RVG settimana 10
 
Radio-video-giornale del Villaggio
Settimana-10 del 2024
 
 
RVG-10 - da  - Radio-Fornace
 
Settimana 10       2024-03-04 -  Marzo - Calendario - la settimana
04⁄03 - 10⁄064 - Lunedi
05⁄03 - 10⁄065 - Martedi
06⁄03 - 10⁄066 - Mercoledi
07⁄03 - 10⁄067 - Giovedi
08⁄03 - 10⁄068 - Venerdi
09⁄03 - 10⁄069 - Sabato
10⁄03 - 10⁄070 - Domenica
 
04 Marzo 2024 - lunedi - sett. 10⁄064
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La storia di Busto e le sue relazioni - capitolo 7 (3⁄10)
L'elezione del nuovo duca dev'essere considerata come un beneficio del Cielo, perchè in seguito a questa le cose nel ducato presero un andamento favorevole, che sarebbe stato duraturo se Filippo Maria avesse lasciato un discendente maschio. Ma poichè morì senza alcun erede legittimo, di nuovo incominciarono i torbidi. Delle città che i Visconti avevano assoggettate, alcune anelavano di acquistare l'indipendenza, altre si univano a Principi stranieri. Tra i Milanesi stessi non v'era una volontà unica e concorde, desiderando alcuni di conferire il supremo comando della città a Filippo Sforza, genero di Filippo Maria e adottato come figlio, altri ad Alfonso, re di Napoli, altri infine a Carlo, duca di Orleans, che aveva sposata Valentina, figlia di Bernabò Visconti. In tale discordanza di opinioni il Senato milanese deliberò di reggere lo Stato sotto la denominazione di Repubblica e atterrato il castello di Milano, mutate le magistrature e preparato tutto ciò che era necessario alla guerra, affidò la condotta suprema della guerra a Francesco Sforza a questa condizione: che tutti i luoghi e borghi che avesse conquistati oltre l'Adda sarebbero appartenuti a lui, purchè avesse difeso la libertà e la Repubblica dei Milanesi principalmente contro i Veneti. Lo Sforza, assunto il comando della guerra, combattè con prospera fortuna contro moltissimi ma specialmente contro Venezia. Ma poichè appariva che egli cercava piuttosto il suo che l'utile dei Milanesi, questi mandarono ambasciatori ai Veneti, i loro più ostinati nemici, a trattare la pace. Ma saputolo lo Sforza, li precedette e strinse un patto d'alleanza con Venezia l'anno 1448; poi, insorgendo con tutta la sua esperienza della guerra, costrinse molti paesi ad arrendersi e, coll'aiuto dei Veneti, sottomise tutti i luoghi forti ficati che erano tenuti in nome dei Visconti, dei Castiglioni e dei Vistarini. Appunto in questo tempo condusse il suo esercito a Legnano, con l'intenzione di assalire e devastare il borgo di Busto. Ma dopo aver attaccato due volte il borgo, dalle frequenti piogge fu costretto a ritirarsi. Difendeva il borgo in nome della repubblica milanese Filippo Visconti, figlio di Gaspare, che vi era stato mandato appunto per questo. Ma poichè lo Sforza, come riferisce Giovanni Borromeo, non recedeva dai suoi tentativi di assoggettare i paesi rimasti fedeli ai Visconti e, sebbene respinto due volte, era ritornato con il proposito di condurre l'impresa a fondo, i Bustesi, intimoriti, si affrettarono a inviargli un'ambasceria per consegnargli volontariamente il borgo.
Ricordando questi tentativi di Francesco Sforza contro i Bustesi, Alberto Bossi in quel suo Elogio ai Bustesi, assevera che non altronde che dal Cielo e per intercessione della Vergine i Bustesi ebbero in tale circostanza l'aiuto necessario.
On defà de polin - Darsi da fare come un tacchino
Il dialetto milanese si mostra sempre arguto nel punzecchiare quei personaggi che si vantano immeritatamente, per esempio chi esalta l'importanza del proprio lavoro o del proprio ruolo sociale ma, in realtà, lo fa senza aver costruito nulla di concreto. Per costoro esiste un motto d'ispirazione zoologica: on defà de polin ovvero «pavoneggiarsi» come un tacchino. La similitudine con il grasso uccello da cortile è chiara: il tacchino, quando si sente osservato, non esita a mettersi in mostra, assumendo un atteggiamento impettito, gonfiando vistosamente le piume e allargando a ventaglio le variopinte penne della coda, mentre gloglotta e zampetta avanti e indietro per l'aia. Il vanitoso, ostentando la sua bellezza, corre così il rischio di finire in pentola per primo...
Le spade tra corredo - e offerta rituale
Nell'areale di diffusione delle culture della Scamozzina-Monza e di Canegrate le spade provengono tanto da corredi funerari, riferibili a individui di sesso maschile, quanto da luoghi, come le acque di fiumi e paludi, ove esse furono gettate come offerta votiva.
Nei sepolcreti della cultura di Canegrate le spade compaiono di norma in frammenti e non più utilizzabili, sottoposte all'azione del fuoco e deformate dal calore in quanto deposte sulla pira funebre insieme al defunto.
La relativa rarità con cui le spade compaiono nei corredi funerari nelle necropoli del Bronzo Medio e Recente dell'Italia nordorientale, fatto salvo il caso del sepolcreto dell'Olmo di Nogara nella bassa Veronese, suggerisce che esse rappresentino un simbolo di status di un ceto dominante, coincidente con una aristocrazia guerriera.
Nell'Europa transalpina è stata osservata una corrispondenza diretta tra corredi funerari e deposizioni votive; queste ultime mancano o sono più rare quando le spade compaiono nei corredi e viceversa. Nel caso delle culture del tardo Bronzo Medio Bronzo Recente dell'Italia nordoccidentale tale fenomeno non è facilmente osservabile a causa della relativa rarità di rinvenimenti, ma non può essere a priori escluso.
Marzo (3⁄4)
"Essendo ieri venerdì de marz, fui tratta dalla mia devozion a San Cels, e v'andiedi con quell sfarz che s'addice alla nostra condizion....
Il rito di recarsi in corteo nuziale a San Celso è ancora vivo ai nostri giorni; le coppie ci vanno per ottenere una benedizione speciale dalla Madonna, lasciando in dono il velo nuziale.
Siamo quasi a metà mese; in questo periodo anche il merlo si è fatto sentire: "Quand canta al merlu, sem for a de l'invernu", attenzione però a non farsi prendere dall'entusiasmo dei primi tepori, alleggerendo l'abbigliamento, perché l'influenza è in agguato! Non ascoltate quello che dicono un pò in tutta la Lombardia e cioè che:
"A marz se trà via covert e scalfarott, e chi gh'ha minga i scarp el vaga a pee biott!" (in marzo ogni villan vada scalzo).
Se "marzo pazzerello" alterna acqua e sole, trova molti proverbi che lo giustificano: "Acqua e sùl, la campagna la vè de gùl!" (per la campagna acqua e sole sono una manna). "Marz spolverent, segala e forment; Marz Gualdrott Erbe a Balott!" (Marzo polveroso, segala e frumento; marzo mattano, erba a mucchi).
"El forment in la palta e 'l formenton in la polver!" (il frumento va seminato nel terreno bagnato mentre il granoturco in terreno asciutto), comunque sia: "A somenà da marz a giugn, se falla minga!" pero, durante la semina bisogna darci dentro perché "la terra no la voeur ne po verèt ne avar!". Anche se la scienza non si è ancora pronunciata su questo argomento, attenzione a seminare con la luna giusta perché l'esperienza insegna che le semine fatte con la luna cattiva (luna crescente) vanno in fiore prima del tempo. La luna buona, secondo la sapienza di noster vècc è nelle due settimane che seguono la luna piena, fino a luna nuova.
