RVG settimana 12
 
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Settimana-12 del 2024
 
 
RVG-12 - da  - Radio-Fornace
 
Settimana 12       2024-03-18 -  Marzo - Calendario - la settimana
18/03 - 12-078 - Lunedi
19/03 - 12-079 - Martedi
20/03 - 12-080 - Mercoledi
21/03 - 12-081 - Giovedi
22/03 - 12-082 - Venerdi
23/03 - 12-083 - Sabato
24/03 - 12-084 - Domenica
 
18 Marzo 2024 - lunedi - sett. 12/078
redigio.it/rvg101/rvg-12-078.mp3 - Te la racconto io la giornata
Notizie dal Villaggio
Cosa ascoltare oggi
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Il lavoro dei milanesi (4/4)
M: È la dimostrazione che a Milano c'è un concetto del lavoro che ci viene ampiamente riconosciuto, e credo anche che ce l'abbiamo (o, almeno, ce l'avevamo) addosso fin da piccoli. A questo proposito mi viene in mente quel commerciante di giocattoli che anni fa mi ha raccontato che, a Natale, i giocattoli più richiesti dai fioeu de Lombardia eren quei che somigliaven giamò on po al lavorà: il traforo, il meccano, la costruzioni; e per le bambine le bambole da vestire e le piccole botteghe da gestire.
C: Incoeu, anca per giugà bisogna savè l'ingles! Mas'c e fem min ghhann in man domà lo smartphone e con quello ci giocano tutto il tempo, quando non si divertono con la PlayStation davanti al televisore... D'altra part, hinn fioeu e se pò minga pretend che pensino a lavori che, fra l'altro, non vedono più fare nella loro città, dove tutto sta cambiando molto in fretta.
M: La Milan del 2000 le ormai passada da città industriale a città multifunzionale. La borghesia privata è stata in gran parte sostituita dalla finanza e da un settore terziario talvolta aggressivo, figlio della cosiddetta globalizzazione, basato su fiere, aeroporti, hub, affari, condotti spesso da una nuova classe dirigente molto politicizzata, cosa peraltro estranea al DNA milanese.
C: E se sa 'me l'è andada, da Tangentopoli in poi... Ma lassom dì ona robba che la me sta chi e che è proprio tipica dei tanti luoghi di lavoro milanesi dove ci sono un capo, quasi sempre maschio, e dei subalterni, maschi e femmine. Ebbene, quando il capo si rivolge ad un maschio lo chiama sempre per cognome, il sig. Rossi, o anche solo il Rossi; se invece è una femmina, il cognome praticamente non esiste, c'è solo il nome, la Teresa, la Luisa, e spesso le dà pure del tu. È un comportamento che ora è un po' meno diffuso (e, almeno, alle donne il capo non si permette più di dare anche qualche pacca sul sedere, sapendo di rischiare una denuncia...), ma l'è on brutt vizi, anche se, purtroppo, fa tanto milanese.
M: Dai... te parlet del capo offizi d'ona volta! Oggi, sul posto di lavoro, bisogna stare attenti a come si parla, se no te cascien via. Comunque, la prima cosa che è cambiata a Milano è proprio il lavoro, che comunque rispecchia le realtà e il ruolo storico della città, dalla fabbriche e botteghe artigiane, che erano le prime scuole di vita, alla capitale della finanza, editoria, moda, del design, e i giovani che oggi vogliono emergere sanno bene dove muoversi, anche se sono forse troppi quei che gh'hann minga ben ciar in ment s'el voeur di lavorà, vale a dire procurarsi redditi o risorse attraverso ciò che fanno di concreto.
C: Lè vera, ma 'sto problema l'è puttost de vialter masc che femminil, perché vedo sempre più donne, giovani e meno giovani, che sanno farsi valere a tutti i livelli, dalle hostess delle numerose manifestazioni alle dirigenti di aziende, fino alle nuove attività nate appunto con Internet e i cellulari.
M: Probabilmente hai ragione... Vorrà dire che bisognerà pensare ai capi famiglia sempre più al femminile... Comunque, i giovani milanesi sann ben come spendei i danee, anche se, magari, non hanno ancora bene imparato come si fa a guadagnarseli. D'altra parte, l'immagine che se portom adree l'è minga de gent che pensa solo a lavorare e fare quattrini, ma anche di gente a cui piace godersela. E poi il lavoro el gh'ha minga de vess domà on obbligh, ma un valore. E Milano è senz'altro una città per lavorare, ma anche per realizzare i propri sogni.
ATTO DI COMPRA-VENDITA
: Di uno stabile in Corte detta Frà, piazza Beata Giuliana a Verghera, frazione di Samarate.
Atto Dottor Antonio Pizzamiglio notaio di Gallarate telef. 303. - n. 9889 di repertorio 11novembre 1922.
Stabile composto da: 4 locali di abitazione al pianterreno coi relativi superiori, 2 rustici in cortile: 1 stalla, 1 portico coi relativi superiori area seminativa mq 442 (il giardino) 2 latrine con cisterna 2 letamai in cortile il tutto a £ 3.000 (tremila)
Conservatoria delle ipoteche di Milano: esatte tasse: £ 1,50 - emolumenti: £ 1,25
carte bollate £ 2 - Provincia di Torino - Registro Gallarate 1/12/1922 . 1249 vol 100 - esatte £ 418,60
TRAVEDONA-MONATE -
10) Brügher: ampia area verdeggiante a nord ovest del comune di Monate
11) Bun Gesü: cascina "Buon Gesù" poco a sud del Munt sulla strada che porta da Travedona a Comabbio. Nei primi anni del Novecento era luogo di passaggio e preghiera per le numerose donne di Travedona che a piedi tutti i giorni andavano a lavorare al cotonificio di Varano.
12) Camp d're Val: "campo della valle". Piccola area pianeggiante a ridosso del Lago di Monate, poco distante dal Port Vech.
13) Campelaz: attestato anche come Campelasc o Campasc, toponimo frequentissimo. Nel comune di Travedona designa due luoghi distinti. Uno a nord del paese limitrofo al Murin dü Val. L'altro a sud dal centro del paese ad ovest della strada del Tajagrande. Come spesso accade il nome designa un campo non del tutto adatto alla coltivazione.
14) Canööv: area piana che si estende a nord del paese di Travedona in un'area un tempo boschiva contornata dal Bosch, dal Bosch Gros e dal Salvascéte. Il nome potrebbe essere letto come un composto di Ca' "campi" e növ "nuovo". Appunto perchè sorti in un'area boschiva forse sono stati uno degli ultimi campi adibiti alla coltivazione.
15) Cantùn dür Nöc: "Cantone della Notte". È il nome attribuito ad una piccola zona in centro al paese che porta alla Chiesa cittadina, definita così perché un tempo poco illuminata e quindi non particolarmente sicura per gli abitanti.
16) Carolina: cascina meglio nota agli abitanti di Monate come Fighiröre. Grande cascina ancora oggi presente che si poggia su un terreno pianeggiante tra le località Pasquee e Prd di pom a nord-est del centro del paese di Monate. Nel nome dialettale si può leggere una derivazione dall'albero del fico
17) Carreggi del Bosco: strada utilizzata fino all'Ottocento per raggiungere il Selvèt dal centro del paese. In dialetto strada denominata Caregh. Il nome infatti richiama la caratteristica della strada di essere percorsa dai carri. È un termine generico che era probabilmente riferito a più zone del paese ma che poi è sopravvissuto solo in quest'area.
A sbafo - (29-30 dicembre 1892)
Nel pomeriggio di ieri il marmista Pacciarini Alessandro, un giovanotto di 24 anni, entrò nell'osteria di via Terraggio 1, e desinò. Quando fu poi il momento di pagare il conto dichiarò all'ostessa Margherita Tramazzani che non aveva in tasca il becco di un quattrino, e prendessero pure le misure che credevano. Si andò ad avvertire la vicina sezione di Questura e il Pacciarini venne arrestato.
