gent mai vist e  pseudòfamos  che gòden a fass spià dal bus de la saradura; di personagg con di pettenadur e vestii improbabil. I pussee seri hinn quèi de  Scherzi a parte ...
Adèss mì hoo capii. Mì me seri sbagliaa. Tì te see nò masochista, tì te see domà on vegg moralista brontolon». «El sarà anca inscì. Ma l'è minga assee. La verità l'è che mì troeuvi stupida la legria a comand, la festa obbligada. Mì soppòrti nò l'idea che in cèrti dì e in cèrti pòst se gh'ha de stà sù allegher, che se deva per forza avè voeuja de scherzà. L'è ona ròba de ciòd, l'è minga natural. E a vèss sincer giamò el me piaseva pòcch quand seri fioeu. Mì capivi nò che gust ghe fudèss a andà in gir mascheraa. E poeu, chi l'è che l'ha dii che a Carneval ogni scherz el var? On schèrz stupid el fa inrabì sia a Carneval che in qualsessìa moment de l'ann».
Insòma, per tì l'era on patiment giamò de quand te seret piscinin...
«Esagerèmm nò. Mì me divertivi minga tròpp, ma l'era nanca on dramma. La situazion però l'è peggiorada andando innanz cont i ann...».
«Natural, a diventà vègg tì te see diventaa pussee secca- perdee».
«Nò. Cioè, el pò vèss anca inscì, ma l'è nò quèll el pro blèma. El guai l'è che cont el passà di ann el Carneval, a Milan, l'è diventaa pussee ona ròba pubblica e donca el s'è diffus. Ona vòlta gh'eren i fioeu in maschera e on quai schèrz goliardich de student d'università con la voeuja de fa stupidad. Ormai, da ann, sèmm passaa al Carneval istituzional: l'è organizzaa, pianificaa, finanziaa dal Comun. Gh'è manifestazion, festeggiament, musica, cant, ball, esibizion... L'è l'esaltazion de la legria obbligatòria. Ona tristezza...».
«Ma insòma, tì 'se l'è che te vorariet propònn?».
;Personalment mì sarìa per tirall via. Ò per lo men per tornà indree a ona portada pussee  limitada . Quatter  ciaccer , e parli de dolci, on para de tortèi e ona piccola festa per i fioeu che gh'hann voeuja de falla. A pensagh ben a sora, l'unica ròba che mì soppòrti de 'sto Carneval pubblich l'è la sfilada di carr organizzada dai oratòri, cont i fioeu in gir per la città, cont adree i pret sudaa e i suòr cruzziaa. Lor però la Quaresima la farann in sul séri. Anzi, a vardà i facc stravòlt a la fin del corteo, par che lor abbien cominciaa la penitenza el dì prima».
 
 
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17 Aprile 2024 - mercoledi - sett. 16⁄108
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PIGOTA E CAÀL DA SCONCA
Se non miseria, povertà. Povertà di vita, miseria di divertimenti. Pigott, ovverossia bambole di stracci, par i tusanett che noi ragazzi per deriderle, chiamavamo bagiànn. Caàl da scònca, ovverossia cavallucci a dondolo di legno con redini vere, sella e finimenti finti con la parte inferiore poggiante sul pavimento a forma di mezzaluna. Altro mezzo di divertimento il triciclo di ferro con manopole finte, sellino di finto cuoio, copertoni (un cordoncino grosso come un dito) pieni per non fare rumore quando erano in movimento. Il mio triciclo lo chiamavamo trifusìll perché era tutto sbilenco e sgangherato. Paragonarlo alle bici per bambini di adesso susciterebbe risa e compassione. Di buono avevano solo la resistenza e per questo passavano nelle mani di tutti i fratelli della stessa famiglia. Giugheum al dutur e naturalmente volevamo visitare le nostre piccole compagne di gioco, giugheum a la maestra, organizzavamo la bottega per la vendita di generi di ogni specie, giugheum al barilott, a la rela, a la gibulèa, a la montacaalina, ai suldàa (con armi di legno o di latta) a ladar e carabigner, a scòndas, a palla avvelenata, a tòmbula, a dama, ai cart (a robamazett, a la pepa tència, a brìscula semplice e a ciamà, a scupa, a trisett) con le carte costruivamo i famosi castelli innalzati con particolare attenzione e con mano leggera. I solitari che non ci riuscivano quasi mai ci tenevano impiegati per interi pomeriggi quando il tempo inclemente ci vietava l'uso degli spazi liberi. Era però quello della palla il gioco dei giochi per noi ragazzi. Prima una bala da peza, poi una bala di goma che quando per avventura entrava nella bottega del Marino legnamè usciva sventrata (orrore!) tagliata in due. Il pallone, molto più piccolo di quello regolamentare, lo vedemmo quando eravamo già grandicelli. Aveva un buchell per gonfiarlo è una stringa di cuoio per chiuderlo. Chi possedeva uno dei primi palloni visti sui campi di gioco (piazza Volta e la muntagneta) era posto sul gradino più alto nella stima che i suoi amichetti portavano per lui.
La bicicletta era l'ultimo dono-giocattolo. Né troppo bassa, né troppo alta, ma una via di mezzo tra il triciclo infantile e la bicicletta da uomo, detta anche bicicleta da viacc. Cul bul (costo dieci lire, obbligatorio pena multe salate) ul fanal (ul ciar) e la dinamo marca Aprilia, costruiti dal Frisoni e Torresan di Verghera, ul selen da curàm, i freni che alle frenate improvvise stridevano e ti catapultavano oltre il manubrio se non ti tenevi ben saldo, i parafang che ballavano e davano un suono da tola màrcia ogni volta che si saliva su un sasso o si cadeva in un avallamento della strada non ancora asfaltata.
E così una volta il triciclo, un'altra 'I caàl da scònca, la bala o la pigòta da peza, la monta caalìna o la pepa tència (la donna di picche, nel gioco delle carte) così, con giochi "poveri" ci siamo divertiti anche noi. Ci stancavamo correndo dappertutto, senza sosta, alternando il gioco allo studio e al lavoro dei campi. Alla mattina a scuola, il primo pomeriggio giochi e vagabondaggi, il tardo pomeriggio, al ritorno dei grandi dallo stabilimento, si dava una mano per cogliere granoturco o per raccogliere le patate. Studio, divertimento, lavoro. Ometti sensati e giudiziosi, nonostante tutto. Tanta voglia di giocare, data l'età, ma anche precoce senso di responsabilità. Ci davano la mancia alla domenica. La mancia non era né un dono né un regalo. Era una specie di paga - dono da utilizzare per i nostri bisogni personali. Già allora, a quella età, sebbene fossimo appena ragazzi, i nostri genitori volevano sensibilizzarci al dovere del lavorare e all'orgoglio dell'essere indipendenti e utili.