Il 18 marzo di ogni anno, partendo dal 1848, è l'anniversario delle cinque giornate di Milano. II Giulini ricorda che durante quei giorni un gruppo di nobili milanesi fece voto di donare alla Madonna dei Miracoli, presso San Celso, una lampada d'argento qualora la Vergine li avesse aiutati a liberare Milano dai soldati di Radetzky; i pattan, come erano chiamati dai milanesi gli austriaci, abbandonarono la città e il voto venne mantenuto: la lampada cesellata da Giuseppe Milanaccio, arse davanti all'immagine della Madonna anche dopo il ritorno degli austriaci, che non osarono mai toccarla.
19 marzo: "San Giuseppe vegiarell, che governavev Gesù bell, governi l'anima mia: Gesù, Giuseppe e Maria. Amen!". Tra una luna giusta e una sbagliata ci avviciniamo alla primavera e chi ci accompagna a questo atteso appuntamento è il santo patrono di tutti i lavoratori: "San Giuseppe el porta la marenda, in del fazzolett!" (le giornate si allungano e i contadini si fermano di più nei camp, quindi è necessario portarsi da casa uno spuntino). "A San Giuseppe fioriss el perzeghett!" (la fioritura del pesco si manifesta con l'arrivo della bella stagione).
Una leggenda ci parla di San Giuseppe come "artiere del legno e commerciante di friggitoria", infatti non è raro vedere, sia nelle falegnamerie che nelle rosticcerie, l'immagine del santo. Si racconta che il falegname Giuseppe, della stirpe di David, al termine di ogni giornata lavorativa, trovasse per terra, accanto al suo bancone di artigiano, molti trucioli; non sapendo come sbarazzarsene, provò ad usarli per cuocere le frittelle di cui era ghiotto il suo figliolo Gesù. Un dolce profumo si sparse per le vie di Nazareth richiamando tanti bambini che reclamavano anche per loro le gustose frittelle, tanto che Giuseppe, aiutato da Maria, da allora dovette alternare il mestiere di falegname a quello di friggitore e venditore di tortelli.
con San Benedetto (21 marzo) che si entra ufficialmente in primavera e le rondini ce lo annunciano: "A San Benedett, la rondena la vegn al tèce".
Le rondini, chiamate anche "galinèle dla Madona", sono considerate di buon augurio nelle case coloniche dove nidificano numerose e indisturbate, come ci fa sapere lo scrittore e poeta Iginio Ugo Tarchetti (au tore del famoso romanzo Fosca), nel suo volume di poesie Disjecta: "Benedetta quella casa alla cui gronda i bei nidi appendete!".
 
       **************** fine giornata ************************
 
 
05 Marzo 2024 - martedi - sett. 10⁄065
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Ona donna de conclusion - Una donna di conclusione
Milano è una città che, fortunatamente, offre al sesso femminile numerose opportunità per studiare, lavorare e realizzarsi, e così è sempre stato. Da Cristina Trivulzio di Belgiojoso a Carla Fracci, Liliana Segre, Ornella Vanoni, Amalia Ercoli-Finzi, molti sono i nomi femminili che hanno dato e danno lustro alla città. E per loro il dialetto ha creato un motto che, con una sintesi perfetta, ammira e magnifica il carattere deciso di quelle donne che, grazie alle loro azioni positive, sono tenute in grande considerazione, sia nella loro famiglia sia nella società. In questi casi si dice che l'è ona donna de conclusion: è valente, sa prendere in mano una situazione difficile e risolverla, sa amministrare e decidere, concludendo con maestria anche le situazioni più intricate.
Il lavoro dei milanesi (1⁄4)
M: D'accordo, anche perché hai introdotto proprio l'argomento che, forse, è quello che più identifica la città, il lavoro, che rende un po' milanesi non solo gli abitanti ma an che tucc quei che, ogni dì, vegnen chi per lavorà. I milanesi hanno infatti la fortuna di stare in un luogo dove il lavoro ha sempre richiamato gente da fuori e non viceversa. Qualcuno lo chiama il DNA della nostra città, un tempo si usava il latino definendolo genius loci, altri hanno parlato di "canone milanese": più semplicemente, da noi si dice che fa e disfà l'è tutt lavorà. Fatto sta che quasi tutti quelli che vivono o hanno vissuto abbastanza a lungo nella nostra città hanno assimilato lo "spirito meneghino". Ed anche agli occhi di tutti, italiani e stranieri, Milano ha sempre rappresentato un luogo dove si lavora: gh'hinn (gh'eren...) fabbrich, bottegh, offizzi, la gent l'è semper in moviment, con tante nuove iniziative.
C: Te me fet vegni in ment la canzon del Gaber «...con tanta gente che lavora con tanta gente che produce... Com'è bella la città com'è grande la città...».
M: Cont i sò canzon el Gaber l'ha savuu descriv Milan e i milanes mei de mila liber, e sempre con tanto rispetto ed ammirazione per la città. Quando scriveva i suoi testi, era proprio il momento che Milano cresceva in tutti i sensi, benessere, immagine, considerazione... che poi era una conferma delle opinioni che quelli di fuori avevano dei milanesi (anche se mica sempre era favorevole).
C: Certo che, un tempo, proprio per cercare lavoro ve gniven in tanti a Milano, soprattutto dal meridione, ed era gente di ogni tipo, i più istruiti negli uffici pubblici, nella scuola, qualcuno ha perfino preso il premio Nobel, ma la maggior parte si inseriva nelle innumerevoli attività produttive che la città offriva. Magari trovaven nebbia, frecc, gris, solitudin, ma poi chi riusciva ad inserirsi, ed era la maggior parte, si sentiva orgoglios de vess milanes, o quasi,
M: In effetti a Milan el lavorà l'è semper staa a la base del noster viv, come ben ricorda un'altra canzone, quella che tutti considerano il nostro inno, O mia Bella Madonnina, dove si dice chiaramente che qui «...se sta mai con i man in  man...».
C: E c'è anche il detto Se te gh'héet nient de fà, va a scovà dove gh'è nett, che vuol dire la stessa cosa. Ma el fa inscì per fa l'è minga assee, perché la fama di lavoratori dei milanesi si accompagna alla cultura della qualità, una reputazione vecchia di secoli, che fabbricanti, artigiani, mercanti e an che contadini hanno saputo diffondere dovunque.
M: Siamo anche considerati gente perbene, laboriosa, onesta, anche se ultimamente queste doti sono un po' (tanto...) "inquinate". D'altra parte, sempre senza generalizzare, questi valori hanno riguardato tutti i milanesi, sciori e poveritt, e non si deve dimenticare uno dei nostri pilastri, la borghesia storica meneghina, spesso illuminata, un po' bauscia, con i suoi commenda e le sue sciore, ma che con orgoglio si mostra a fianco dei suoi lavoratori e investe per loro; la ditta e la città, sempre aperte all'innovazione.
C: Quasi divertirsi lavorando... Ma a divertiss hinn domà i sciori: domandel ai operari quanto se divertiven a tirà el carrett... Oggi, forse, un po' meno, ma Milano ha sempre rappresentato il luogo dove si lavora e si fatica soltanto, lasciando tutte le cose belle della vita altrove. E se fa fadiga anca a cercai i robb bei de Milan, che pure sono molte, materiali e no. In compens, anca chi hinn mai mancaa i fanigottoni, anzi, sembra proprio che, ormai, la voglia di lavorare i milanesi la stiano lasciando sempre di più agli altri. Puttost, ghe saria de parlà di donn, che purtroppo anche in questo campo non vengono mai prese in considerazione... Milano è famosa per i suoi artigiani, mercanti, operai, imprenditori, ma semper de omen se parla...