Esproprio proletario - (17-18 febbraio 1895)
leri il pittore Luigi Ottolini, abitante in via Moscova, n. 50, entrava nei magazzini Bocconi e, chiesto un abito completo, ne scelse uno al prezzo di L. 66, ed indossatolo, fece per partire. Chiestone dal commesso il pagamento, il giovane pittore rispose: Ma lei è matto, lo sa che più non si usa pagare quel che si compera? Adesso si fa così, si prende quanto occorre ove si trova e ciascuno se ne va pei fatti suoi. Il commesso comprese d'aver a che fare con un pazzo, lo raccomandò a due agenti di P. S. che lo condussero all'Ospedale Maggiore, facendolo ricoverare in sala Macchio.
 
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19 Marzo 2024 - martedi - sett. 12/079
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Notizie dal Villaggio
Cosa ascoltare oggi
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La storia di Busto e le sue relazioni - capitolo 7 (9/10)
Il tempio soffrì da questo scuotimento un danno inestimabile, perchè furono incendiate delle preziosis sime immagini, la fabbrica in moltissime parti fu danneggiata e sopratutto la lanterna o cupolino marmoreo, posto con grande maestria e bellezza sul fastigio del tempio, fu scosso e spezzato e cadde quasi completamente. Narro cose vere. La forza di quel fulmine fu tale che fece volare delle grossissime pietre e i frammenti delle colonne marmoree fin sopra l'altissima torre che abbiamo detto esser rimasta tra le sette antichissime del borgo e che sorge vicino alla chiesa.
Questo fatto avvenne proprio in quel tempo in cui i Calvinisti, suscitato un tumulto contro il re dei Francesi e altri cittadini che professavano la religione cattolica, li uccisero, e l'anno prima che i canonici della Scala, in Milano, mentre S. Carlo tentava di entrare nella loro chiesa per compiere il suo ufficio pastorale, gli chiusero le porte in faccia e, perduto ogni pudore, pubblicamente gli vietarono ogni sacra funzione quasi fosse un ribelle all'apostolica autorità. Un anno e cinque mesi prima Gerolamo Donato, chiamato dal popolo Farina, mentre S. Carlo coi suoi famigliari pregava, secondo il suo costume, nella Cappella Arcivescovile, gli sparò contro lo schioppo carico di un'unica palla più grande e di altre minori che sarebbero bastate, secondo il corso naturale delle cose, ad ucciderlo se per dono celeste non fosse stato a noi preservato. Da questo delitto del Farina il Papa Pio V. fu spinto ad abolire l'ordine degli Umiliati che si opponevano alla riforma, il che fece con bolla del 1570 (1).
d(1) È noto che S. Carlo, creato arcivescovo di Milano, attese alla riforma del clero secolare e regolare, che era caduto in pro- fonda corruzione. Fra gli ordini religiosi potentissimo era quello degli Umiliati che, esercitando l'arte della lana, aveva ammassate ingenti ricchezze ma aveva perduto ogni carattere religioso. S. Carlo si propose di richiamare l'Ordine all'osservanza della Regola primitiva. Di qui le ire e poi la trama per ucciderlo. I particolari del tentativo del Farina si trovano nei cronisti del tempo, uno dei quali dice: "Et havendo preso (il Farina) tra il legno et l'apertura della porta la mira nella schiena dell'illustrissimo Cardinale, che aveva la faccia verso l'altare, gli sparò l'archibugietto carico di una palla et di molti pernigoni che, come a Dio piacque, non l'offese niente, et la balla gli ammaccò un poco la carne, et li pernigoni senza offesa si sparsero per il rocchetto et per le vesti,,. Ricorda questo fatto una pittura nella Chiesa di S. Giovanni posta nella Cappella di S. Carlo, l'ultima delle cappelle di destra
In questo anno in tutta la Lombardia, ma specialmente nel territorio milanese, vi fu una carestia così grave che moltissimi corsero pericolo di morire di fame (2), e nell' inverno cadde tanta neve che nelle stesse campagne arrivò all'altezza . i quattro cubiti; e poichè per impedire la rovina delle case fu giocoforza gettarla dai tetti nelle vie pubbliche, queste ne rimasero così ingombre che per parecchi giorni non si poterono adoperare nè carri nè cavalli, non solo, ma per passare da strada a strada gli abitanti dovettero scavare gradini nella neve rappresa dal gelo e salirvi o aprirvi gallerie. Ma questo avvenne anche negli altri luoghi del Milanese.
(2) In questa carestia che infierì per tutto il milanese, rifulse la carità dell'Arcivescovo che fece distribuire ingenti elemosine e vesti e cibo agli indigenti, nutrendone, nei mesi che durò la fame, più di tremila ogni giorno.
Particolari a questo borgo furono invece i fatti che avvennero alcuni anni dopo (1).
(1) Fa meraviglia che il nostro Cronista non dica nulla della famosa peste scoppiata nel 1576 e detta appunto la peste di S. Carlo. Eppure essa devastò non solo Milano ma anche la Lombardia. Ma dal silenzio del nostro cronista si dovrebbe pensare che Busto allora ne sia stato immune, il che mi pare strano, dal momento che, per assoluta mancanza di norme igieniche, tutti i nostri paesi erano allora terreni assai propizi allo sviluppo di simili pestilenze.
E precisamente nel l'anno 1581 l'altissima torre campanaria della chiesa di S. Giovanni Battista fu di nuovo colpita dal fulmine così fortemente da averne smosse le colonne, e a ricordo del fatto ne fu scritta la data sopra l'epistilio della colonna che guarda a occidente. Due anni dopo fu fatta la traslazione della dignità Prepositurale da Olgiate Olona in questo borgo. Ma nell'anno stesso di questa traslazione avvenne una nuova calamità. Infatti, in seguito a due fortissime grandinate di cui l'una distrusse il frumento e le altre biade, l'altra i grani più minuti, anche la cupola minore della chiesa di S. Maria fu spezzata dal fulmine e caddero i suoi marmorei ornamenti.
TRAVEDONA-MONATE -
18) Casnegre: in dialetto Casniere. Piccola area che oggi è lambita dalla Provinciale in località Monate. Il toponimo è probabilmente da ricondurre alle voci dialettali casnè, casgnöla che nel mendrisiotto sono ricorrenti ed hanno come significato "castagneto ". E' probabilmente solo una paraetimologia il tentativo di spiegare il toponimo come "case nere", facendo riferimento ad alcune costruzioni abitative di scarsa qualità o fatiscenti.
19) Cave: zona a est del Tajagrande scavata sulle pendici dell'altura detta Mont. La cava è utilizzata da ormai due secoli per l'estrazione della mamma che un tempo ha rifornito Travedona e tutta l'area circostante. Oggi l'estrazione procede ancora e la marna rifonrisce il vicino cementificio nel comune di Comabbio.
20) Chiosetto: detta dai locali ciusèt. Diminutivo dal termine dialettale ciòos "chiuso", in riferimento a dei campi coltivati chiusi da siepi o da una zona recintata. A Travedona è presente anche una piccola frazione denominata il Ciós, poco a nord del centro del paese posta tra il Valun e il Pez. Inoltre la voce è largamente attestata in tutta l'area dialettale milanese
21) Crosa: in dialetto noto come Cröse. È una zona a nord del Peze che un tempo divideva i comuni di Travedona e Monate ora ammininistrativamente uniti. È probabilmente il luogo più alto delle due località ed è indicata anche come la zona in cui in periodo medioevale sorgeva il castello fortificato (v. Mercallo n. 5).
22) Cucù: letteralmente "cuculo". Ampia zona molto lontana ad est del paese che un tempo non era utilizzata per la coltivazione ed era poco frequentata. Per questo forse è stata attribuito il nome cucù che oltre ad indicare l'uccello indicava anche persone o luoghi poco sicuri o improduttivi. Proprio le stesse qualità attribuite al cuculo visto che era considerato una animale pigro e approfittatore poiché viveva e deponeva le uova nei nidi degli altri uccelli.