Cap. 3 - Il Castello o rocca e il fosso (2⁄2)
Ma, dopo più matura considerazione, diede l'ordine di ritornare con l'esercito a Busto. Alberto fece fortificare di nuovo il borgo, scavandovi intorno il fosso e cingendolo con un bastione, e vi dimorò fino al mese di Novembre, poi, consolidate le fortificazioni e lasciato un abbondante numero di fanti e di balestrieri che custodissero il borgo, se ne tornò a Milano.
Ma non si deve intendere che Alberto abbia fatto costruire un nuovo fosso e un nuovo bastione; egli fece rifare e restaurare gli antichi, poichè le tavole del sopranominato Anselmo Pozzi provano che come il castello così anche il fosso esisteva già nell' anno 1242. Perciò il fosso non fu scavato per la prima volta per ordine di Alberto, ma fu sgombrato e il bastione. fu rabberciato, quasi in quel tempo stesso che l'Arcivescovo Ottone fece costruire la rocca nei borghi di Legnano, Cassano e Angera. Ma altre restaurazioni del bastione furono fatte in seguito.
Essendo un giorno scoppiati in Milano una ribellione e grandissimi tumulti contro Giovanni Maria Visconti, che fu secondo Duca di Milano, moltissimi fra quelli che abitavano fuori di Milano si distaccarono da lui, e tra gli altri, Facino Cane, di Casale, tolse Pavia al Duca. In seguito Facino, perchè i Bustesi erano rimasti fedeli al Duca e ne difendevano le parti, tentò di radere al suolo il borgo. Ma di ciò discorreremo più copiosamente altrove. Per questo i Bustesi circondarono il borgo con un altro bastione, maggiore del primo. e lo cinsero con un fosso più profondo e fortificarono il luogo più di prima, cosicchè non vi era più nessun modo di entrare se non attraverso ponti levatoi e quattro porte che sempre erano chiuse da solidissimi battenti.
E finalmente, essendo Duca di Milano Francesco II Sforza, poichè i Francesi facevano frequenti scorrerie nel territorio milanese, le fosse e il bastione furono di nuovo rinforzati e ridotti in condizioni migliori per opera non solo dei Bustesi ma anche degli abitanti delle pievi vicine. E ciò hanno riferito coloro che vissero in quei tempi e ne soffrirono le offese. Di conseguenza furono di nuovo costruite le porte, aggiunti i ponti levatoi, aperte feritoie e finestre oblique e innalzato un doppio bastione assai maggiore degli anteriori.
Tutte queste opere noi le vedemmo ancora saldissime e atte a respingere facilmente ogni assalto di ? cavalleria; ma ormai quasi tutte sono state levate e, per l'incuria di coloro che sono stati preposti al governo della città, quasi tutto il bastione fu distrutto, le fosse riempite di detriti, le porte devastate, le mura aperte da ogni parte e tutto, in una parola, ridotto come in aperta campagna. E la cagione di questo si è che i più giovani, nati sotto il governo di re potentissimi, (1) non hanno esperimentato le offese e le miserie dei tempi passati, nè temono che possa a loro di nuovo accadere quello che si dice sia accaduto ai nostri maggiori.
Concludendo, ciò che abbiamo narrato intorno al fosso, al bastione, alle porte e alle altre mura del borgo è vero ed è comprovato da ciò che di esse ci è rimasto.
(1) Il cronista allude ai re di Spagna che tenevano il Milanese per mezzo di governatori fin dalla morte di Francesco II Sforza avvenuta il 10 Novembre 1535.
CULTURA ISTRUZIONE (3-5 )
M: Senz'altro vale per le grandi collezioni, ma anca per quei che varen de meno: ai loro possessori resta sempre il piacere di averle godute e di essere diventati ricchi se non di denaro quanto meno di cultura. A proposito, sai che anche Diabolik e Tex Willer sono "nati" a Milano, da genitori milanesi, anca se parlen minga in dialett? Il collezionismo non è certo un'esclusiva dei milanesi, ma è qui che se ne trova in misura senz'altro rilevante e di notevole livello. Ricordiamoci delle nostre famose e preziose case-museo...
C: Se poden minga desmentegà i grandi mecenati, imprenitori e aziende, che a Milano si sono distinti per investire non solo nelle loro attività economiche, ma hanno arricchito le loro imprese di opere d'arte e di cultura, spesso favorendo e sostenendo la creatività di tanti artisti emergenti, lasciando così a Milano un patrimoni che domà da pocch temp l'è staa miss a disposizione della gente. Mi riferisco alle grandi banche, che hanno dato nuova vita agli importanti palazzi delle loro sedi storiche; ma anche alle aziende che hanno creato dei musei d'impresa, ricchi di arte e di cultura. E me pias anca fà quai nomm: le centenarie Pirelli, Branca, Campari e le più giovani Armani e Prada.
M: E poi, a proposito del patrimonio, n'emm minga dii asee de quell che gh'è in di noster ges, che è della più grande importanza e che tanti milanesi non si rendono forse neppure modo forse più espressivo del nostro essere milanesi. Quanto ai patrimoni sconosciuti nelle case di molti collezionisti milanesi, restano spesso nascosti perché si teme che le istituzioni non siano in grado di valorizzarli rendendoli pubblici e neppure di conservarli cont almeno on po del spirit de quei che i hann miss insemma. Ma questo rafforza il concetto che la cultura produce ricchezza, se non altro perché l'è on patrimoni ch'el seguita a cress de valor.
 
 
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18 Aprile 2024 - giovedi - sett. 16⁄109
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Dati di concessione. (3- )
Il 30 aprile 1880 il Sig. Curti Gioachino per la ";Società dei Tramway del Nord Centrale d'Italia"; chiede la concessione per una tranvia a vapore: Milano - Corsico - Abbiategrasso - Vigevano, della lunghezza di 29,440 km. Il 30 dicembre 1903 viene aperta all'esercizio la tranvia Milano Corsico; concessione data alla Società Genovese Italiana Edison di Elettricità il 23  ottobre dello stesso anno.
Alla medesima Società verrà poi concessa nel 1912 la costruzione e l'esercizio del tratto Corsico Abbiategrasso.
Con un decreto ministeriale del 1919 si riconosce il diritto alla Società Trazione Elettrica Lombarda di subintegrare alla Edison.
Nel 1939 alla S.T.E.L. subentra il Comune di Milano.
Riportiamo ora, augurandoci che il lettore non si annoi, un popolare quanto fantasioso modo di interpretare l'avviso sonoro dell'arrivo del ";Tram bianco"; della già nominata S.T.E.L.
In prossimità del centro abitato quattro acuti segnali ne avvertivano l'ingresso: “tù - tô - tú - t?” .
La gente diceva: "; el riva el Mascagni";.
In quei quattro fischi l'orecchio musicale identificava un pezzetto dell'Amico Fritz: ";tutto tace";.