La muntagnèta
Ricordato più volte, è giunto il momento di riparlarne più ampliamente. Spiazzo erboso alto un metro e mezzo sopra il livello stradale, confinante a nord col vecchio cimitero, (ul cimiter vecc) a ovest col viale della Rimembranza, a est e a sud con la stradicciola carrabile che partendo dal piazzaletto della chiesina di S. Bernardo si congiungeva nel piazzale del cimitero nuovo con la stradina che portava alla cascina del Prete che oggigiorno chiamano Cascina Tangitt. In quel posto benedetto dal Signore io portavo le oche al pascolo, altri conducevano le pecore e le capre a brucare il trifoglio tenero che vi cresceva abbondante. Giocavamo nell'adiacente cimitero abbandonato e dalle balze (mi sembra un po' esagerato, ma le gesta gloriose della nostra età giovanile vogliono un po' di enfasi eroica) dalle balze dunque della montagnetta lanciavamo i nostri aquiloni. Lungo i lati est e sud cresceva una dolce catena di rialzi arieggianti con la debita "miniaturizzazione" la catena delle Alpi. Anche in questo posto che di speciale non possedeva proprio niente, ne abbiamo fatto di giocare. Ad ogni ora del giorno, col bello e col cattivo tempo, in compagnie di cinque, dieci e anche venti ragazzi. A palla, a ladri e carabinieri, a palla avvelenata, alle carte, a raccontarci le "esempie", a renderci, vicendevolmente edotti dei fatti scabrosi, e quindi per questo a noi proibiti. Addio montagnetta che hai portato via con te, quando ti hanno fatto sparire, una parte "gloriosa, e spensierata" della nostra prima giovinezza: con lo spiazzo erboso della montagnetta verde teatro solatio di giochi infantili e di litigi. Già, c'erano anche i litigi e non pochi.
Marzo (4⁄4)
"Pifania... tutt i fest la menna via; ma poeu riva San Benedett e ne porta on bel sacchett!". Mentre l'Epifania è l'ultima delle feste del periodo natalizio, San Benedetto e l'Annunciazione ci preparano al periodo pasquale: "Tra el spos e la sposa, se somèna la linosa!".
Tra lo sposo (San Giuseppe 19 marzo) e la sposa (Annunciazione di Maria - 25 marzo) si semina
il lino. Man mano che la primavera avanza, le violette perdono il loro delicato profumo. "A la Madonna di Garzon, de vioeul se ne catten pù, perché ormai hann pers tutta la soa virtù!". L'Annunciazione è chiamata nel bresciano la Madonna dei Garzoni, perché è consuetudine in questo giorno assumere nuovi lavoranti per la campagna, però, sempre in quel giorno si poteva anche cambiare padrone senza tanti problemi: "Quand la vioeula la profuma pù, mandi el padron a dà via el cuu!".
Il 25 marzo a Fiumelatte (Varenna) si attende l'apparizione dell'acqua. Il paese prende il nome dal torrente omonimo che esce in superficie solo da marzo a ottobre.
L'acqua esce impetuosamente dalla montagna il giorno dell'Annunciazione, quando in loco si festeggia la Madonna Nera, e si esaurisce il sette ottobre giorno della Madonna del Rosario; per questa sua caratteristica Fiumelatte viene chiamato: "El fium di dò Madonn!".
Passata la quaresima e festeggiate le Palme, parliamo delle varie manifestazioni che si svolgono durante la settimana santa cominciando da una antica usanza propria della gente dell'appennino pavese, dove al giovedì santo si usa bruciare nel campo vicino casa ogni cosa che non serve più. Il senso vero della cerimonia si è perso nella notte dei tempi ma forse si rifà all'abitudine di pulire le case in prossimità della ricorrenza pasquale, come ci ricorda la sapienza di noster vécc: "Pasquetta la voeur la cànetta!" di attribuire al fumo efflusso dai piccoli falò il potere di infastidire e tener lontani i rettili velenosi, evitando ai contadini, che si apprestano a tornare nei campi, il rischio di possibili morsicature. Nel mantovano sono convinti che: "Chi vol süche in abondansa ia meta zò par la Stmana Santa!" infatti, per tradizione, la seminagione importante avviene il venerdì santo; In questo giorno si seminano: prezzemolo, insalata, porri, coste, carote, verze, cavolfiori e piselli. Mario Merlo, studioso delle tradizioni pavesi, ricorda che fino agli anni Trenta del secolo scorso, nelle campagne della Lomellina, durante la settimana santa, si usava abbracciare tutti gli alberi da frutto nella convinzione che, così facendo, il raccolto sarebbe stato abbondante.
I momenti più suggestivi della settimana che precede la Pasqua erano e sono le funzioni serali: la partecipazione dei fedeli, i costumi delle varie congregazioni, il cantico dei sacerdoti e la statua del Cristo Morto, creavano un evento difficile da dimenticare, come ad esempio, la seco lare processione che tuttora si svolge ad Orzinuovi, in provincia di Brescia, con la partecipazione di molti devoti.
La sera di venerdì santo a Gromo, in val Seriana, sui monti circostanti, si usa ancora accendere dei grandi fuochi. Il rituale del fuoco lo si ritrova in Valtellina, nella zona di Bormio, dove la mattina del sabato santo, sul piazzale della chiesa, si brucia una gran catasta di legna; la brace, benedetta dal sacerdote, viene poi raccolta dai contadini e sparsa negli orti, nei campi e nei prati per avere un buon raccolto. In questo giorno, in tutte le chiese, si celebrano le liturgie che portano alla risurrezione di Gesù.
Nel Duomo di Milano, l'Arcivescovo, benedice il battistero e battezza alcuni bambini conferendo loro i nomi di Pietro, Giacomo e Giovanni, in onore degli Apostoli prediletti da Gesù.
A cerimonia conclusa le campane tornano a suonare festosamente...
"Campane di Lombardia voce tua, voce mia,
Voce, voce che vai via e non dai malinconia...".
Con questi versi, tratti da una poesia di Clemente Rebora, vi ricordo che: "Var pussee ona sgarlada de marz, che ona bonna sapada in april!", ovvero: vale più graffiare il terreno a marzo che una buona zappata in aprile, perché: "Someneri fa' a bonora, el va ben che l'innamora!".
 
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06 Marzo 2024 - mercoledi - sett. 10⁄066
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La storia di Busto e le sue relazioni - capitolo 7 (4⁄10)
Poi, volendoti Francesco Sforza rovinare - (ti difendeva infatti il cavaliere della Libertà) ti circondò coi suoi accampamenti, ma la Vergine invocata, improvvisamente - venne in aiuto e per due volte la pioggia lo respinse (1).
Avuto in suo potere il borgo, (2) lo Sforza lo munì con le sue soldatesche, poi, avanzandosi verso Milano, ridusse i cittadini in così grandi strettezze che nell'anno 1450 al 10 Aprile (3) gli si arresero, dopo aver vissuto in libertà per due anni e sette mesi.
(1) Nel quartiere detto Canton Santo perchè ivi, secondo una pia tradizione, nella peste del 1630, la Madonna che si venera nella Chiesa di S. Maria in Piazza avrebbe alzata la mano a fermare il morbo, in una casa di proprietà dei Crespi Legorino si vede ancor oggi un affresco molto rovinato, di discreto pennello quattrocentesco, che rappresenta la Vergine con in braccio il Bambino e S. Giovanni e un altro santo che per essere assai giovane non pare debba raffigurare S. Giuseppe. Nel dipinto la Vergine ha la mano abbassata. E per questo particolare e perchè, per i caratteri stilistici, il dipinto è anteriore al miracolo asserito dalla tradizione ed espresso dal gesto della Madonna sopra ricordata, ci pare giusto pensare con il Cav. Luigi Milani che l'origine dell'affresco in parola debba rimontare al fatto dell'aiuto dato dalla Vergine ai Bustesi in questa circostanza.
(2) Vedi per una più circostanziata narrazione dei fatti B. Grampa 0. c. pag. 56-63.
Il Ferrario, o. c., a spiegare la resa dei Bustesi allo Sforza, pubblicò per il primo un documento del 1449, l'anno dopo della sottomissione, in cui si fa la storia delle pratiche che nascostamente si erano allacciate tra alcuni notabili bustesi e il governo della Repubblica Ambrosiana per consegnare il borgo allo Stato milanese. Tali pratiche non riuscirono a nulla per l'opposizione di alcuni borghigiani, tra cui il podestà Jacopo de' Trecchi, contro i quali i reggenti la Repubblica emanarono una grida il 27 Aprile del 1449, mettendoli al bando e confiscandone i beni. Vano provvedimento perchè circa 11 mesi dopo lo Sforza entrava in Milano e la Repubblica Ambrosiana cessava di esistere.