La cà di me vecc
Ott lucai: quatar sota, quatar sura, ul portigh in fond al curtil, la stàla neta me 'n specc e la casina sempar piena da fen. Rivedi il giarden cul pulè di galinn, i piòn, i anadritt senza us, i gràpul di fiùr di lilà un po' bianc, un po' culuràa da viola (che prufum ca sa sent ste ghe pàsi visen) e la topia du l'uga tuta piena d'umbria, tuta piena da pas. La cusina stragranda cul camen sempar pizz, la stua fugàa (quanta nev gha vegn giò) cun l'acqua che buìi e cui cerc sempar russ. La me mama setàa sota la lus un po' grisa che la vegn du la curt la cusiss la sutana, la rinforza i buton di calzon già da temp un po' slis! La prepara la scena, la cundiss l'insalata da patati e fasò. La specia i so fiò ul so omm ch'al ritarda - no, no, sent al vegn Giuanen te se ti' Te ritardi stasira, parchè? Semm setàa tucc insema tucc insema a discur, a parlà tra 'l rumur di curtej e furchett. E '1 Pilon che 'n giarden 'I fa 'n fracass da di nò, i galinn i cacàran sa lamentan i occh. Ciel serèn pien da stell cun la luna cha vaga senza nanca '1 ripos ul ripos d'un minutt. Sul divan, un po' stracc, mi ripensi a la vita uramai tutt'andàia i primm sogn da bagai, fantasii che mi vedi pasà in tucc i canton silenzius, in tutt i umbrii du la cà - Mama, mama asculta, somm mi cha ta ciami, ma par da sentì la to us. Somm chi in dul pulè in mezz ai occh e ai galinn. Vegn chi, patulot, ghe chi n'òo ammò tiepid part ti. Piscinina, in tutt du pian pituràa nuaset da for, e sul tecc i cupp rùman queta fresca e caezina la gha nient, al so 'nca mi, propi nient par ess special. Taul, cardegh, ul credenzen un buffè pesant da nus un divan senza do moll, quatar libar apena, apena, nanca 'n quadar da valur. Ma l'è stàia - sesant'ann fa- 'I me cantòn cun tanta lus, la me cà tuta duràa, la me arca piena da sogn.
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20 Marzo 2024 - mercoledi - sett. 12/080
redigio.it/rvg101/rvg-12-080.mp3 - Te la racconto io la giornata
Notizie dal Villaggio
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Cosa ascoltare oggi
redigio.it/dati2112/QGLH1106-mdonna-Veronca-2.mp3 - 9,27 - La Madonna della Veronca
redigio.it/dati2112/QGLH1196-storia-nordovest-10-2.mp3 - 5,06 -  Storia del nord-ovest diMilano
Inbiancà, sbiancà, o sbianchì
Scialbare di bianco: l'operazione era detta imbiancare anche se si usavano colori diversi dal bianco. Il colore più comune, sia per i muri esterni che interni di una casa era il bianco ottenuto dalla calcina o calce viva (perché fumava) con aggiunta di acqua. Altri colori usati erano il verdino, il celeste, il giallino, il nocciola. Colori tenui e tinte pastello per i locali interni. I gabinetti del cortile (chiamati càmar, cess, o latrina) sempre bianchi. Per gli esterni le tinte erano più marcate, a volte addirittura forti. Il sole dell'estate sbiadiva subito i colori aiutato dalla polvere delle strade sollevata dal passaggio dei carri e delle biciclette. Le pareti della cucina, del soggiorno, delle camere da letto erano ricoperte di fiori: fiorellini minuti e semplici per la cucina; più impegnativi, cioè più grandi e sgargianti per il tinello; se c'era la sala, i fiori sempre, le rose a grandezza naturale avevano alcuni petali fatti con l'oro che a toccarlo restava sulle mani o sui vestiti. I fiori raffigurati sulle pareti della camera da letto avevano sfumature e colori morbidi e conciliavano il sonno. Non si usavano, per le case modeste, le piastrelle di marmo, in nessun locale. In cucina e nella camera da letto il pavimento era formato di mattonelle di terracotta. Nella camera da letto le mattonelle venivano colorate con una vernice rosso fuoco. Tanti pavimenti erano fatti di assi larghi mezzo metro e lunghi tutta la lunghezza del locale. Dopo la guerra, gli esterni furono ricoperti di Teranòa (terra nuova), specie di intonaco già colorato che teneva la tinta molto più a lungo. Per gli interni si fece ricorso al ducotone (ora proibito perché cancerogeno) e alla tempera traspirante antimuffa. Ora si usa il plasticone.
I ESÈMPI
Ovvero le favole, le fiabe. Quelle che cominciano col fatidico c'era una volta. Niente missili, astronavi, ultraterrestri. Tutt'al più il manico di una scopa, che come il tappeto volante, gli stivali delle sette leghe o il cappello che rendeva invisibili, si trovavano nella maggior parte delle fiabe insieme all'orco che mangiava i cristiani (tuff tuff, al sa da cristianuff) e a Pollicino che era l'idolo degli ascoltatori più piccoli. Si contavano le esempie in qualsiasi momento della giornata: per propiziare il sonno dei più piccini, per invogliare noi ragazzi a dare una mano in un lavoro importante e urgente (sfuià 'I furmentòn) o quando l'acqua di un improvviso e violento temporale ci impediva di giocare all'aperto. La Rina Bartulina, abitante del mio cortile, era narratrice impareggiabile per la capacità che aveva di dosare gli effetti e di tenere sempre viva la curiosità degli ascoltatori.
Questa ma la cuntèa la me nona. Questa ul me pà l'à imparàa in Francia. Questa l'ho legiùa sul libar di esempi. Qual'è ch'ò da cuntà? Ogni ascoltatore voleva la sua, quella che preferiva e che non, si stancava mai di sentirsi ripetere. Scultèum cun la buca verta, sempre con la stessa impaziente attenzione. Mena i man, ci incitava la padrona. Laùra che te sculti stess. Era una favola, la nostra vita. La vita libera di cortile, il continuo vagabondare, scorazzare nell'acqua alta che il temporale "spingeva" nel mezzo della piazza, le palline di vetro e di terracotta, la rela, la gibulèa, rincorrere col fiato grosso ma immensamente felici, la palla fatta di stracci, non più grossa di un piccolo melone. Piccole cose, fanciullaggini? Come rimpiango che i bambini e i giovinetti non amino più, come noi una volta, le fole e le amabili follie delle "esempie". Che cuore costringere un bambino a impegnarsi davanti a un computer o a cominciare a cinque anni a frequentare le scuole: perché obbligarli a diventare "vecchi" un anno prima del tempo? Palloni, giocattoli, favole: questo è il pane quotidiano dei bambini. Il cuore non è un equazione di terzo grado, un dizionario di lingua straniera. I computer è meglio accantonarli e "tirarli fuori" il più tardi possibile. Favole e giocattoli. Come dice il poeta: amichetti, la vostra "festa" "s'anco tarda a venir, non vi sia grave!" Una olta, pusè da cent'ann fa, in un paès ...... Che paes? Ma rigordi pù 'I nom..... Una Olta, Donca ......
E la favola continua e continuerà finchè avrà vita l'umanità in barba ai decreti del ministro della pubblica istruzione e di quei genitori che vogliono fare dei loro figli ROBOT efficienti, tecnicamente preparati, per una brillante e redditizia carriera futura. Ahimè, in dùa la và a finì la fantasia, i sogn cui occ vert, la puesia cha l'e l'anima du la vita, e i ìsul dul tesor, e i paès di meravigli? Chi al gh'avrà vòia d'andà a fa 'n girett su la luna? o, più semplicemente, di sedere all'ombra di una robinia, sull'erba fresca e tenera dul busch dul frà e volare, volare, come dice la canzone, nel blu dipinto di blu.