E' chiaro e lampante che l'avvento dei mezzi di locomozione elettrici assorbì la clientela della barca.
Il servizio, ma per breve tempo, si ritiene che funzionò ancora sul tratto Boffalora-Abbiategrasso; fu il canto del cigno al quale seguì il definitivo riposo. Però, i momenti, se non proprio storici ma almeno di costume, vengono fissati nel tempo.
Cleto Arrighi nel 1870 ci regalò la spassosa quanto amara farsa: ";EL BARCHETT DE BOFFALORA";.
Le filodrammatiche l'inserirono in cartellone per anni ed anni facendone spesse volte uno scempio d'interpretazione.
Il trasporto continuò non più per passeggeri ma per merce; in sintesi ";il collettame";.
Due barche si alternavano nel corso della settimana: la Barenghi e l'Asiani. I tre fratelli Asiani, uomini rotti ad ogni fatica, pronti, decisi e, qualche volta impetuosi, avevano contrasti piuttosto robusti con i barcaioli della sabbia. Incrociandosi nel percorso, spesso venivano a parole, se non proprio a fatti.
El ";Paronett";, da padroncino, ultimo ammiraglio dei barconi stracarichi di materiale ghiaioso, ci conferma che quella barchetta, venti, venticinque metri di lunghezza, era soprannominata con un piccolo segno di disprezzo la ";Battèla";.
La merce veniva caricata e scaricata al 62 sull'Alzaia.
Lì un magazzino deposito raccoglieva i colli da portare ad Abbiategrasso. Questa casa, una delle poche esistenti con la ringhiera su strada, ancor oggi si cita come la ";giazzera";.
I GALLI CISALPINI (3-5 )
Per quanto riguarda la Lombardia, era una popolazione che viveva didattici occidentali e si estendeva a sud fino ai valichi alpini e si aprono nella vettura padana. Comprendevano quindi intanto Ticino, la parte occidentale della Lombardia e Val Dossola la capitale. l'attuale Domodossola, però spiccava anche un'altro insegnamento di litio, oggi Bellinzona. All'epoca anche Milano Mediolanum per i romani era sotto controllo. Lo consiglino, ma erano riusciti a conquistarla solo dopo una guerra contro gli etruschi, cioè il 600 e il 500 a.C. Secondo lui il vecchio, furono accompagnati da Ercole durante l'attraversamento delle Alpi, per poi essere abbandonate a metà strada. Al contrario, poi lì e Catone Ritennero che la loro nascita derivasse da una tribù sconosciuta, avversione e con la destra buone, il quale considerava il leuzzi uramaki. Divisi dai reti. È curioso sapere che si può. Pisa, che siano, che si siano stabiliti ancora prima delle guerre galliche e quindi sarebbero una delle popolazioni più ancestrale in Italia? Analizzando l'economia, i nobili lonzi vivevano a del benessere, dato che sono stati trovati corredi in al 100 e vasi bronzei. Tutto arricchito da un'abbondante produzione agricola che. Facevano pagare per il transito nei loro territorio, tuttavia è molto probabile che compissero anche l'azione dei territori meridionali.
Insubri erano una popolazione stanziata nell'Italia Nord occidentale, non sappiamo né quando arrivarono né da dove siano venuti e neppure di che più poetico fossero vista la il cartina di ritrovamenti archeologici. A tal proposito sono state prese in considerazione due ipotesi, la meno probabile, supportata dai di Olivio, che ritenne che gli altri fossero arrivati in Italia tra il settimo e il sesto secolo a.C. Seconda è più probabile. Tesi ipotizza che l'inizio vi fossero originali della Francia meridionale e in seguito entrarono in Italia invadendo il territorio ligure con la fusione della cultura autoctona insubri, vennero catalogati nella classe dei celti liguri due tizi che Milano sia stata fondata intorno al 500 da un gruppo di Insubri. In economia questa frazione spiccava nell'arte del commercio, soprattutto con gli etruschi, la Venezia e la Gala Transalpina. In termini politici e sociali, questi carri erano rappresentati da un'oligarchia plutocratica, ovvero guidati dai nobili più ricchi. E curioso sapere che gli insubri hanno adottato l'alfabeto de Ponzio. Il quale in seguito subì un forte influsso da quello etrusco da cui infine fu sostituito.
I COGNOMI PIÙ DIFFUSI
Sono i LOCARNO, i TONETTI, i LAMPUGNA NI, i MILANI, i PURICELLI. Di questi ultimi si hanno notizie storiche più antiche rispetto alle altre famiglie.
Don Luigi Brambilla annota: "Dall'ispezione dei registri non ci si può fare un'idea precisa del come si componesse questa popolazione (di Verghera)".
Salvo le famiglie più sopra citate che risultano presenti sul territorio dal milletrecento, è da notare la presenza di nuclei famigliari il cui cognome è possibile, ancora oggi trovare nel circondario: BOTTINI, MARTIGNONI, SCHIAVINI, GUSSONI, TURATI, GIORGETTI. Considerando che non hanno lasciato discendenti fino ai nostri giorni, è da pensare che dette famiglie mancavano di discendenze maschili o che il loro soggiorno sia stato solo temporaneo. Incompatibilità col territorio, con la popolazione, motivi di lavoro, quale "non gradimento" lì ha spinti ad abbandonare il nostro paese?
In piazza Vetra il boia era di casa
Piazza della Vetra. In dialetto nostrano, la Vedra. I cultori di toponomastica discutono se il nome derivi da un canale Vepra che in epoca romana dirottava dall'Olona e qui confluiva nel Seveso e nel Nirone per poi riversarsi nella Vettabia; oppure se sia da collegare a Platea Vetera (piazza vecchia) o ancora a Castrum Vetus, che chiaramente si riferisce ad un accampamento militare. Comunque sia, sopra la Vepra passava un ponte che fu chiamato (non si sa quando) Ponte della Morte.
Un battesimo premonitore? Certo è che se, attraverso i secoli, la piazza ha cambiato radicalmente faccia, mai è riuscita a liberarsi da una sinistra, macabra etichetta. Piazza della Vetra sembra da sempre destinata ad accogliere cadaveri. Oggi ci sono sciagurati che scelgono il pratone dietro l'abside di San Lorenzo per morire di droga; in tempi andati qui era eretto stabilmente il patibolo. In servizio permanente fino agli inizi del secolo scorso.
La forca era destinata ai condannati che non potevano vantare quarti di nobiltà, ai popolani, agli artigiani, ai borghesi piccoli piccoli, naturalmente ai banditi di strada, agli assassini di mestiere, agli eretici, alle streghe, insomma a quanti incappavano nei rigori di una legge feroce. La saggezza popolare inventò un proverbio: "A la Vedra no ghe va che i calzon de fustagn", per dire che ad andarci di mezzo sono sempre i poveracci.