(3) Il Cusani - Storia di Milano, vol. 1. pag. 210 - pone la entrata dello Sforza in Milano al 25 Marzo 1450.
Sotto il dominio dello Sforza, non pochi avvenimenti si svolsero nel borgo di Busto, ma li riferiremo a suo luogo. Ma già intrecciandoli ai fatti degni di ammirazione che vi accaddero, ne narreremo anche altri.
Alberto Gallazzi che in quel tempo aveva in questo borgo cura d'anime, ricorda che dopo alquanti anni vi accadde un fatto degno di essere qui riferito.
Nell'anno 1484 mentre Ludovico Sforza, soprannominato il Moro, governava il ducato come tutore di Gian Galeazzo iuniore, Antonio Crespi, parroco di questo borgo, inorì e, racconta il Gallazzi, nell'ora stessa della morte, cioè alle ore dodici del 23 Novembre, la Chiesa, che per diciotto anni egli aveva retta, si oscurò di dentro e fu ripiena di tenebre, come se per la morte di così grande uomo essa fosse stata privata della sua luce e del suo splendore.
Ma l'anno seguente un morbo e una pestilenza mic dialissimi invasero quasi tutte queste regioni. Nella città di Milano, nel quadriennio che durò la peste, morirono centomila persone e nel borgo di Busto, nello spazio di un quadrimestre, mille e cento. Ad aumentare poi le miserie e le calamità, s'aggiunsero, come riferisce lo stesso Gallazzi, venti violentissimi di settentrione, grandinate copiose, un grande incendio e prestazioni forzate senza numero. Le tramontane devastarono tutte le biade, la grandine percosse e spezzò gli alberi, e dallo incendio fu distrutto un gran numero di case.
Qualche cosa di simile si racconta sia avvenuto presso questo borgo nell'anno in cui Lodovico Sforza fu preso presso Novara e mandato in Francia, e i Francesi occuparono il ducato di Milano, cioè nell'anno 1501.
Ogni fioeu el sò cavagnæu - Ogni bambino ha il suo canestrino
Che festa quando una famiglia è rallegrata dalla nascita di una bambina o di un bambino! I neogenitori si sentono al colmo della gioia, i parenti e gli amici festeggiano insieme a loro. Ma l'arrivo del neonato può causare anche qualche preoccupazione, perché si pensa al denaro necessario a soddisfare le numerose necessità del piccolo. Questo cruccio era frequente nei tempi passati (e purtroppo lo è anche oggi) soprattutto fra il ceto popolare, così, per cancellare ogni ombra, nacque un modo di dire ottimista, poiché afferma che ogni ficu, el sò cavagnæu. Il ficu, naturalmente, è il figlio, il neonato, e il cavagneu corrisponde al cestino nel quale i lavoratori riponevano le vivande, il proprio <<tesoro>> quotidiano. La spiegazione non è dunque difficile: nessuna paura, cari genitori, perché a Milano ciascun bimbo che nasce porta con sé un canestrino pieno di un bel pizzico di fortuna.
La stracàsta
Era la strada che conduceva a Castano Primo. Via Cesare Correnti via Montesanto, via Varese in mezzo alla proprietà Agusta, viale Adriatico, via Monte Grappa, via Adua. Il primo tratto, quello che ricordo maggiormente era formato da una via carreggiabile di campagna coi solchi delle ruote tracciate dal passaggio, da tempo immemorabile, dei carri agricoli e da trasporto. Tra le due rotaie, una stradetta di terra battuta per i viandanti, e per i ciclisti. La sede stradale era racchiusa e delimitata da due siepi lunghissime di robinie, con porte e aperture par i straèj che vi si immettevano e per l'accesso alle campagne o i piànn dei diversi contadini proprietari. Nel primo tratto di via Cesare Correnti dopo il ponte della superstrada fino al termine dove inizia via Monte Santo, tratto parallelo al corso dell'Arnetta c'erano le campagne del mio zio Mario e del mio zio Emilio. Non saprei dire quante ore vi ho trascorso. Ricordo, che era una via di molto traffico: carri, pedoni, biciclette. Ombreggiata e fresca d'estate, era una scorciatoia dove difficilmente si trovavano dazieri in agguato, pronti a comminare multe o a far pagare dazio. Allora, all'entrata di ogni comune, c'era la garitta del daziere e il balzello bisognava pagarlo per una infinità di prodotti. Per cui la stracàsta oltre che una scorciatoia per andare a Samarate o a Gallarate, era ombreggiata, riparata dal vento dalle due siepi che correvano parallele tra di loro ed era un modo quasi sicuro, per sfuggire alle grinfie del dazio. Niente rumori di motori niente fumo di scappamento. Trilli e voli di uccelli, stormire di fronde e tanta umbria, oasi incantevole per giocare a nascondersi. A destra andando in direzione di Samarate scorreva a dieci passi l'Arnetta. Andavamo a rifornirci d'acqua per dar da bere ai cavalli, ai pomidori, all'insalata, a la pròsa di ingùri e di melòn. Tanto le angurie che i meloni non venivano molto grossi, ma avevano una deliziosa dolcezza. L'ea 'na pròsa da tegn d'occ perché c'era sempre qualche mano lesta e malandrina che se ne appropriava indebitamente. Per non dare nell'occhio, la pròsa di melòn, veniva impiantata in mezzo al granoturco, e dal granoturco veniva così facilmente mimetizzata. In un campo appena dopo il nostro venendo verso Samarate dove ci sono oggigiorno le robinie dello stabilimento Agusta confinanti con l'estremità sinistra di via Monte Santo si punse a un piede con un ramèn rùgin, l'Alfio Puricelli fiò dul Gadàn che per quella puntura morì di tetano nel 1934. Le piante di robinie che formavano le siepi erano molto alte e si congiungevano nelle cime formando una specie di corridoio coperto, una galleria nero verde dove era difficile penetrare ai raggi del sole e dove regnava sempre, oltre a un fresco invidiabile, una penombra che invitava al sogno e alla meditazione. Naturalmente sul far della sera e nelle luminose notti di luna, era la meta preferita delle coppie in cerca di solitudine per le loro effusioni amorose. La stracàsta ovverossia la straèla di murùs.
 
 
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07 Marzo 2024 - giovedi - sett. 10⁄067
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Notizie dal Villaggio
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Invers come ona pidria - Al rovescio come un imbuto
Il dialetto milanese descrive con un motto ironico e giocoso chi si presenta agli altri maldisposto, con un umore cattivissimo, tanto da risultare inavvicinabile. In questo caso si dice che la persona in questione è uguale a «un imbuto rovesciato» ed è meglio allontanarsene perché, se coinvolto in una qualsiasi conversazione, sarebbe capace di rispondere offendendo il proprio interlocutore.
La pidria è, infatti, un imbuto di grosse dimensioni, che non può per la sua stessa «natura» restare diritto. La sola maniera per far stare in piedi un imbuto è proprio quella di lasciarlo al rovescio rispetto al suo utilizzo, con la base rivolta a terra e con la punta in alto. Invers significa appunto rovesciato, in senso sia fisico sia umorale. Da questo traslato linguistico è nato il proverbio.
Per gli dèi e per la comunità. Deposizioni votive di spade nelle acque di fiumi e paludi
Anche nel territorio della cultura di Canegrate si manifesta un importante fenomeno cultuale ampiamente documentato in tutta Europa durante l'età del Bronzo e oltre: la deposizione a scopo votivo e il sacrificio di manufatti di vario tipo, specialmente armi e oggetti d'ornamento in bronzo, gettati nelle acque di fiumi, laghi e sorgenti.
È probabile che le cerimonie connesse a questo rito fossero celebrate dalla stessa aristocrazia, i cui maschi adulti erano seppelliti con la spada. Tali cerimonie si configurano, verosimilmente, come manifestazioni legate al mondo del sacro, alle quali potrebbero essere tuttavia sottese anche motivazioni di ordine sociale e politico.