Busto Arsizio - Gli inizi del borgo cap. 2 (1/4)
Le origini e i nomi dei fondatori dei luoghi sono nella maggior parte dei casi così avvolti nel mistero che anche gli storici più diligenti, scrivendo degli inizi di città anche grandissime, non poterono evitare nè le incertezze nè le contrarie versioni. E se questo avviene delle città maggiori, che cosa si potrebbe dire delle origini dei luoghi minori, che sebbene derivino il loro nome da qualche fondatore assai illustre, furono così coperti di dimenticanza che è difficilissimo poter dir di essi qualche cosa di certo?
Tuttavia accingendomi a dire di Busto Arsizio, io mi atterrò una via di mezzo, asserendo cose che dal lettore saranno approvate perchè esse o ci sono testimoniate dai documenti antichi o sono state ricavate dalla successione dei tempi e da sicurissime relazioni. Uno scrittore (1) in un libro scritto circa il 1490 asserisce che questo borgo fu nella giurisdizione dei Crespi i quali ebbero qui un grande castello. Egli infatti così scrive:
"Che anzi, fra le casate romane, o Crispo Sallustio, la casata Crispa, la tua, ancor resta, e rimane anche ora nella nostra città, come nella città di Roma. Ma da essa molti (ne rimangono) a Busto, dove quasi in aperta pianura teneva un grandissimo castello. Rimane ancora una torre tronca senza l'antica cuspide, accanto alla quale, non lontano, sorge una piccola chiesa dedicata alla Vergine, resto di una grande rovina (1).
(1) Alberto Bossi. Egli scrisse un poemetto latino in lode dei Bustesi, suoi concittadini.
Sebbene ciò che lo scrittore dice del castello sia vero, (e lo dimostreremo altrove) tuttavia non per questo si deve dire che Romani furono i fondatori del nostro borgo. Non sarebbe infatti giusto affermare con Diamante Marinoni e Bonaventura Castiglioni che Busto derivò il suo nome dal sepolcro degli uccisi Etruschi e nel contempo dire che fu fondato dai Romani, se è vero che Milano cadde in potere dei Romani, secondo Paolo Orosio ed Eutropio, sotto il consolato di M. Claudio Marcello e di Cornelio, cioè 376 anni dopo che gli Etruschi erano stati scacciati dalla regione Insubra dal celta Belloveso.
Raccontano infatti le storie che nell'anno 1100 prima dell' Incarnazione del verbo, i popoli della Tracia, sotto il comando del Re Ocno Bianoro discesero nel territorio milanese e vi posero le sedi. Giustino poi scrive che, essendo re Tarquinio Prisco, quinto dei re romani, cioè nell'anno 626 prima del parto della Vergine, Belloveso, nipote per parte di sorella a Ambigati re dei Celti, con 300.000 armati dalla Gallia, attraverso il passo Giulio, scese in Italia e s'avanzò fino nel territorio degli Insubri, e ivi si fermò con l'esercito tra il Ticino e l'Adda e poichè gli Etruschi opposero resistenza, li sconfisse e li trucidò.
(1) È vero che a Busto i Crespi sono e sono sempre stati numerosissimi tanto che, per distinguerne i diversi rami, si fece e si fa tuttora uso di soprannomi, ed è anche vero che il cognome Crespi è di pretta derivazione latina; ma è una congettura assai ardita quella del poeta che li vuol allacciare senz'altro al famoso storico romano. Così non si può credere vera, per mancanza di documenti, l'asserzione del poeta che questa famiglia avesse un castello. La torre di cui si parla e che veramente esiste, sebbene ricostruita, è da considerarsi piuttosto come una di quelle famose sette torri erette a difesa del borgo nel Medio Evo.
 
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21 Marzo 2024 - giovedi - sett. 12/081
redigio.it/rvg101/rvg-12-081.mp3 - Te la racconto io la giornata
Notizie dal Villaggio
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Cosa ascoltare oggi
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L'Italia prima di Roma, gli antichi popoli. (1/2)
La penisola italiana è un'area marginale e di sviluppo tardivo rispetto alle civiltà orientali della Mesopotamia e dell'Alto Egitto.
Il neolitico. Il passaggio all'agricoltura avviene attorno al settimo secolo a.C. Elaborazione dei metalli, il rame, il bronzo e poi il ferro solo dal secondo millennio a.C. L'utilizzo della scrittura addirittura è attestato grossomodo dal nono secolo a.C. Si tratta dunque di un sviluppo estremamente tardivo rispetto alle fiorenti civiltà. E orientali che non solo avevano conseguito uno sviluppo tecnologico e culturale più avanzato, ma soprattutto avevano. Generato con formazioni politiche unitarie, impensabili sul territorio della penisola italiana. Il territorio italiano, infatti formato soprattutto da montagne. Quindi con piccole pianure e spesso acquitrinose, favorisce la frammentazione politica. Distinguiamo sostanzialmente un'epoca preistorica in Italia, è un'epoca storica, epoca preistorica. Quando parliamo di epoca preistorica ci riferiamo grosso modo al secondo millennio a.C. All'inizio del primo millennio a.C quindi utilizzo della scrittura. La cultura più antica presente sulla penisola italiana è probabilmente quella dei camuni. Stanziatisi. In valcamonica, attualmente provincia di Brescia. Si tratta di una cultura locale con scarsi contatti con i territori vicini. Di questa cultura abbiamo un lascito assai importante di pitture rupestri ancora oggi visitabili in quella zona. La seconda cultura di cui ci occupiamo è quella delle cosiddette terre mare. Terra matricola.
Si tratta di una cultura che diciamo è attestabile fino grossomodo al dodicesimo secolo a.C. Che si è stanziata nell'area della Pianura padana. È caratterizzata da insediamenti su palafitte circondati da argini piccoli molto piccoli, insediamenti palafitticoli. Gli insediamenti, dunque, erano perlopiù dei piccoli villaggi poco numerosi e la struttura delle abitazioni su palafitte con argine, ci informano del fatto che molto probabilmente questa cultura ha dovuto avere a che fare con inondazioni frequenti o con situazioni particolarmente paludose. Un'altra cultura, sempre di epoca preistorica, della quale ci occupiamo, è quella appenninica, geograficamente piuttosto estesa, perché grossomodo va dalla Romagna alla Puglia, lungo tutta la dorsale appenninica. Ma si tratta di una cultura piuttosto retratta. È composta soprattutto da pastori che, allevando mandrie di bestiame, si spostano lungo la dorsale appenninica in base alla alle stagionalità e in base alla alle, alle risorse che il territorio offre. Un'altra cultura presente sempre in epoca preistorica e quella nuragica.
Chiamata così per le costruzioni, i nuraghi che caratterizzano i villaggi di queste di questa cultura è presente sull'isola della Sardegna. I nuraghi sono delle costruzioni a forma di tronco di cono in pietra e ebbero probabilmente un carattere sostanzialmente difensivo, cioè la popolazione di si rifugiava durante gli attacchi da parte dei nemici. La cultura invece più importante è sicuramente quella villanoviana. Cultura di Villanova che si sviluppa. In area centro settentrionale. Grossomodo tra l'Emilia e la Toscana. Si chiama cultura di Villanova, perché i primi resti archeologici furono ritrovati presso l'insediamento di Villanova, vicino a Bologna. E una cultura sicuramente più avanzata di quelle che finora abbiamo trattato e gli insediamenti di questa cultura villanoviana erano se non altro, molto numerosi, probabilmente composti da alcune centinaia di abitanti. È probabile che questi insediamenti fossero composti da gruppi familiari diversi, i quali quindi dovettero anche istituire, probabilmente delle antiche, arcaiche istituzioni politiche per andare d'accordo e per spartirsi la terra dalla cultura villanoviana poi. Sullo sviluppo della cultura villanoviana anche con apporti di migrazioni successive, avremo lo sviluppo della civiltà etrusca in area Toscana e Alto laziale. Ecco, in questo schema abbiamo. L'elenco delle culture di epoca preistorica. Hanno tra l'epoca preistorica e l'epoca storica.