Ai nobili erano riservati un trattamento di riguardo e un altro palcoscenico. Intanto c'era chi, seppure responsabile di omicidio o di delitto di lesa maestà, se la cavava con l'esilio. A chi non riusciva a sottrarsi alla pena capitale, il boia non metteva il cappio al collo ma gli mozzava la testa con un colpo di mannaia e lo spettacolo avveniva in piazza Mercanti, al Broletto nuovo, con esposizione del cadavere decapitato sotto la Loggia degli Osii. Siamo in epoca viscontea, sforzesca, spagnola.
Alla Vedra la forca funzionava al centro del prato. In particolari circostanze ci si accontentava di impiccare l'effigie dei rei latitanti, talvolta si ricorreva al rogo e si bruciavano anche cadaveri dissotterrati. Impossibile, in poche righe, elencare le vittime di piazza Vedra. Meritano tuttavia una menzione Battista Scorlino e Giacomo Legorino, che intorno alla metà del '500 avevano organizzato una banda responsabile di oltre 300 omicidi. E l'infelice Gian Giacomo Mora, modesto barbiere alla cui memoria è stata intitolata una strada: fu giustiziato nel 1630 come untore, ma era innocente. Un errore giudiziario. Può accadere anche oggi.
Quand tutt in tir rivava el boja che el dava el sò spettacol on mar de gent, ona quaj troia e de lingèra on ròccol.
La forca de la Vedra in mezz al pràa la ghe toccava giust ai poverett, che i alter con grand lusso eren trattaa, an' lor ben assassin, però sciorett.
Intanta che dindaven i palanch ghe tajaven el còo
a la lus del sô
in mezz a la piazzetta di Mercant.
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19 Aprile 2024 - venerdi - sett. 16⁄110
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TRAVEDONA-MONATE -
55) Piodé: piccola conca del terreno designata come Valletta del Piodè nella carta del Catasto Regio del 1905. Oggi il toponimo non è localizzabile. Nel dialetto locale pioda è "la pietra" e il piodè, con la presena del suffisso -etum, è una "pietraia"
56) Planciola: toponimo non localizzato sul territorio e attestato solo in un atto di vendita del 1026 e riferito alla località di Monate
57) Port Vec: "porto vecchio". La più ampia e antica spiaggia di Monate che un tempo raccoglieva le donne intente a lavare i panni.
58) Pra di pöbi: "prati dei pioppi". Prati un tempo coltivati a pioppo, albero che dava il legno utile per la produzione della carta. Questa zona ampia si estende tra il fiume Barune e i terreni Pasquée a nord est di Monate.
59) Pradogni: noto anche come pedrògne. Località tra Traveodna e Monate a nord del Peschére e ad est del Sabiün. L'origine del nome è incerta, si potrebbe riconoscere la presenza della voce pra "prati" e forse il termine dialettale ogna "ontani". È attestato inoltre nel comune ticinese di Caslano un micro toponimo Pradone caratterizzato da un terreno ad angolo appartato e quasi nascosto alla vista di molti
60) Prati Magri: in dialetto noti come Pra Sèch è un terreno che si estende longitudinalmente in territorio Monate. Il toponimo è frequentisismo qui e in altri comuni e designa dei campi non particolarmente produttivi per la coltivazione. La voce può essere messa in relazione con il toponimo Prati Grassi
61) Prati Viguno: toponimo oggi non più conosciuto e attestato nelle carte del Catasto Regio del 1905
62) Rosalinda: cascina non localizzabile e registrata solo nelle carte del Catasto Regio del 1905.
63) Ruccellai: villa sita su un piccolo poggio al nord del centro di Travedona che prende il nome da una facoltosa famiglia della zona.
64) Runchìt: ampia zona a sud del Brügher e del Barigiör e a nord del Marèn
65) Sabiün: "sabbione", toponimo molto frequente che designa un'area con un terreno soffice e poco compatto non particolarmente produttiva per la coltivazione, ma utilizzata ugualmente per la coltura di patate e asparagi che meglio di altri si adattavano a questo particolare terreno. Quest'area si trova nei pressi del centro del paese pochi metri a est del Pedrògne.
66) Saresée: ampia area a sud del Brügher. Il nome deriva dal dialettale salasera "salice"I rami dell'albero, particolarmente lunghi e flessibili erano utilizzati per legare le viti nelle numerose vigne della zona.
Dati di concessione. (4- )
Due sono i motivi per cercare di spiegare questo termine.
Il primo ci ricorda un ampio stanzone pieno di ghiaccio; i macellai ";con in spalla on quart";, ricoveravano i pezzi per tenerli al fresco.
Il secondo, precisa appunto che in virtù di questo giacimento refrigerante, le famiglie di questa porta si sentivano ristorati l'estate e ghiacciati d'inverno. Conclusa la sua glaciale carriera, venne trasformata in officina di verniciatura. Il 30 giugno 1930 il Sig. Aristide Gambolò stipulò il contratto d'affitto con il padrone di casa Sig. R. Gallone.
La Ditta, ancora esistente, é una fra le più qualificate in Europa e lo era anche a quei tempi: basti pensare che le motociclette prima di essere esposte al pubblico in occasione delle mostre, venivano affidate al Sig. Gambolò: una rinfrescata al trucco e via, pronte per la passerella.
Risulta però che le cose nel cortile, dove un bidone fungeva da braciere, non esisteva ancora la spruzzatura a fuoco, non funzionassero tranquillamente. Tra fumi e polveroni in perenne ascesa, é facile immaginare il piacere degli inquilini: si trovavano la casa impregnata di nero pulviscolo, nonché le mani e il volto così ben tinti da recar invidia ad un carbonaio.
E così tra urla che scendevan dalla ringhiera si presentava il Signor Orlandi di professione fabbricante di pennelli e di piccoli telai per tessitura: la sua affascinante capigliatura bianca s'era imparentata con un corvo di razza. E venne il giorno dell'agognato compressore.
Come entrava in funzione non dava certamente la gioia di una brezza; il continuo assordante rumore produceva vibrazioni tali da far tremare le case. La donnetta del secondo piano inveiva contro l'Aristide il quale non sopportandola più, onde evitare altro chiasso, mandava su il figlio quale pacere. Ed il figlio divenne spettatore di una scenetta che sarà poi raccontata per anni. Per farla breve! La poverina rincorreva il tegamino; i sobbalzi del tiranno compressore lo facevan saltellare da una parte all'altra della stufa col pericolo che si rovesciasse: lui e le uova.
La conclusione era quella di quei tempi sani e, questo il commento finale: ";dopo tutt, l'è gent che lavora";, ossia tutto bene, si stanno guadagnando il pane.
E lavoravano anche sulle macerie della casa distrutta dai bombardamenti con aggravio degli inconvenienti.
Pensarono, almeno fu uno dei figli che pensò di risolvere il problema, rimettendo tutto in un tubo che andava poi a scaricarsi nella fogna.