Nel caso del recente ritrovamento di Turbigo, nelle acque del Ticino, è suggestivo ricordare che, ancora oggi, poco a sud del luogo della scoperta, un ponte è attraversato tutti gli anni dalle greggi transumanti, provenienti dalle Prealpi Lariane e dirette alla bassa pianura tra Pavia e Vercelli. In altri termini, non può essere esclusa una relazione tra il punto in cui avveniva il sacrificio e l'esistenza di ponti, guadi o linee di confine, nonché la possibile relazione con attività economiche come lo spostamento delle greggi, già praticato nell'età del Bronzo.
Altre spade provengono da Veduggio con Colzano (MB), località Cariggi, da Oggiono (LC), dal letto del fiume Adda presso Cassano d'Adda, dal letto del fiume Mera, all'uscita del Lago di Mezzola (Gera Lario, Olonio-CO).
...prendete la mia buona spada Excalibure portatela alle rive del lago: vi ordino di gettarla nell'acqua e di tornare poi a dirmi cosa avete visto...
La cà di me vecc
L'Eden della mia giovinezza, il giardino dove è cresciuto l'albero del bene e del male della mia vita. Vi sono nato, li ho imparato a muovere i primi passi, ho letto a sei anni i primi articoli della gazzetta dello sport, ho imparato a tracciare le prime aste con mano incerta, ho stentato a formare le lettere dell'alfabeto, il mio nome. Sul tavolo della cucina, aiutandomi colle dita delle mani, ho risolto le prime operazioni di aritmetica. Vegn chi patulott, cha ta proìi la tabelina. La tabelina era la tavola pitagorica. Tri par quatar. Ses par ott. Rispondevo con facilità e prontezza. Ero bravo nei conticini. Incò fa i pensierini cha l'e du dì che te i fè nò. E io paziente, nonostante la lunga malattia sofferta, con la cannuccia della penna in bocca per "esorcizzare" l'ispirazione, scrivevo con la mia scrittura un po' grossa ed irregolare due o tre paginette di pensierini niente male a non voler considerare le macchie d'inchiostro cadute tra pensierino e pensierino. Mi era maestra attenta e capace, nonostante non avesse frequentato che la terza elementate, mia madre. L'amore materno guidava e inventava con corretta approssimazione la sua sintassi e la sua grammatica. Poara dona. Per una grave broncopolmonite non ero in grado di frequentare la scuola e così il compito della mia istruzione era caduto nelle mani di mia madre. In di quatar mur du la cà ghe restàa seràa dentar la me us. La risenti ancamò cha la rispond ai dumand du la mama Cechina: dùdas quarantott, ventidù. Non erano, però, numeri da giocare al lotto.
Il lavoro dei milanesi (2⁄4)
M: Sai bene che stiamo parlando al maschile ma che vale tutto sia per gli uomini che per le donne, e soprattutto che nissun a Milan l'ha mai negaa l'importanza di donn anche nel lavoro, particolarmente al giorno d'oggi, nei negozi, negli uffici, ma anca prima staven mai cont i man in man, e quando non andavano a bottega, cercavano di fare qualcosa in casa, come sarte, modiste e altro, oltre beninteso a fare i lavori di casa, che giamò in de per lor hinn assee a renderle alla pari se non di più degli uomini. Ma ci sono anche altre doti che le donne milanesi sanno mostrare, come poeu vedaremm.
C: Certo, mi parlerai della moda, dello spettacolo, delle pubbliche relazioni... adess gh'hinn anca i influencer, ma l'è semper ai donn che ghe tocca de fa i fioeu e de tirai su, di fare tutte le cose di casa ed anche portare a casa uno stipendio. E poeu, se a quaidoeuna ghe ven in ment de fà quaicoss pussee, si mettono a criticarla perché significa che vuole fare la donna in carriera...
M: Anche per le donne le cose sono molto cambiate, e t'el set ben anca ti; indubbiamente, però, quello sul ruolo delle donne è un discorso che ci porterebbe lontano, ma te ghet reson a dì che quando si vuol parlare della donna milanese pensa subito alla bella signora che va in giro per via Monte Napoleone o ai bei tosann che trovi nei locali alla moda, che alternano vacanze a periodi di riposo, naturalmente sempre nei luoghi più esclusivi; alle quali, già da tempo, possono aggiungere le donne che ti ti e ciamet in carriera, che sono brave imprenditrici o svolgono mansioni manageriali anche ai massimi livelli.
C: Un tempo le donne di queste categorie erano poche e privilegiate, mentre oggi anche le donne diciamo così "comuni" hanno la loro milanesità, fatta di concretezza, disinvoltura, cosmopolitismo, savè vess semper a l'altezza de la situazion, fin da piscinitt. Ma comunque vale per tutti, donne e uomini: i milanesi hanno una cultura del lavoro che li porta a cercare quanto prima possibile di essere attivi e indipendenti e anche a non aver paura di rischiare.
M: Ancora oggi nelle scuole di Milano se te domandet a on fioeu o a ona tosa cosa vogliono fare da grandi nessuno o quasi parla di un impiego pubblico, e anche se poi non sono pochi quelli che lo cercano, è difficile sentire parlare di posto fisso. Del resto, la nostra è la tradizione della fabbrichetta o della bottega, che possono poi diventare anche industria o grande magazzino.
C: Forse è per questo che a Milano se dis andà a bottega invece che andare al lavoro... Ma, con questo insistere sul lavoro, voraria no che vegnissom sconfonduu cont i cines! Loro sì che hanno un vero culto del lavoro, mentre i milanesi cercano prima di tutto di vivere bene. Come diceva un nostro arcivescovo, bisogna lavorà per viv e minga viv per lavorà.
M: Bei paroll, indubbiament, ma te vivet mei se te lavoret ben, e Milano sa fare le cose bene e di qualità, e non per nulla è la città italiana più ricca di attività economiche, fabbriche grandi e piccole, imprese di ogni genere, sedi di importanti aziende, luoghi di incontro, fiere... tanto che siamo spesso definiti la locomotiva del Paese. Del resto, anche a livello europeo e finanche mondiale il così chiamato Distretto milanese o lombardo è uno dei più importanti ed apprezzati. Piuttosto, c'è da dire che un tempo quasi tutte le nostre fabbriche aggiungevano con orgoglio al nome della ditta quello della città (Bambilla Milano...), mentre oggi sembra quasi che ne abbiano vergogna. Il caso forse più eclatante è quello dell'Alfa Romeo, che è sempre stata co nosciuta con lo stemma di Milano, il Biscione e la Croce, circondato dalla scritta "Alfa Romeo Milano", ma da quando l'hanno regalata alla Fiat, il nome di Milano è sparito...
 
 
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08 Marzo 2024 - venerdi - sett. 10⁄068
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Mesterasc... danerasc - Il mestieraccio fa soldi
Molti modi di dire meneghini sono dedicati al lavoro e al guadagno che ne deriva. Questo si concentra in particolare sull'aspetto più umile, più faticoso del lavoro. Il mesterasc corrisponde infatti a tutte quelle imprese che nascono con stento, sgobbando, non adatte a chi è troppo schizzinoso. Grazie ai progressi tecnico-scientifici, oggi molti mestieri sono meno impegnativi, ma al tempo in cui il dialetto era la lingua corrente era frequentissimo impegnarsi come spazzacamini, facchini, contadini, stagnini, la vandaie e in un'altra miriade di compiti manuali. La città di Sant'Ambrogio ha sempre rispettato le per sone che lavorano onestamente, sporcandosi le mani ma non lo spirito e la coscienza. Anzi, le ha molto spesso ricompensate, tanto che i danerasc possono essere intesi sia come soldi (anche con un lavoro umile si può salire la scala sociale) sia come riconoscimento pubblico e ammirazione.