La facciata del Duomo
La sua prima facciata il Duomo la ricevette in prestito. Doveva trattarsi di una soluzione provvisoria, durò invece poco meno di 300 anni. Questa facciata apparteneva a Santa Maria Maggiore, basilica che era stata consacrata nell'836 e che nel 1386, quando fu benedetta la prima pietra della nuova cattedrale, era ridotta in condizioni disastrose. Il Duomo la incorporò e, man mano procedevano i lavori, cominciati dall'abside, un poco per volta la demoli. Rimase in piedi soltanto la facciata, in marmi policromi bianchi e neri, perchè una fronte, sia pure posticcia e via rimaneggiata, rattoppata e spostata, al Duomo bisognava comunque assicurarla.
Venne abbattuta nel 1683. Come sostituirla? Il problema era stato posto e discusso da tempo: un primo progetto l'aveva firmato, già nel 1537, Vincenzo , architetto generale della Veneranda Fabbrica del Duomo, l'organismo appositamente creato per raccogliere e amministrare i fondi per la costruzione del tempio e provvedere alle molteplici necessità tecniche e operative. Poi, chiamato dall'arcivescovo Carlo Borromeo, nel 1570 era arrivato Pellegrino Tibaldi, detto il Pellegrini, il quale, in ossequio allo spirito della Controriforma, aveva disegnato un'architettura di impronta "romana", classicheggiante, in contrapposizione al "gotico" eretico, che per altro era lo stile che caratterizzava l'intera chiesa. Il disegno del Tibaldi era stato di conseguenza aspramente criticato e osteggiato, anche dalla stessa Fabbrica. Comunque, con le correzioni apportate al progetto da Francesco Maria Richini, nel secondo decennio del 1600 la costruzione della facciata aveva finalmente preso il via. Ma, trascorsi pochi anni, un malaugurato incidente aveva mandato tutto a rotoli. Il 28 aprile 1628, nelle acque del lago davanti a Baveno, affondava la chiatta che trasportava la prima grande colonna di granito destinata alla facciata. Bloccati i lavori, abbandonata la soluzione Pellegrini-Richini, anche per motivi di costi, e poi, per oltre un secolo e mezzo, una consolidata situazione di stallo, tra sterili , beghe di architetti e ingegneri, divisi su decine e decine di nuovi progetti.
Ed ecco entrare in scena Napoleone I. Nel 1805, dopo essersi fatto incoronare re d'Italia, con due decreti del maggio e del luglio dello stesso anno, aveva ordinato di completare la facciata secondo il progetto di Leopoldo Pollack, che era più economico (un milione e 700 lire il preventivo) rispetto a quello di Felice Soave (tre milioni). Per non farla troppo lunga: il progetto Pollack, rielaborato e semplificato da Carlo Amati e Giuseppe Zanoja, andò in porto tra il 1806 e il 1814. A spese della Veneranda Fabbrica che, in attesa degli stanziamenti statali, deliberati ma mai erogati, era stata a da Napoleone ad alienare il suo intero patrimonio immobiliare.
Mancavano le porte. L'ultima l'ha modellata nel bronzo Luciano Minguzzi, nel 1965. Una travagliata storia secolare. Non a caso, di fronte a un'impresa che non finisce mai, i milanesi dicono: "l'è come la Fabbrica del Domm".
Quand on colorista de mestee tintor l'era tobis per imbroccà on color el padron ben rustegh el ghe diseva a 'st'omm: "Ovej, Angioloeu, anmò te see andaa in Domm" L'era talment giusta 'sta trovada pensand del Domm la soa facciada. Per primm hann dovrà la veggia, quella de Santa Maria Maggior Oh gent, adess tiree l'oreggia: l'era provvisoria, question de or. Senza trovà on remedi a 'sti malann l'hann lassada lì per tresent ann. Poeu gh'è rivaa el Tibaldi el Pellegrin, ghe daa on colpett de gionta anca el Richin; ma 'na colonna, quella de portada, dent in del Lagh Maggior a l'è negada. Napoleon, anlù de la peatida, rampa el Pollack, e che la sia fenida. Porch d'on sciampin, manchen anmò i usc: l'ultim, 'n di nost temp, l'è del Minguzz.
(1) specialista nel dosaggio dei colori.
(2) incerto
(3) l'intera frase significa non la finisci più
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22 Marzo 2024 - venerdi - sett. 12/082
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La chiesa di San Giorgio a Corgeno.
Oggi è San Giorgio. E il nostro patrono? Giorgio è anche il patrono della mia parrocchia Latina. E questo Santo sappiamo poco, ci sono poche tracce storiche, però sappiamo che c'è tanta devozione perché questo è uno dei santi che ci piacciono di più.
È stato nella sua anche aurea leggendaria, capaci di sconfiggere attraverso il drago. Il famoso drago. Il male, il male che c'è. Che c'era nella Chiesa che c'è anche nella società che c'è, forse in ciascuno di noi. Dietro di me sullo sfondo vedete anche che stanno scorrendo delle immagini vecchie eh di qualche anno fa.
Sono le immagini del palio delle contrade del palio che accorgevano. Era nato per una precisa volontà della popolazione. I paesi allora si è unito per alcuni anni intorno alla parrocchia, è gravemente colpita nelle sue strutture da un fulmine proprio 45 anni fa. E qui mi fa pensare, Eh, mi fa pensare che.
Che cosa ha voluto dire? Stare insieme quegli anni per sentirsi Uniti alla parrocchia? Anzitutto perché ci sono delle ragioni per stare insieme.
Ecco, ci sono delle ragioni che valgono ancora oggi trovare ragioni per stare insieme appena si potrà certo, ben queste regole di restrizioni larghe erano. Però non solo fisicamente, ma con il cuore, con la passione, stare insieme con passione. La seconda cosa che mi viene da dirvi e vincere sul pessimismo.
Vincere sulla rassegnazione e su quel veleno che in ogni comunità e anche il pettegolezzo, ecco la terza cosa che mi viene da dire è lasciarsi coinvolgere, lasciarsi coinvolgere senza criticare chi si dà da fare. Imparare a mettersi a disposizione della Comunità.
Poi ancora la quarta cosa. A sognare in grande. È bello quando Papa Francesco te lo dice, gli anziani sognino siano capaci di sogni e anche i giovani raccolgano questi sogni degli anziani. Sono esperienze che rafforzano la Comunità. Io questo sogno grande c'ho prima o poi ve lo dirò, ma tutti dobbiamo avere un sogno grande. Per il futuro della nostra comunità cristiana.
C'è un Salmo, il Salmo 54, che dice così getta sul Signore il tuo affanno. Ed egli ti darà sostegno. Mai permetterà che il giusto vacilli. E questo è molto bello e come Dio manda i santi, questi giusti, che non hanno vacillato nelle prove. Così anche noi nelle prove siamo chiamati a sperimentare la nostra capacità di resistenza e anche la nostra volontà. Di essere tenaci. Non vacilliamo se getti sul signore la tua fatica, la tua ansia non cadi, lui ti darà sostegno. Così siate anche voi siete giusti, non temete il nostro sostegno e Dio, San Giorgio ci dice questo.
Così preghiamo col nostro patrono, perché stani e sopprima quel drago che noi si chiama depressione, paura, fuga, fuga da Dio. Da questo virus si può guarire, ma c'è un'altro virus, c'è il virus dell'egoismo ed è più pericoloso questo virus. E quando ciascuno pensa per sé. Quando lo sono più?
Non si hanno più motivi. Per cui uno magari ci perde, ma si dà da fare e si sa commuovere anche di fronte a qualcuno che sta peggio. Quindi, cari amici, cari fratelli. Carico, genesi, ecco ci diamo l'appuntamento a Dio piacendo in autunno, per onorare la nostra Madonna della cintura che è un nuovo inizio per tutti. Pregate. Pregate e noi preghiamo per voi.