Ma la fogna si ribellò. Un ometto intento a soddisfare un intimo quanto urgente bisogno, si trovò un potente e penetrante getto in quel tal sito tale da paragonarlo ad un improvviso clistere.
L'uscita impetuosa dell'ometto sulla ringhiera, con i calzoni in mano, deve essere stata degna della Commedia dell'arte.
LA VIULETA, LA VA, LA VA
Veleno, se mi baci, ti darò il mio veleno. Oh Wandissima dei miei anni verdi. Le canzoni popolari che alimentavano l'allegria nei momenti più importanti della vita comunitaria, chi le ricorda più? Canzon dul Carlo Cudiga, di temp indrè. Che stufia! Eppure erano l'anima delle riunioni commemorative, dei festeggiamenti, degli sposalizi, dei lavori di gruppo. Bastava un bicchierino di troppo, un accenno, un tentativo di "canto" per coinvolgere e scatenare la "bagarre", come dicono i francesi. Una canzone dopo l'altra con la temperatura ambiente sempre in aumento; alla fine di ogni canzone un nuovo bicchierino per "oliare" cioè lubrificare la gola. Quel mazzolin dei fiori. I cantori - pareva incredibile - disponevano di una riserva inesauribile di voce. L'entusiasmo saliva alle stelle, gli animi si accendevano e naturalmente, veniva subito voglia di ballare. Cantare di ballare. Cantare o me bela Marietina - e ballare. Il culmine, il momento più caldo. Quatar salt in alegria. Faccetta nera, Milàn l'e 'n gran Milàn, Tornerai, Cara Virginia, Amor Amor, portami tante rose, Sentimental, Paesanella. E tante altre canzoni degli anni trenta. Come chiusura era quasi sempre cantata la stessa canzone. Era l'ultimo fiore estratto, per incantesimo, dal mazzo canoro. Le note esaltavano in maniera particolare e speciale oltre ogni dire, lo spirito dei cantori. Viva l'amor, viva l'amor e chi lo sa far. Se non ubriachi certamente erano brilli tutti, donne comprese. Anzi, a volte, erano proprio le donne le più accese, le più esaltate, rosse in faccia come fuoco in faccia e con le camicette slacciate per rinfrescarsi un po' i fiori del davanzale.
Bimba tu non sai cos'è l'amore è una cosa bella più del sole, più del sole dà calor.
Scende lentamente nelle vene e poi giunge piano fino al cuore.
Nascono così le prime pene primi sogni dor.
Ex giovanotti della mia età chi ricorda ancora le parole e la musica della vecchia canzone? Chi ricorda ancora i sogni e le speranze che le belle note hanno suscitato facendo palpitare il cuore ignaro e autodidatti, affiatati nonostante innocente? Cori senza maestro, l'estemporaneità, l'improvvisazione, ma pieni di passione entusiasta.
Wandissima, dolce e desiderabile, ineffabile sarebbe stato il tuo veleno. Solo un sogno e sarebbe durato troppo poco. Illusione, dolce chimera sei tu, anche se ha fatto sognare e sperare per tutta la vita. Inutilmente.
       **************** fine giornata ************************
 
20 Aprile 2024 - sabato - sett. 16⁄111
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I GALLI CISALPINI (4-5 )
Ci spostiamo nel nord-est, dove passerai la. I carni originali del bacino del Reno giunsero in Italia nel quinto secolo, avanti con una delle ultime grandi migrazioni e si stanziarono all'estremità orientale dell'arco alpino tra il Friuli e Slovenia e Austria. Qui ebbero contatti con veneti, il Liri e reti con i quali iniziò un processo di sincretismo culturale, soprattutto con i primi due, tanto che verso la fine della loro storia sono praticamente indistinguibili dai locali. Nonostante la fusione con i veneti, la loro identità culturale e abbastanza chiara, infatti, non appartenendo al gruppo etnico di le ponti, il loro dialetto era probabilmente una variante della lingua celtica tendente al germanico, assimilato durante l'attraversata della regione del Norico. Nel corso della loro storia seguirono il destino dei veneti, lasciandosi però più pacificamente l'analizzare fino alla completa annessione dei loro territori nel secondo secolo. Questo notevole la Fondazione della Colonia romana di Aquileia nel 181 a.C. Dopo re del. Commemorata su una stele, rinvenuta il sito. Che riporta Lucius Manduchi Linus, a cui lei e colonie Giunsero nella Valle Padana con la grande migrazione del circolo pontino del 400 a.C. Guidati dal grande e littorio. E si fermarono temporaneamente nella valle dell'Adige. Ma furono spinti a sud dalle migrazioni delle bellicose tribù germaniche dei Camuni. Si insediarono quindi nei territori che oggi comprendono indicativamente le province di Brescia, Bergamo e Verona, ma furono in eterno conflitto con i veneti per il controllo del vicentino, almeno fino alla seconda guerra punica e con i boy per dilagare sul PO. . Oh a tal proposito, erano celebri tra i popoli confinanti come bruti e guerrafondai, e tale nomea giunse anche a Roma, dal momento che tali li considera anche polibio. Erano in realtà, come molti decise alpini giunti con le grandi migrazioni, comunità rurali che nelle loro terre natali del nord avrebbero trascorso una quieta storia di agricoltori e mandriani. Se solo l'esplosione demografica del primo millennio a.C non li avesse costretti. Quando il comune tribù si schierano a fianco dei punici in opposizione a quella e vendite. La loro sorte fu la medesima di tutti quei cisalpini che seguirono Annibale fino alla sconfitta, inizialmente assoggettati al potere centrale di Roma. Come è stato tributario? Furono infine fagocitati nella Repubblica in rapida espansione, all'alba del secondo secolo, avanti.
Linguni. Simile a quella dei fenomeni e la sto ria dei singoli, anch'essi a seguito di eliotropio e anch'essi premuti su dai camuni ben più dei fenomeni, tanto che il loro territorio si ritrovò a essere inglobato nelle regioni del villano. Comunque, alla fine delle peregrinazioni si considerarono per breve tempo con i vicini xenon, per poi separarsene e ritirarsi nella ristretta regione del Delta del grande fiume. Tuttavia i Poveretti non ebbero mai la fortuna delle altre tribù e non si procurarono mai in territorio dai confini precisi, infatti si stabilirono in modo parzialmente sedentario. All'interno dei domini altrui, ad esempio, alcune comunità venetico ed etrusche li accolsero a spina e ad Adria. Per quanto riguarda la loro fine, non è chiara, in quanto l'identità etnica di tale popolo sembra sbiadire col tempo, man mano che i vari gruppi si integravano nelle comunità che li ospitavano. L'ipotesi più accreditata è che alla fine si fusero con i villanoviani, andando a formare il ramo padano delle genti etrusche, in una commistione di costumi celtici e i tattici. Civiltà che hanno popolato il Centro Nord Italia, passo la parola ad Angelo Conte di. I Galli boy furono una delle tante popolazioni celtiche della Gallia, che ha preso occasionalmente migravano e si spostavano in areali che andavano grossomodo dall'odierna Francia fino alle rive del Danubio, in Pannonia o persino old. 