Marzo (1⁄4)
Narra una leggenda che i pescatori di Carate Lario, comune del co masco dal 1927 unito ad Urio, dopo ore di inutile attesa in mezzo al lago promisero, in cambio di una pesca abbondante, di far celebrare una funzione religiosa di ringraziamento in onore del santo ricordato quel giorno dal calendario; era il primo di marzo e si festeggiava S. Albino monaco e poi Vescovo di Angers, invocato come protettore dei bambini ammalati e dai non vedenti, la cui effige era custodita nella parrocchiale del paese. Detto fatto le reti si riempirono di pesci che in poco tempo colmarono le barche. Ma, come dice la sapienza di noster vècc: "La messa l'è longa se la divozion l'è corta!".
Nel tornare a riva, i pescatori, calcolarono che, con i soldi che avrebbero speso per mantenere la promessa, il guadagno si sarebbe dimezzato; smisero quindi di remare e con lo sguardo rivolto al cielo recitarono in coro: "S. Albino abbi pazienza, tu di messe puoi far senza, mentre noi con questi pesci, ci saziamo e siam felici!". Ma il santo non si lasciò commuovere, anzi, diede ordine ai pesci di tornare nel loro elemento e questi ubbidirono all'istante! Unanime però, fu anche la decisione dei pescatori che giunti a riva si diressero verso la chiesa e dopo essersi impadroniti della statua del santo la bruciarono sulla pubblica piazza. Per questa loro azione gli abitanti di Carate Urio sono tuttora chiamati dai paesi vicini: "brusasant", ovvero: bruciasanti! I caratesi rispondono:
"Ogni paes el gh'ha la soa usanza e quej che scherzen hinn senza creanza!".
Il primo giorno di marzo, in molte località lombarde, sopra un grande falò si bruciava "l'omm de paia" mentre tutt'attorno i giovani del paese si davano la voce cantando:
"Marsa Marsia, caval sensa bria, bria sensa sella, gh'è ona bella pivella. Cosa ghe dema in dotta? 'Na pell de vacca e ona pigotta, ona roda da mulin e per cossin? On sacch de spin!".
Questa filastrocca faceva parte del repertorio della "chiamata di marzo", evento che festeggiava la fine del periodo invernale e il tanto atteso ritorno della primavera. Ma la sapienza di noster vècc non è tanto convinta che marzo sia preludio alla bella stagione, soprattutto perché in questo periodo il terreno è ancora gelato e fangoso e di conseguenza lo si lavora a fatica, infatti: "Ul fréce marsulin al fà diventà matt ul cuntadin!" proverbio, però, mitigato da un altro più speranzoso: "La nev marzolina la dura no fin a la mattina!". Auguriamocelo perché, in questo periodo, in tutta la Lombardia, si preparano i campi alla semina.
"La bocca l'è minga stracca se no la sà de vacca!" (ogni pasto andava terminato con un pezzo di formaggio per, come si usava dire, "togliere l'unto", dei cibi troppo grassi).
Il quattro di questo mese la chiesa festeggia San Lucio I Papa, santo che però non ha niente a che vedere con il patrono dei formaggiai del quale parla una leggenda lombarda. Il nostro Lucio, di cui non si trova traccia nei due volumi di Piero Bargellini dedicati ai santi, secondo quanto riferito da Bagnoli nel suo libro sulle tradizioni popolari lombarde, sarebbe nato alla fine del secolo XIII in quel di Cavargna, località situata a 1071 metri d'altitudine, che dà il nome all'omonima valle in provincia di Como.
Le origini del culto dei Magi a Milano e Brugherio
In occasione della festività dell'Epifania, la chiesa ambrosiana celebra i Vespri con gran solennità a conferma delle proprie radici orientali. Le origini dei Re Magi sono tuttora avvolte da un alone di mistero; non si è certi da dove venissero (si presume dalla Persia), non è probabile che la famosa stella che seguirono fosse la cometa di Halley, anche la data del loro arrivo a Betlemme è controversa in quanto molti propendono per il 2 febbraio, giorno della festa della Candelora e per finire i loro nomi, attualmente conosciuti universalmente come Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, ai tempi di papa Benedetto XIV (1740⁄58) erano chiamati Ator, Sator e Paratoras, mentre i milanesi li chiamavano Dionigi, Rustico ed Eleuterio.
A Milano le reliquie dei Re Magi ci arrivarono nell'anno 325, come dono dell'imperatore Costantino ad Eustorgio per la sua consacrazione a vescovo di Milano; i corpi dei Magi erano stati ritrovati da Elena, madre di Costantino, e tumulati in un'unica arca di pietra con la scritta "Sepolcrum Trium Magorum" che troviamo ancora oggi nel transetto destro della basilica di Sant'Eustorgio a Milano, ma ora il loro sepolcro è vuoto.
Il furto avvenne il 10 giugno del 1164 per opera di Rainaldo, cancelliere di Federico Barbarossa, che riuscì a sapere dove i milanesi avevano occultato le importanti reliquie, nella speranza di riuscire a salvarle mentre Barbarossa metteva a ferro e fuoco tutta la loro città.. Rainaldo le localizzò nella canonica di San Giorgio a Palazzo e le trasferì a Colonia in Germania dove vengono oggi custodite in un'urna d'argento preziosamente lavorata, nella chiesa di San Pietro.
In seguito, importanti personaggi milanesi cercarono di ottenere la restituzione delle stesse, da Ludovico il Moro a Federico Borromeo, ma senza successo. Solo nel 1903, per opera del cardinal Ferrari, si riuscì a ottenere una piccolissima parte delle stesse, attualmente custodite in una nicchia, dentro un piccolo scrigno, sopra l'altare dei Magi, sempre in Sant'Eustorgio.
Durante il Medioevo, le città d'Occidente rivaleggiarono tra loro nell'opera di riesumazione dei martiri della fede. Fu convinzione comune che le reliquie avessero un potere taumaturgico, che preservava le città da guerre, calamità e pestilenze. Chi più ne disponeva, più era protetto. Ambrogio, vescovo di Milano, regalò tre dei preziosi ossicini dei Re Magi (per l'esattezza, falangi delle dita) alla sorella Marcellina, che nel 374 si era stabilita in una cascina di Brugherio dove venne eretta una chiesetta dedicata al futuro santo. Nel corso dei secoli successivi i tre ossicini rimasero intatti a Brugherio, pressoché dimenticati fino al 1613. Il 27 maggio di quell'anno infatti, le reliquie dei Re Magi vennero traslate dalla chiesetta di Sant'Ambrogio (attuale via dei Mille al confine con Cernusco s⁄N e Carugate) alla chiesa di San Bartolomeo nel centro di Brugherio, dove sono tutt'ora custodite ed esposte alla venerazione dei fedeli ogni 6 gennaio.
La venerazione dei Magi, già diffusa nel territorio, si estese maggiormente.
Nel 2013 la locale comunità pastorale Epifania del Signore ha voluto festeggiare in grande stile l'anniversario, con una ricca rassegna di eventi, tra cui il corteo storico in costume, ripercorrendo il percorso effettuato allora dal carro che trasportava le reliquie, l'inaugurazione di un altare per permetterne la venerazione continua, il restauro del grande organo Tornaghi, la pubblicazione del libro di Luciana Tribuzio Zotti e Giuseppe Magni Una città nel segno dei Magi, che illustra la storia di Brugherio nel 1613 con un contributo dello storico Franco Cardini, per concludere con la messa officiata dal cardinale Angelo Scola. E poi nel giorno dell'Epifania, come da secoli dicono i brugheresi, "andém a basàa i umitt", un'espressione dialettale che sottintende l'usanza di mandare devotamente e affettuosamente tre baci verso il reliquiario dietro l'altare maggiore. L'espressione "umitt" (o piccoli uomini) è suggerita dalle tre sculture del reliquiario, che ritraggono i Magi inginocchiati.
 
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09 Marzo 2024 - sabato - sett. 10⁄069
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La storia di Busto e le sue relazioni - capitolo 7 (5⁄10)
Alberto Bossi, che vide questi tempi, così ne parla:
Inoltre a mezza estate, quando la messe già era matura - non lontano da Busto, nubi tempestose coprirono il cielo ; donde un grandissimo arco, più nero della fuliggine il cielo aperto si protendeva lontano, e attraverso scendeva fino a terra; e terribile fuoco e fiamme gettava da un'estremità.