A me non piace tanto essere troppo presente sui video, però ci tenevo proprio che la festa di San Giorgio non passasse cosi. Vi ringrazio, vi ringrazio di cuore e vi lascio ancora qualche minuto a vedere questo sogno che. Esattamente 45 anni fa, aveva risvegliato un piccolo paese intorno a una figura di un grande prete, Don Gianfranco, che è stato capace di spendere i suoi anni più belli proprio in mezzo a voi grazie.
Il Bottonuto (1-2)
Il due vicoletti seguivano il tracciato delle fortificazioni. La parola bottonuto deriverebbe da botti.
Percorrendo in successione le vie rovello, Santa Maria, segreta,  Armorari, Spadari e Speronari, il nostro cammino in linea retta si interrompe contro la grande mole dell'edificio, all'angolo tra le vie Mazzini e giardino. Qui, di fronte al bacello di San Satiro, cominciava la contrada dei tre re, poi diventata via tre alberghi che, passando per il Bottonuto, permetteva di raggiungere le contrade di pantano e di Chiaravalle.
Il bottonuto era un'antica posterla alto medievale che si apriva nelle mura romane, la cui torre è ancora riconoscibile nelle fotografie scattate prima della demolizione. I due piccoletti seguivano il tracciato delle fortificazioni. La parola bottonuto deriverebbe da bottino, ovvero imboccatura di una fogna, al ricordo della realizzazione di un'opera idraulica costruita intorno alla metà del primo secolo, d.C. Che prese il nome di un marciume.
Del prosciugamento del laghetto che occupava l'attuale via larga, che diventò un Brolo, cioè un'area verde. Nomi delle vie pantano e della scomparsa via post laghetto ricordano che l'area rimase spesso soggetta ad allagamenti. Il tracciato delle vie tra alberghi e molto nuto ricalcava quello del Decumano romano della Quintana, che negli accampamenti era la strada che percorreva l'esercito per entrare ed uscire. In occasione della peste del 1606, come in numerose zone della città, venne elevata al centro dello Slab del Bottonuto una croce dedicata a San Glicerio, un obelisco di granito rosso di baveno, per permettere ai fedeli di pregare non uscendo di casa per il pericolo del contagio. Nel 1872 l'obelisco privato della Croce.
Viene trasferito all'incrocio tra via Marina e via boschetti. Trovando dei tre re, poi via terra nervi e il bottonuto rimasero per anni uno degli assi viari commerciali più importanti di Milano. Qui aveva sede uno degli alberghi più antichi della città, l'albergo dei tre re, conosciuto già nel 1476, la cui insegna con i tre Re Magi, dipinta dal pittore Gottardo Scotti. Segna più antica conosciuta. A questo si aggiunse in albergo cappello, costruito dove si trovava l'antica locanda del cappello rosso all'angolo tra via tre alberghi e via Falcone, da dove questo fotografo riprese il sacello di San Satiro. Più avanti dall'altro lato della strada, vedi costruito l'albergo reale, di cui possiamo vedere in una foto il portale che dava su un'altro circolare e di un disegno di cortile interno. Di fronte nel 1822 si aggiunse l'albergo Europa che fu uno dei primi ad essere dotato di banchi.
Tra giacente Contrada del pesce che diverrà poi via Paolo da cannobio, si trovava invece l'albergo San Marco e nella vicina via Visconti, l'Hotel Suisse, di cui vediamo in questa incisione il cortile interno. Tutta la zona era vivacissima, con un traffico continuo di carrozze che portavano i viaggiatori da tutta la Lombardia. Non è semplice. Giorni nostri orientarci per capire dove fossero queste antiche strade, perché l'unica via sopravvissuta ma completamente trasformata e la Paolo da Cannobio. La di una piantina ci aiuterà ad orientarci in questo dedalo di viuzze, il vero cuore perduto della città di Milano. Dopo l'unità d'Italia la zona del Bottonuto divento sempre più marginale e grandi alberghi in preferirono trasferirsi in corso Vittorio Emanuele.
Il quartiere era interessato ad uno dei più devastanti progetti che avrebbe stravolto il volto della città, la cosiddetta racchetta voluta dal piano regolatore del 1927, una nuova arteria destinata a collegare la rinnovata piazza San Babila. Con piazza Missori e Via Vincenzo Monti fino a piazzale cadorna per ricongiungersi con un grande rettifilo per la nuova stazione centrale. La zona del bottone. si sarebbe trova. Sono portiere di alto scorrimento e piazza Duomo.
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23 Marzo 2024 - sabato - sett. 12/083
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La storia di Busto e le sue relazioni - capitolo 7 (10/10)
Appena un anno dopo, quando S. Carlo passò da questa vita per salire al Cielo, nell'anno 1588, un morbo mortale invase il borgo e in una sola estate morirono circa 800 persone e nel medesimo tempo la chiesa di S. Giovanni rimase priva del Prevosto, dei due curati e del sacrista. (2)
(2) È questo il morbo che il Ferrario o. c. chiama petecchiale. Esso sarebbe scoppiato nel 1586 a Gallarate dove fu mandato per curarlo, il medico Andrea Trevisio che scrisse un trattatello: De causis, natura, moribus accuratione pestilentium febrium vulgo, dictarum cum signis, sive pestechiis, perbrevis tractatus et observatio 1587 et 1588. Andrea Trevisii, medici Gallarati. Mediolani apud Pacificum Pontium, 1588.
Il Trevisio nel suo opuscolo dà anche l'elenco dei luoghi che maggiormente soffrirono per questo male, tra i quali vi è Busto Arsizio, dove il morbo si sviluppò per due 1agioni e cioè perchè " abonda di piscine, e perchè " le abitazioni son quasi sotterranee,.
Un altro fatto meraviglioso avvenne nel 1601, anno in cui il sepolcro di S. Carlo per il gran numero dei miracoli cominciò ad apparire più glorioso e prese ad affluirvi da ogni parte una gran quantità di fedeli.
Il 19 Agosto di questo anno le case anche in questo borgo furono scosse da un terremoto spaventoso cosicchè tutte traballarono. Otto giorni dopo cadde una grande quantità di rugiada che mutatasi in brina bruciò tutte le biade minute e principalmente il miglio, il panico e la melighe. E poichè ciò avvenne anche in tutta la Lombardia ne derivò una fame insopportabile. Ma ancor più orribile e difficile a narrarsi è ciò che accadde nel secondo mese da che erano state gettate le fondamenta della nuova chiesa di S. Giovanni Battista di questo borgo. Mentre infatti si attendeva con tutto l'impegno alla fabbrica di questa chiesa, il 15 Agosto 1609, poco dopo mezzogiorno, una nuvola nerissima e vapori minacciosissimi, rotti da lampi e saette frequenti, riempirono velocissimamente l'aria a settentrione e coprirono tutto il cielo. Sorsero poi da ogni parte vortici e venti impetuosi che assalirono alberi e case con tanta furia che poco mancò che ogni cosa fosse gettata al suolo. Pochi degli abitanti riuscirono a fuggire nella chiesa perchè la maggior parte erano nei campi o perchè le tegole e le travi dei tetti che, strappate dal vento, volavano qua e là, li costringevano a cercarsi un ricovero nel più interno delle case.
Cadde finalmente una dirottissima pioggia mista a grandine, tra vento, tuoni e saette che pareva la fine del mondo. lo e Domenico Carnaghi ci eravamo rifugiati nella chiesa per adempiere al nostro ufficio, come coloro a cui era affidata la cura delle anime, ed eran con noi alcuni pochi i quali, a stento, all'inizio dell'uragano, là erano quasi volati. Tutti ci eravamo posti sotto una volta di mattone, e sebbene il rifugio sembrasse sicuro, tuttavia temevamo che diventasse il nostro sepolcro. Dico cose vere: era così grande la forza di quella procella che, contorti i battenti assai forti, spezzò e aprì le porte della chiesa, sebbene fossero doppie e tenute chiuse da una solidissima spranga di ferro, e rovesciò anche una grandissima croce di ottone e rame, posta sulla cima della torre campanaria, che era solidissima e non era mai stata colpita o danneggiata nè dal fulmine, nè da altro colpo più potente. Gli alberi più alti o furono divelti completamente o ebbero tutti i rami spezzati; gli altri, che s'erano piegati al vento, rimasero così nudi e scortecciati da sembrare privi di ogni vita. L'acqua poi cadde in così grande quantità che e il borgo e la campagna parevano trasformati in un immenso lago, dal quale si precipitavano con corso rapidissimo verso i luoghi più bassi delle grosse fiumane.