CULTURA ISTRUZIONE (4-5 )
M: E poi, a proposito del patrimonio, n'emm minga dii assee de quell che gh'è in di noster ges, che è della più grande importanza e che tanti milanesi non si rendono forse neppure conto di avere, come del resto accade in tutta Italia, che di straordinaria ricchezza millenaria è piena. Ma qui si può introdurre un nuovo aspetto della milanesità e vale la pena di spendere qualche parola sul rapporto dei milanesi con la religione.
C: Ma prima de parlà de religion, se pò minga lassà foeura de la cultura l'istruzion, che peraltro con la religione non è mai andata tanto d'accordo. E a Milano ne sappiamo qualcosa se fino a 100 anni fa non c'è mai stata un'università.
M: È vero! La prima è stata il Politecnico, verso la fine dell'Ottocento, e poi la Bocconi ai primi del Novecento, che sono poi sono più significativa espressione della cultura milanese di oggi, le scienze la prima, l'economia e la finanza la seconda, e tuttora sono il fiore all'occhiello dell'istruzione universitaria meneghina. Poi negli anni Venti sono arrivate la Cattolica e la Statale, che man mano hanno introdotto numerose altre facoltà, dalla medicina, all'umanistica, alle scienze politiche... Incoeu, ghe n'è anca de quei pussee specialistich, dedicate alle nuove realtà come la moda, il design, la pubblicità giusto per fare qualche esempio. Senza dimenticare il Conservatorio e l'Accademia di Brera, i cui diplomi valgono come una laurea.
C: Voraria nò che passassom per una città di cervelloni... ma indubbiamente andare in giro per il mondo coi diplomi di queste scuole è un merito per chi li ha conseguiti ma è motivo di vanto anche per la nostra città che ha saputo attrarre tanti studenti... e incoeu hinn tanti quei che vegnen de foeura, anca de l'ester, per studiare proprio a Milano. Problemi degli alloggi permettendo (ma quella dei costi è un'altra questione). Puttost, s'te me diset a proposit di alter scoll, dalle elementari alle superiori?
M: Lassom prima di dei costi dell'istruzione, che, a certi livelli, sono sempre più elevati, e qui si innesta la solita, spinosa questione istruzione pubblica-istruzione privata, cioè di quanto e come debba intervenire lo Stato per consentire a tutti di studiare, indipendentemente dalle condizioni eco- nomiche. Quanto ai alter scoll, fina a cent'ann fa gh'era l'obbligh domà di frequentare solo le elementari, poi si è portato l'obbligo a 16 anni. Ma la scuola italiana continuava, purtroppo, ad essere molto, troppo classista, cioè riservada a quei che se la podeven permett. Infatti, già dopo la Quinta elementare si creava una distinzione netta tra chi pensava di proseguire gli studi, alle medie e poi al liceo, e chi invece el cercava, per voeuia o necessità, di entrare quanto prima nel mondo del lavoro, passando dalle scuole professionali e poi dagli istituti tecnici, che, però, non consentivano l'accesso alle università.
C: Incoeu, per fortuna, tusscoss l'è avert a tucc, ma è rimasta una certa forma di differenziazione tra scuole pubbliche e scuole private, dove, chi se lo può permettere, cerca di mandare i propri figli pensando che siano migliori. E a Milano ce ne sono molte.
L'ANTICA PIAZZA DEL MERCATO di Varese (2-3 )
Era quella l'epoca gloriosa del  Trio Salvadori , tre bellissime ragazze in costume da ginnasta che eseguivano difficili e acrobatici esercizi, avvalendosi di una rete metallica, quale trampolino di lancio. Trionfava anche il clown Francesco Fornasari che, oltre ai suoi numeri di divertente comicità, con gli occhi bendati, eseguiva alla perfezione il saldo in piedi sul cavallo con la piroetta, uno tra i più difficili numeri dell'alta equitazione. Verso la fine dello spettacolo lo stesso Fornasari, con una serie di campanelli agganciati ai polsi delle mani, intonava famose musiche, tra le quali il  Valzer dei pattinatori , chiudendo con alcuni scherzosi stornelli popolari dedicati alla cittadinanza, tra gli applausi generali del pubblico.
Al termine della Fiera le carovane sparivano d'incanto, lasciando la piazza anche di notte, creando nei ragazzi un malinconico ricordo che durava pochi giorni, ben sapendo che il parco dei divertimenti sarebbe ritornato in autunno, sia pure in formato ridotto.
E fu proprio nella Fiera autunnale del 1927 che il circo Spinetto si portò via Margherita, una giovane e attraente ragazza di Giubiano, entrata nei sogni della nostra giovanile età, ma più che mai attratta dalla nomade e avventurosa vita del circo equestre.
Liberata dagli impianti di divertimento la piazza del Mercato riprendeva il suo normale aspetto, quale punto d'incontro commerciale nei giorni di mercato, mentre in alcune ore pomeridiane era assediata da gruppi di giovani che si divertivano al gioco del pallone. E diversi furono i varesini che, dal-a piazza del Mercato, fecero la loro apparizione nella massima squadra calcistica cittadina sul campo delle Bettole, senza l'ausilio di scuole e isitruttori, come si verifica oggi nel dorato mondo calcistico italiano.
Un'altra occasione di svago nella piazza del Mercato è stata l'apertura del  Sempioncino , una sala da ballo al piano rialzato nello stabile confinante con il Caffè Firenze in zona centrale della città
Luogo preferito delle brigate giovanili che affluivano dai vicini paesi e anche per le giovani domestiche che, nei pomeriggi domenicali, dopo una settimana di fatiche andavano alla ricerca di un meritato divertimento con i loro fidanzatini, lontane dalle padrone isteriche, dove erano sottoposte a imperiosi ordini e continui rimproveri.
L'atmosfera pomeridiana era pertanto carica di giovanile entusiasmo e al suono di una scelta orchestrina, le giovani coppie, amorosamente avvinghiate, turbinavano in travolgenti balli di quell'epoca: dal valzer alla polka, dal charleston alla rumba, sino ad imitare Rodolfo Valentino in ben studiati passi di tango, mentre qualche ballerino dei più audaci sussurrava ardenti parole d'amore alla compagna.
In orario serale dei giorni festivi la sala assumeva un aspetto più mondano, essendo frequentata da coppie cittadine e della periferia che concepivano il ballo come il seguito di una giornata sportiva.