Peste abbastanza crudele (ne venne); e un improvviso terrore ai villani. Poichè spezzò le annose quercie e asportò i frutti - incendiò i campi e tutto rovinò - agli agricoltori.
Questo fatto straordinario avvenne anche nel 1502 e fu accompagnato secondo alcuni da uno, secondo altri da un altro prodigio.
Il medesimo Bossi così riferisce :
Passati i mesi del verno e uno dell'estate- quando i Galli, che tentavano di prendere di nuovo - Napoli, furono sconfitti ed uccisi dagli Spagnoli, - I pulcini due volte cantarono dall'uovo con sonoro carme per cinque giorni in Busto; tacquero nè più i parchi galli cantarono le esequie dei Galli (1).
A questi presagi tennero dietro molte sventure. Tra le altre si racconta che sia accaduta questa.
(1) Il poeta allude alle guerre tra Francesi e Spagnuoli per la divisione del Napoletano stabilita con il trattato segreto del 1500 tra il re di Francia Luigi XII e il re di Spagna. - Un episodio celebre di quella guerra è la Disfida di Barletta. Quanto ai pulcini che ancora nel guscio cantano le esequie dei Francesi, il lettore giudichi e..... sorrida.
Mentre imperava a Milano Luigi XII re dei Francesi, gli Svevi, spinti dal papa Giulio II contro quelli, perchè gli avevano tolto Bologna, dai monti, in cui s'erano posti, discesero più d'una volta a predare; e sebbene Gastone di Foix li avesse respinti due volte e costretti a ritornare in Germania, discesero ancora in Italia e se ne vennero dapprima a Varese, poi a Gallarate e finalmente, con mentito cammino, quasi si dirigessero come amici verso i Francesi, vennero a Lonate. Ma essendo venuti per spogliare le case e per fare distruzioni, si rivolsero a Busto dove vi era un gran numero di Francesi che custodivano il borgo per il loro Re. Questi, essendo liberi dal timore della guerra, avevano lasciate prive di guardie le porte e per il freddo intensissimo se ne stavano rinchiusi nelle case, disarmati e in preda al sonno. I Tedeschi, venuti nascostamente, occuparono fosse e porte e, sopraggiunta l'aurora, si misero a scorrazzare con grande clamore per le strade del borgo e a predare svergognatamente. Subito il clangore delle trombe chiamò i Francesi alla battaglia, ma, sebbene ne accorressero molti, non essendo ordinati in schiera e andando qua e là all'impazzata, furono ferocemente trucidati dai Tedeschi che, serrati in ordinanza, li assalivano. Soli si salvarono quelli che lasciato denaro, cavalli, indumenti e ogni prezioso arredo si diedero prontamente alla fuga. Dei borghigiani moltissimi patirono crudelissime e turpissime sevizie, altri si rifugiarono nei boschi, nelle grotte e nelle valli e traversarono il Ticino e l'Olona. Le donne e i fanciulli li salvò la Chiesa, i sacerdoti non la veste ma unicamente la tonsura.
Ma non solamente il borgo di Busto soffrì questi mali; anche i luoghi vicini e i sobborghi della città di Milano ne furono colpiti.
Di questi fatti fu testimone oculare Alberto Bossi che nel suo libro intorno ai prodigi avvenuti prima dell' arrivo dei Francesi, li assegna all'anno 1511. L'anno dopo, il Pontefice Giulio II, che fu chiamato vindice e liberatore dell' Italia, con l'aiuto dei Tedeschi e dei Veneti, costrinse Palissa (1), zio paterno del re dei Francesi, a ritornare in Francia e Massimiliano Sforza ricuperò il ducato Milanese. Questi lo conservò fino al 1515 finchè Francesco, re dei Francesi, dopo una violentissima battaglia presso Melegnano, ricevette per la prima volta la città stessa dai Milanesi. Massimiliano, abdicato a ogni diritto paterno, consegnò la rocca, che Pietro Navarro, per comando di Francesco, già da trenta giorni assediava, e tutte le altre sue possessioni con la condizione che a sè ed ai suoi soldati fosse concesso di aver salva la vita e di portar via dalla rocca ogni suppellettile che non fosse di guerra; inoltre il re si obbligò a pagargli ogni anno trenta- cinquemila scudi d'oro.
Te set andaa a scœula de giovedì - Sei andato a scuola di giovedì
Con questo proverbio, a Milano si classificava una  persona come ignorante, incompetente oppure, più bonariamente, come inesperta.
Per comprendere la perifrasi bisogna tornare all'epoca del Regno d'Italia e del fascismo, quando i giorni di apertura e chiusura delle scuole dell'obbligo non erano uguali a quelli odierni. La scuola restava infatti aperta dal lunedì al mercoledì e si riprendevano le lezioni dal venerdì al sabato. Oltre alla consueta festività domenicale, infatti, anche il giovedì era riservato al riposo degli alunni.
Apostrofare qualcuno dicendogli te set andaa a scæula de giovedì significa pertanto dirgli che ha studiato soltanto... nel giorno in cui la scuola era chiusa!
Le spade: modelli comuni, variazioni locali. Da Monza a Canegrate (XIV-XIII sec. a.C.)
Nel panorama delle spade finora note sono documentate varie tipologie che prendono il nome dalla località del primo ritrovamento. Talvolta rimane tuttavia incerto l'inquadramento tipologico degli esemplari frammentari che provengono da contesti funerari, dove si possono presentare bruciati e defunzionalizzati.
Tra le spade della cultura di Canegrate sono particolarmente caratteristiche quelle a lama lunga e stretta con codolo filiforme (tipo Monza) e quelle con codolo piatto e triangolare con tre o quattro fori per ribattini (tipo Rixheim). La variabilità di una serie di tipi intermedi dimostra la stretta affinità tra le spade tipo Monza e tipo Rixheim.
Tra queste forme intermedie si riconoscono gli esemplari inquadrabili nel tipo Cattabrega. Vi appartengono le spade ritrovate a Turbigo, Cassano d'Adda e Oleggio (NO), forse prodotte da officine indipendenti. Esse, pur ispirandosi a tipi di riferimento comuni, esprimevano gusti ed esigenze locali che spiegherebbero l'alta variabilità dei tipi.
Dalla necropoli di Canegrate provengono anche spade caratterizzate da lama più corta con espansione verso la punta, che sembrano indicare una evoluzione formale e funzionale relativamente più tarda.
VI RAVVISO O LUOGHI AMENI...
La colonia e la sdraja
E' vedendo in un angolo inutilizzabile la mia vecchia sdraia in queste piovosissime giornate di fine giugno, che mi è tornata alla memoria la colonia. Quanto sole e quanto leggere nel corso di una lunga giornata in mezzo a cento bambini e ragazzi; quanto giocare, quanta spensierata irrefrenabile allegria. E quanto vociare e sudare, sempre in movimento. Era più o meno dove adesso ci sono le scuole medie di via Giosuè Borsi. Portavamo il cestino della merenda? Non ricordo. Era la nostra spiaggia, la nostra riviera. A due passi da casa. Senza bisogno di prendere il treno. Quanti anni ci sono andato? Due, tre, quattro? Anche questo non lo ricordo con precisione. Ci ha pensato la guerra a distruggere il nostro castello fatato. Non più bagni di sole, merende all'aria aperta, non più giochi fatti nella più sfrenata gioia e libertà. All'innocenza dei bambini, alle grida, alle corse si sono sostituite le divise, le armi, le assurde e infami necessità della guerra. Soldati tedeschi e deposito di armi, di materiali e vettovaglie. Ogni ben di Dio se si considerava che i civili tiravano la cinghia. Tesserato il pane, la pasta, l'olio e il sapone. Dopo la guerra, il 25 aprile. Come per un colpo di magia, in quattro e quattr'otto, è sparito tutto. Hanno svuotato i depositi, hanno fatto man bassa di tutto. Tutto volatilizzato. Non c'è stato nessuno a rubare: dicevano gli eroi autori del misfatto. A noi è restato il ricordo del sole, dei giochi della nostra fanciullezza che lo scoppio della "tragedia inutile" ha all'improvviso cancellato dalla nostra vita. La colonia, la sdraja, 'I su, la cumpagnia (i tanti compagni morti, dispersi nel mondo, dimenticati) ma sopratutt ul temp perdùu che solo la magia della memoria può ritrovare e far rivivere come momento indimenticabile e capitale del nostro esistere.