(1) Col nome, formato grecamente, di cacodemone (cacós- cattivo) il cronista intende indicare il demonio in genere.
Alcuni allora asserirono che quella calamità era dovuta all'invidia del cacodemone (1) che mal sopportava che i Bustesi avessero una così bella chiesa a onore di Dio e del suo Precursore e pensarono che Dio l'avesse permessa per provare la fede e la costanza religiosa di questo popolo. Ma forse fu presagio di uno scellerato e pazzo disegno che Enrico IV, re dei Francesi, aveva incominciato a mettere in opera per togliere la signoria del Milanese a Filippo III di Spagna, re Cattolico. Ma quanto questo disegno era empio e abbominevole così, per grazia divina, non potè esser condotto a compi- mento e riuscì vano; poichè il re Enrico, mentre, dopo la coronazione solenne della sposa, visitava sopra un carro i borghi di Parigi e la pompa e l'apparato della città, fu trafitto col ferro da un Borgognone (1) e morì nell'anno 1610, poco prima che S. Carlo fosse annoverato tra i Santi Confessori da Paolo V., Pontefice Massimo.
DRAMMA AL CONVENTO DI SANTA TERESA (1-2)
Qualche secolo è trascorso dal 1658, quando a Biumo Inferiore ebbe origine il convento di Santa Teresa, con la professione di diciassette monache, che elessero la vita claustrale sotto la regola agostiniana. E anche se quella notizia ci è stata tramandata da un volume di antica storia varesina, quando ci capita di percorrere la via Vincenzo Walder, giunti di fronte alla Casa S. Giuseppe Lavoratore, ci ritorna in mente che proprio in quello stabile era ubicato l'antico convento, la cui cerimonia di apertura fu solennemente celebrata dall'Arcivescovo Litta, con l'assistenza del Preposto di Varese.
La chiesa, come la strada dove fu edificato il convento, venne dedicata a Santa Teresa e, successivamente, il luogo di culto e il chiostro, furono ingranditi a spese di alcuni privati, in modo che lintero edificio si trovò circondato da fioriti giardini e alti alberi.
Le monache portavano il velo e vestivano camici di lino. Avevano tutto in comune e nessuna di loro poteva possedere alcuna cosa. Le giovani che volevano entrare in convento dovevano inoltrare istanza alla sacra congregazione dei vescovi e le postulanti che venivano ammesse, dopo una rigorosa valutazione, dovevano attendere allo studio, essere addestrate ai lavori femminili e, in pari tempo, ricevere una formazione rigidamente religiosa e morale. Il lato negativo di quella prassi stava nel pericolo che qualche genitore senza cuore o per una mentalità distorta, mettesse la propria figlia con le suore, senza il suo pieno consenso, al fine di indirizzarla alla vita religiosa.
In questo caso, la sfortunata donna, se non si sentiva chiamata e non riusciva a fare, come si suol dire, di necessità virtù, diventava una creatura inquieta, infelice e, al limite, una sciagurata monaca di Monza.
Ciò purtroppo è accaduto anche nel convento di Santa Teresa, molti anni dopo la sua fondazione, prima ancora che le poche monache rimaste nella comunità di Biumo Inferiore, si ritirassero nel chiostro di S. Martino. Racconterò questa satira, così come l'ho recepita da un valente scrittore che, negli anni venti, operava presso le Industrie Grafiche del compianto Amedeo Nicola, stimato e benemerito imprenditore varesino.
Siamo nel Settecento. E il mese di luglio di un anno non precisato. Le vecchie cronache parlano di vicende e di individui in sobrio stile, dedicando poche righe agli eventi degli uomini in lotta con i problemi di tutti i giorni. In una villa sopra i colli che circondano Varese, si festeggia il fidanzamento di una graziosa ventenne, secondogenita del nobile varesino
Passano le carrozze sul vasto viale, tra cedri e magnolie, statue e zampilli che ornano lo spazioso parco. Le comari accorrono con i figliuoli in braccio, ma il cancello si chiude e respinge la plebe, curiosa e pettegola, mentre in fondo, dietro le vetrate, si intravedono svelte livree che passano e ripassano.
Arrivano gli ospiti e il proprietario della villa, perfetto cavaliere, riceve nobili, borghesi e religiosi, invitati alla festosa cerimonia, mentre la padrona di casa, con un breve sorriso di compiacimento, presenta i futuri sposi, felici e sorridenti per il loro amore sbocciato improvvisamente, da qualche mese, alla scuola di equitazione.
Appartata e visibilmente nervosa vi è la sorella della fidanzata. Una giovane non ancora diciottenne, dalle morbide curve che destano una certa attenzione da parte degli uomini, ma definita dalla madre come una ragazza irrequieta e dalla mentalità piuttosto contorta. Il suo dolce viso è offuscato, quasi tormentato, come se il fidanzamento della sorella creasse in lei un senso di profonda inquietudine.
Ciò attira l'attenzione del padre che da tempo la tiene sotto controllo, avendo preso in considerazione la proposta della moglie di convincere la figlia ad entrare in un convento. Quel proponimento non è un segreto per la giovane, convinta che il matrimonio della sorella maggiore, significhi per una situazione di rottura con il mondo civile, essendo destinata alla vita monastica, indipendentemente dalla sua volontà.
 
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24 Marzo 2024 - domenica - sett. 12/084
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L'Italia prima di Roma, gli antichi popoli. (2/2)
Abbiamo alcune popolazioni che si stanziarono tra l'area centrale della penisola e l'area settentrionale, in particolare in area centrale. Abbiamo la cosiddetta civiltà protolatino, composta da popoli diversi. I latini, i falisci, gli aurunci e i singoli sicani. Mentre in area settentrionale abbiamo alcune popolazioni che si stanziarono in epoca preistorica e poi ebbero una loro vita autonoma anche in epoca storica ed ebbero anche alcuni rapporti con i romani e gli etruschi. Questi sono i liguri stanziatisi nell'attuale Liguria, ma. Non solo, anche in area Centro Nord occidentale, Piemonte, Francia del Sud est. La cosiddetta cultura di golasecca, una particolare cultura affine a una cultura centro europea, la cultura di altstadt, stanziata sostanzialmente a sud del lago Maggiore. E il popolo dei veneti che occupò parte dell'attuale Veneto e che ebbe probabilmente origini orientali. Nazioni hanno poi interessato il Centro Italia, in particolare la migrazione di due gruppi etnici, il gruppo Osco e il gruppo Umbro. Del gruppo fanno parte alcune popolazioni che poi ebbero importanti relazioni, anche di lotta aspra, con i romani. Si tratta, per esempio dei sanniti. I sanniti, da cui derivarono poi gruppi in ad essi imparentati come quello dei lucani e dei bruzi i lucani stabilitisi, è sostanzialmente in Basilicata e i bruzi invece in Calabria. L'altro gruppo migrato, diciamo in area centrale, fu il gruppo Umbro di cui facevano parte alcuni popoli, tra cui gli umbri,  propriamente detti i volsci, e i sabini. Con tutti questi popoli romani ebbero a che fare addirittura da alcuni di questi popoli, come i sabini e discesero gran parte dei. Romani più antichi? In questa mappa, possiamo vedere come discorso relativo alla grande divisione politica presente sulla penisola tra epoca preistorica ed epoca storica, possiamo vedere come sia presente. I liguri in area nord occidentale con. Forti e influenze celtiche, la cultura di golasecca, anch'essa con influenze del. Centro Europa, i veneti? Ad Est, alcuni resti della cultura di Villanova in area romagnola, diciamo. La civiltà etrusca che si sviluppò in seguito. Come sviluppo, come evoluzione della civiltà di Villanova. E possiamo poi vedere anche alcuni resti della civiltà appenninica, se non altro nella sua conformazione, diciamo geografica, proprio sulla dorsale appenninica. Civiltà appenninica che poi è stata largamente invasa da diversi popoli di cui abbiamo già parlato. La Puglia che viene occupata da un popolo di origine balcanica, probabilmente quello degli japigi. E poi le varie costole dei sanniti come i lucani e bruzi che occuparono l'estremità sud dell'Italia, i Siculi e sicani che si trasferirono dal Centro Italia sull'isola di Sicilia. E poi i sardi che costituiscono, diciamo, un gruppo piuttosto autonomo, anche per questioni di lontananza geografica dalla penisola. A tutto questo si aggiunge un fenomeno di colonizzazione orientale da parte dei greci. Che occuparono sostanzialmente le coste dell'Italia meridionale. Dando origine a quella che poi verrà chiamata Magna Grecia. Tutto questo appartiene dall'ottavo secolo a.C. E poi i cartaginesi, ovvero. Quella costola dei fenici che si era stanziata nel Nordafrica. I cartaginesi, che con i loro grandi commerci marittimi si stanziarono in Sardegna. Si stanziarono in Sicilia. In Corsica. Ed ebbero forti relazioni con i popoli che avevano occupato precedentemente l'Italia, in particolare, per esempio con gli etruschi. In questa, in questo mosaico di popoli Il gruppo, diciamo. Protolatino, se vogliamo che si era insediato? In quella centrale, in particolare sui Colli. Laziali sui Colli laziali. In questa area centrale. Sarà poi all'origine della civiltà romana. E. La civiltà romana, che poi sarà in grado di riassumere, diciamo tutte queste diversità in una unità politica. Inizialmente, attraverso delle conquiste militari, successivamente, attraverso l'elaborazione di un sistema politico complesso.