Tra l'elemento femminile delle serate danzanti si distingueva una  monella  della Motta, loquace, sempre sorridente e disponibile, che al termine delle danza era sua abitudine rimorchiare un amico che le facesse compagnia nell'oscurità della piazza, vicino a qualche albero, dove un accorto guardone poteva assistere a curiose scenette, ricche di bisbigli, di carezze e baci che terminavano con misteriose manovrine, da non confondere con quelle governative, oggi assai di moda.
La ragazza, pur avendo superato abbondantemente i vent'anni, era una specie di diavolessa, belloccia, ma non troppo; svelta come una lepre, dalle abitudini mascoline, sempre circondata da ragazzi e ragazzine più giovani, come se fosse una maestrina tra le scolaresche.
Sul suo conto era nata una storia quasi boccacesca, ma certamente veritiera perché ella stessa si divertiva a raccontarla. In una serata nebulosa e fredda di un Giovedì grasso, mentre camminava solitaria nelle vicinanze della Caserma Garibaldi, udì qualcuno che fischiava dolcemente, chiamandola dalla finestra, con tutte le squisite grazie di un uomo innamorato.
Era un caporale del presidio, forse già conosciuto dalla ragazza, che la invitava a salire per trascorrre una serata in lieta compagnia. Ma poiché la porta d'ingresso era vigilata dalla sentinella, le suggeriva di entrare dalla stessa finestra.
Per la giovane, infreddolita e alla ricerca di qualche svago, fu come una manna: - Ma come faccio a salire? - gli disse, trepidante.
Allora il caporale le fece scivolalre una scala a corda, dicendole sottovoce: - Sali in fretta, non avere paura, tieniti salda! -
La nostra amica non se lo fece ripetere due volte e afferrando la fune a due mani, si arrampicò, svelta come una scimmia, mentre il suo galante complice, aiutato da un altro commilitone, teneva saldamente l'improvvisata scala.
Mentre stava per raggiungere il davanzale della finestra un suono improvviso di tromba la fece trasalire e con mano agile, evidentemente spaventata, scese abilmente dalla corda e non appena a terra si precipitò a gambe levate verso la via di casa.
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21 Aprile 2024 - domenica - sett. 16⁄112
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Chiese Sconsacrate - San Michele ai Nuovi Sepolcri
Le grandi città sono sempre state ricche di edifici adibiti a luoghi di culto. Ogni chiesa aveva una sua identità, alcune esprimevano il prestigio di famiglie influenti, altre identificavano diversi ordini religiosi, ciascuna, però, lasciava un suo messaggio. Col passare del tempo, a seguito di eventi storici rilevanti, alcune di esse subirono trasformazioni tali da perdere la loro sacralità. Così, splendide opere architettoniche furono destinate a luoghi di aggregazione, spazi polifunzionali, sedi di eventi culturali …..San Michele ai Nuovi Sepolcri - Milano - Viale Regina Margherita
Comunemente chiamata “La Rotonda della Besana”. Oggi costeggia Viale Regina Margherita nella cerchia dei Bastioni Spagnoli nel tratto che da Porta Vittoria si snoda verso Porta Romana.
Nasce nel 1695 come “Foppone”, ovvero cimitero per i morti della Ca’ Granda (Ospedale Maggiore) in un terreno situato sotto le mura del Bastioni. Sotto la pavimentazione del portico che circonda la chiesa sono dislocate ancora un imprecisato numero di cripte molto profonde. Si tratta di loculi nei quali furono radunate e poi murate le salme. Nel 1713 Attilio Arrigoni progettò la chiesa centrale, dedicata appunto a San Michele, oggi sconsacrata. La chiesa ha la forma di una croce greca, con bracci di misura uguale. All'incrocio dei bracci si eleva la cupola ottagonale, coronata dalla lanterna slanciata. Ai termini di ciascun braccio vi sono quattro facciate identiche. Più elaborato e scenografico è invece l'interno, a tre navate. La copertura a capriate lignee è sorretta da pilastri in pietra, scanalati, a base ottagona. I capitelli, di ordine ionico, sono decorati con raffigurazioni di teschi e ossa, allusive alla destinazione del complesso e tipiche dell'iconografia barocca.
Tutto intorno, separato da un prato, vi è un portico di forma circolare definito da otto segmenti di cerchio costruito da un colonnato aperto verso l’interno e da un muro di mattoni a vista aperto verso l’esterno da finestroni. Nel 1808 il Vicerè d’Italia Eugenio di Beauharnais voleva destinare questo luogo a Pantheon del Regno, dove dare sepoltura agli uomini illustri d’Italia. A seguito della caduta di Napoleone il progetto non venne mai concretizzato. Il complesso, di proprietà comunale dal 1958, è usato come spazio verde pubblico e come spazio espositivo per mostre temporanee, proiezioni ed eventi culturali.
La rotonda di San Michele “ai nuovi sepolcri”
Quando l’Ospedale non fu più in grado di reperire all’interno ulteriori spazi di sepoltura (e considerando che la situazione igienico sanitaria era divenuta comunque intollerabile a causa del fetore di decomposizione dei morti ivi inumati) si optò per la costruzione di un apposito e distante sepolcreto finalizzato ai soli cadaveri della Ca’ Granda, stabilendo contestualmente la proibizione di effetturare ulteriori sepolture interne.
La zona per il camposanto fu scelta il più vicino possibile al nosocomio, pur restando dallo stesso e dalle abitazioni della zona adeguatamente separato. Per raggiungerlo, fu costruito il ponte detto dell’Ospedale, che scavalcava il naviglio interno (oggi via Francesco Sforza) e quindi predisposto un rettifilo (oggi via San Barnaba e via Besana) che conducesse celermente alla località prescelta.
I lavori per il cimitero, che prese il nome di Nuovi Sepolcri (ma comunemente detto dai milanesi “Foppone dell’ospedale”), iniziarono nel 1695 e, procedendo celermente, consegnarono alla città un razionale camposanto che venne utilizzato a partire dei primi mesi del 1700.
Nel 1713 Attilio Arrigoni progettò la chiesa centrale, dedicata appunto a San Michele, mentre per aversi l’attuale recinto porticato si dovette attendere il 1725.
La Rotonda, oggi detta di via Besana, funzionò per circa 82 anni, accogliendo all’anno una media di 1500 morti, per un totale approssimativo di ben 126.000 sepolture.
Nel 1809 Eugenio di Beauharnais volle trasformare la Rotonda in pantheon del Regno d’Italia (la cui capitale era appunto Milano) e incaricò il Cagnola di studiarne le dovute trasformazioni. Il progetto tuttavia naufragò, e ben presto lo spazio dell’ex cimitero finì con ’ospitare gli ammalati contagiosi, e ciò fino a quando venne aperta la moderna struttura sanitaria del Derganino, nel 1896.