A MODENA LA SECCHIA A VERGHERA LA "CALDERINA"
Chi ricorda ancora (erano gli anni venti e trenta) quando un ragazzino scalzo o con gli zoccoli ai piedi, a mattina inoltrata, col sole, col vento, coll'acqua, portava le "calderine" colme di cibo ai vergheresi che lavoravano nelle officine e nelle tessiture del gallaratese?
In esse c'era di tutto: la busèca, la cazola cui cùdiggh e i custinn, i mundaghìnn, il minestrone di riso o pasta ricco di tutte le verdure che era possibile trovare nella stagione in corso.
Il vivandiere teneva sulla spalla un robusto bastone, sul quale stavano appese in equilibrio le calderine; cinque sul davanti e cinque di dietro. Come arrivava nelle portinerie degli stabilimenti vi lasciava tante calderine quanti erano gli operai in essi dipendenti, del nostro paese. Negli anni venti un giovane apprendista una o tre volte la settimana, di sera, tornando dal lavoro, si fermava con gli amici, in una casa che, data l'età, non gli era consentito dalle leggi di frequentare.
Vi fu una volta sorpreso dalla polizia in visita di ispezione. Per la fretta di svignarsela, coi pantaloni in mano, per non essere portato al fresco, aveva dovuto abbandonare, nelle mani dei poliziotti la calderina che non gli era bastato il coraggio e il tempo di ricuperare. Naturalmente il fatto venne risaputo e se ne parlò in piazza per quindici giorni di fila. Il giovanotto che era un mio zio paterno e che aveva il mio stesso nome, divenne suo malgrado, l'eroe del giorno e per tutta la vita lo chiamarono "calderina".
LA "GIOBBIA"
Vecchia indimenticabile Giobbia. Ultimo giovedì di gennaio. Prima di uscire nella piazza gelata per assistere a "di quella pira l'orrendo fuoco" ci scaldavamo per bene davanti al camino immenso. Poteva starci seduta comoda una famiglia di almeno cinque persone. Era il posto più caratteristico e importante di quella caserma che sembrava la cucina della mia casa di allora nel cortile del Frà, dove l'acqua gelava nella brocca e si formavano sulle finestre i fiori di ghiaccio meravigliosi a vedersi, cucina che mi ricorda quella che il Nievo rievoca nella descrizione del castello di Fratta. Con paletò, (che era stato prima del mio fratello maggiore e che dopo sarebbe passato sulle spalle del mio fratello minore) con sciarpa che si poteva avvolgere più volte intorno al collo tanto era lunga, con i "zucarùni" (zoccoloni) con la suola di legno e col bordo di finto pelo colorato; niente cappello: avevamo tutti, in famiglia, una capigliatura abbondante per cui non c'era bisogno di un'altra protezione contro il freddo dell'inverno rigido e tagliente della fine di gennaio.
La catasta della legna che si doveva ardere era alta anche più di tre quattro metri. Tutti i ragazzi del paese andando di casa in casa, avevano fatto il loro dovere procurando tante fascine di legna secca e leggera, veloce a prendere fuoco e capace di alimentare una fiamma alta priva di fumo. Oltre l'ultimo piano delle fascine, che si era faticato non poco a spingere così in alto, svettava un palo lungo e robusto che sorreggeva una gigantesca bambola fatta e imbottita di vestiti vecchi e di sacchi di juta. La strega sacrificata ad essere divorata dalle fiamme era il simbolo del male che doveva venire vanificato dalla purezza del I primi anni il sacrificio si consumava in piazza grande davanti al monumento della Beata. I carabinieri ci proibirono poi, per paura forse di qualche incendio, di usare la piazza obbligandoci a cambiare il luogo al falò. Prima sul campo di calcio dell'oratorio maschile, poi sul campo di calcio di Via Borsi dove, dagli anni venti si disputavano gli infuocati Derby Cittadini.
Non c'è bisogno di dire che la folla intorno al rogo era straripante, vociante, irrequieta, diabolicamente rivestita dal riverbero delle altissime lingue di fuoco delle fiamme crepitanti. Ma poi come avviene per tutte le cose che a poco a poco finiscono per morire, l'ardore del fuoco andava vieppiù calando con improvvisi ritorni; la brace crepitava ancora ma accennava a momenti di stasi sempre più ricoperta dalla cenere. Ad un certo momento restavano vivi solo alcuni pennacchi di fumo.
La notte del Sabba era finita. Ciascuno di noi tornava alla sua casa con l'animo placato per la purificazione che il fuoco aveva operato nella nostra coscienza di poveri peccatori, bruciando la strega fatta di stracci simbolo della nostra miseria, della fragilità e caducità dell'uomo.
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La lista degli argomenti della settimana 12
 
  1. A modena la secchia a verghera la "calderina"
  2. A sbafo - (29-30 dicembre 1892)
  3. Atto di compra-vendita
  4. Busto Arsizio - Gli inizi del borgo cap. 2 (1/4)
  5. Cosa ascoltare oggi
  6. Dramma al convento di santa teresa (1-2)
  7. Esproprio proletario - (17-18 febbraio 1895)
  8. I esèmpi
  9. Il Bottonuto (1-2)
  10. Il lavoro dei milanesi (4/4)
  11. Inbiancà, sbiancà, o sbianchì
  12. L'Italia prima di Roma, gli antichi popoli. (1/2)
  13. L'Italia prima di Roma, gli antichi popoli. (2/2)
  14. La "giobbia"
  15. La chiesa di San Giorgio a Corgeno.
  16. La cà di me vecc
  17. La facciata del Duomo
  18. La storia di Busto e le sue relazioni - capitolo 7 (10/10)
  19. La storia di Busto e le sue relazioni - capitolo 7 (9/10)
  20. Notizie dal Villaggio
  21. Travedona-monate -
Sommario
Le dirette
Pensiero della settimana
Il danaro non è tutto, ci sono anche i diamanti
Ama il tuo prossimo: non questo,    il prossimo!