CULTURA ISTRUZIONE (5-5 )
M: E i pussee sciori vann anca foeura de l'Italia per cercare le scuole più rinomate e prestigiose, soprattutto dove si dove si parla inglese. Ma ci tengo a dire che la scuola pubblica, qui a Milano, almeno fino agli anni Sessanta⁄Settanta, è stata di primissimo livello, tanto che mi sento di affermare che la struttura portante della Milano del boom economico era fatta da diplomati degli istituti tecnici e professionali, che la loro "università" la facevano poi sul campo, col lavoro da impiegati, dirigenti, imprenditori. E mentre questi se tiraven su i manegh, i loro coetanei più fortunati, che potevano frequentare l'università, andavano in giro a protestare inneggiando, occupando facoltà, spaccando vetrine e gridando che per i padroni ed i borghesi c'erano... pochi mesi. Propi l'incontrari del spirit milanes, faa de libertà e iniziativa.
C: Te me paret on po tropp polemich, anche se, tutto sommato, la penso come te, visto che anche noi due eravamo dalla parte de quei che tiraven el carrett e vedevamo l'università come un mondo lontano e precluso. Ma bisogna anche riconoscere che uno stimolo all'emancipazione non solo degli studenti, ma dei giovani in generale, dei lavoratori e delle donne i movimenti del '68 lo hanno pur dato.
M: Guarda che l'emancipazione la gh'è stada in tutt el mond, probabilmente perché i tempi erano ormai maturi, senza le follie degli "anni di piombo", che gh'hinn staa domà chi in de nun. E, purtroppo, Milano si è distinta anche in questo. Ma rimango convinto del fatto che la milanesità migliore l'abbiano diffusa quelli che tiraven el carrett, come dici tu, e non quelli che scendevano in piazza con le bandiere rosse, se non di peggio... Piuttosto, si può riconoscere che quei movimenti abbiano aiutato gli italiani a vegnì foeura da una certa arretratezza, che però, a mio parere, più che ai "padroni e borghesi" era storicamente dovuta alla presenza della Chiesa, da noi particolarmente... diciamo asfissiante, anche perché i nostri governi sono stati sempre più o meno condizionati dal Vaticano, che non si è mai rassegnato alla perdita del suo potere temporale che esercitava soprattutto qui, in Italia. Adesso sì, cara la mia Cecca, che, come suggerivi, possiamo parlare della religione dei milanesi.
Quando congelare polli e pesci era vietato dalle grida
A desso le cose vanno diversamente. I tempi sono cambiati e non accade più che un ordine, una disposizione, un decreto dell'autorità costituita vengano ignorati. Un esempio recente: le targhe alterne. Le cose comunque, almeno in tema di ordinanze non rispettate, andavano certamente peggio all'epoca della dominazione spagnola, che a Milano è durata dal 1535 al 1706. Dominazione spagnola: due parole che volgarmente, a dispetto della verità storica, hanno assunto e tramandato un significato negativo: malgoverno, amministrazione quanto meno disordinata. C'è un pizzico di vero, ma molto da correggere. Restando in argomento, testimoni di quei 170 anni travagliati sono le grida». Annunciavano i provvedimenti legislativi emanati dal governatore inviato da Madrid, talvolta anche dal sindaco, che allora si chiamava Vicario di provvisione. Venivano sparate a getto continuo: ogni nuovo governatore (sono stati 43) si vedeva costretto a rispolverare le ordinanze del collega che lo aveva preceduto, cambiando qualche virgola ma non la sostanza del testo, e nuove ne aggiungeva. Nella speranza, negata dai fatti, che ottenessero finalmente rispetto. Erano leggi, in molti casi, fatte per non essere osservate.
Erano soprattutto la dimostrazione dell'impotenza delle autorità di fronte al dilagare della delinquenza. Sentite questa, datata 27 settembre 1583 e firmata dal governatore don Carlo d'Aragona, principe di Castelvetrano, duca di Terranova: ordinava "a tutte le terre ed uomini, generalmente e particolarmente, nelle occorrenze si levino in aiuto e favore degli ufficiali della giustizia; diano campana a martello; serrino le porte e corrino le strade e ai passi della campagna e facciano ogni sforzo possibile acciò i bravi, vagabondi, malviventi tutti non possano sfuggire il castigo che meritano". Le grida» si preoccupavano di regolamentare anche le più banali attività della vita quotidiana. Una arrivò a proibire di "tener pesci, pollastri, anitre nel ghiaccio, acciò non perdano la bontà loro". Quest'altra vietava di "accattar lumache al tempo che son discoverte", mentre ai ciabattini s'imponeva che "non possano alle scarpe fruste mettere che la suola e il calcagno nuovi". Però si permetteva "a chiunque non abbia casa piantata in città d'andar à bere e a mangiare nelle osterie e nelle bettole a suo agio".
Le sanzioni minacciate agli inadempienti erano, in molti casi, tremende. Per chi introduceva clandestinamente libri dannati dal Sant'Ufficio c'era la pena di morte, ad arbitrio del governatore. Stessa sorte per i responsabili di "motteggi, satire, pasquinate, libelli famosi, affissioni di corna, di cerchi e simili". Contro "chi fa ai pugni o ai sassi o nuota in un'acqua entro il circuito delle mura" era comminata una pena blanda: la "frusta se fanciulli e tre tratti di corda se adulti". L'equivalente, al giorno d'oggi, di una multa per sosta vietata.
E tucc 'sti ballabiott vosaven fort: "'Na ròbba la vaa no, l'altra ne men, voltà ch'el canton là te seet in tort, fà el bagn 'n del Navili no va ben".
Nanca mett in del giazz pess e pollaster per via, diseven, che perden el savor. Ma 'sti spagnoeu che loeuggia d'on disaster, piantaa 'n del goeubb per secol de dolor.
 
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La lista degli argomenti della settimana 14
  1. cap. 3 - il castello o rocca e il fosso (1⁄2)
  2. cap. 3 - il castello o rocca e il fosso (2⁄2)
  3. chiese sconsacrate - san michele ai nuovi sepolcri
  4. cultura istruzione (3-5 )
  5. cultura istruzione (4-5 )
  6. cultura istruzione (5-5 )
  7. dal 1945 al 1960 (10⁄13)
  8. dati di concessione. (3- )
  9. dati di concessione. (4- )
  10. i cognomi più diffusi
  11. i galli cisalpini (3-5 )
  12. i galli cisalpini (4-5 )
  13. in piazza vetra il boia era di casa
  14. l'antica piazza del mercato di varese (2-3 )
  15. la rotonda di san michele “ai nuovi sepolcri”
  16. la viuleta, la va, la va
  17. lombardia, terra di laghi e di storia. oggi vi racconterò 2 leggende della lombardia.
  18. non fiori ma opere di bene
  19. pigota e caàl da sconca
  20. quando congelare polli e pesci era vietato dalle grida
 
Sommario
Le dirette
Pensiero della settimana