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10 Marzo 2024 - domenica - sett. 10⁄070
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Semm in man del pojan - Siamo negli artigli del nibbio
nel dialetto meneghino chiama pojan il nibbio. Si tratta di un uccello rapace che si può scorgere spesso nelle campagne della pianura padana: vola in cerchio cercando le prede sulle quali gettarsi in una picchiata repentina, per ghermirle con i forti artigli e trasportarle nel suo nido. Nel gergo popolare el pojan corrisponde all'usuraio, allo strozzino, alla persona famelica e impietosa. Per aver fornito un piccolo aiuto - certo non dettato da generosità - pretende indietro somme inaudite, compensi non  dovuti e perseguita i malcapitati finiti nella sua sfera d'influenza. Costoro si disperano perché, nelle man del pojan, si sentono come un passerotto nelle grinfie di un nibbio: senza alcuna speranza. Guai ad avere a che fare con el pojan in carne e ossa: il volatile è indubbiamente più onesto e pietoso.
Marzo (2⁄4)
Lucio fin da ragazzo, divenne esperto nel condurre le mandrie al scolo, imparando anche l'arte di lavorare il formaggio; non vi era povero che bussando alla sua baita, non ricevesse in dono un pezzo di caciotta e una ciotola di latte appena munto. Per la sua missione a favore degli indigenti e dei malati, lo fecero santo e, nel giorno della sua festa, numerosi fedeli si recavano nella chiesa milanese di S. Bernardino alle Ossa, sostando in preghiera davanti al dipinto che raffigura un uomo alto e barbuto nell'atto di distribuire latte e formaggio ai poveri; quell'uomo è San Lucio che, oltre ad essere il patrono dei casari, lo era anche dei lattai, che poi gli preferirono S. Giorgio!
"Ogni ann gh'è on carnevaa e ona quaresima!" (Ogni anno ha il suo carnevale ma anche la sua quaresima). Lo si dice con rassegnazione alludendo al trascorrere lieto, ma anche triste, del tempo.
Passate le Sacre Ceneri, finito il carnevale ambrosiano, che mantenendo l'antica tradizione dura quattro giorni di più, eccoci alla prima domenica di quaresima. In uno dei preziosi almanacchi, editi dalla Famiglia Meneghina, nella rubrica Fiere, feste tradizionali e pie consuetudini trovo scritto: "Con l'inizio della quaresima, nelle chiese tacciono gli organi. In Duomo l'Arcivescovo canta i Vespri non con il Piviale ma con la Pianeta usata per la Messa".
Questa usanza fu introdotta da San Carlo Borromeo, il quale constatando che il Governa tore spagnolo permetteva di continuare, nella prima domenica di quaresima, gli schiamazzi carnevaleschi sul sagrato del Duomo, pensò ad uno stratagemma per richiamare all'interno della cattedrale quella moltitudine. Lo trovò uscendo dall'Arcivescovado, accompagnato da un collegio di sacerdoti, vestito di Pianeta.
Il popolo incuriosito dalla novità, lo seguì all'interno del Duomo; quando la chiesa fu gremita, il santo sali sul pulpito e, con una memorabile predica, convinse i presenti che i giorni di quaresima debbono essere giorni di penitenza, non ridanciani, invitandoli ad una solenne processione riparatrice e ottenendo ciò che non aveva mai potuto avere emanando uno dei suoi famosi veti:
"Durante il carnevale si fa divieto di usare abiti simili a quelli che portano le persone ecclesiastiche. E non vi sia persona alcuna che ardisca, mascherata o senza maschera, gettare contro porte, finestre, carrozze e dame: ova!".
Ecco un proverbio che accenna al tempo quaresimale consacrato al l'astinenza e al regime vegetariano:
"Da Natal a Pasqua, tutta l'erba la diventa insalada!".
In contrapposizione con un altro che recita: "Quaresima e presòn, i è fate per i coiòn!" evocante il magro raccolto che costringeva a digiunare chi non conosceva l'arte di arrangiarsi.
"Quand la quaresima la tocca tri més, nas la robba anca sui scés!". Era voce comune, tra la popolazione delle nostre campagne, che quando la quaresima toccava tre mesi, si ottenesse un buon raccolto.
Il primo venerdì di marzo è quasi sempre un venerdì quaresimale; in questo giorno, nei secoli XVII e XVIII a Milano era tradizione visitare sia la chiesa di San Marco che quella dedicata a S. Maria dei Miracoli presso San Celso dove si conservano due preziosi crocifissi; lo faceva anche la Marchesa Donna Fabia Fabron de Fabrian, stupendamente descritta da Carlo Porta nella sua celebre poesia La preghiera:
Il lavoro dei milanesi (3⁄4)
C: Se l'è per quell, gh'è sparida anca la fabbrica! Ma succede anche nella moda, dove da tempo siamo i primi della classe ma continuiamo a guardare compiaciuti "Jean JeanParis" piuttosto che "John John-New York" e quasi mai si legge "Milano" accanto al nome dei nostri più affermati stilisti. Forse perché, al giorno d'oggi, il concetto di lavoro non è più quello di un tempo, come tante altre cose del resto, quando c'era la soddisfazione di vedere il prodotto fabbricato con le proprie mani in un tal luogo e di sapere sarebbe durato una vita, mica l'usa e getta ormai imperante... Guarda per esempio i nostri tram: ghe n'è in gir ancamò quaidun che ha quasi 100 anni e, forse, sono ancora migliori di quelli più recenti.
M: I robb hinn cambiaa e anca tanto in svelt, e il lavoro manuale, la manifattura, così come l'agricoltura producono tantissimo con pochissimi lavoranti, e così abbiamo sempre più cose che hanno prezzi che ribassano ma che durano anche meno e, se se s'ceppen, costa pussee giustai che toeui noeuv. Ma questo non è del tutto vero per Milano, che se è tornata a crescere lo deve proprio alla qualità di quello che vi viene fatto, moda, design, servizi... solo che i nostri fabbricanti, pur conosciuti e stimati in tutto il mondo, sembrano non ancora del tutto convinti che aggiugere "fatto a Milano" (made in Milan) ai loro prodotti sia un qualcosa che ne migliori l'immagine.
C: E infatti si vedono solo magliette con scritto I love New York, J'aime Paris e così via, ma mai "Io amo Mila- no". Però forse i milanesi gh'hann minga bisogn de maiett per fass vede. O forse Milano è considerata ancora una città provinciale...
M: Certo, seguitom semper a fà fadiga a vess ben valutaa in Italia, figuremess foeura, e poi anche noi milanesi siamo ammalati di esterofilia, e così qualche rara maglietta con su il nome di Milano la si vede solo in pochi chioschi attorno al Duomo, ad uso e consumo dei turisti stranieri. Ma l'è minga el caso de ciappassela tropp... La figura del milanese che lavora, che è sempre impegnato a far qualcosa si è stata dagli operai e dalle operaie che riempivano le fabbriche al suono delle sirene ai signori vestiti di scuro e con le scarpe lucide e alle donne sempre alla moda e scarpe col tacco 12 che si muovono indaffarati tra un ufficio, un convegno, una fiera, un pranzo di lavoro...
C: Se l'è per quest, incoeu vann de moda anca i scarp de tennis, che a me ricordano il barbone di Jannacci e invece adesso si chiamano sneakers; oppure i pantaloni stracciati che se li vedesse qualche vecchio dei nostri tempi si domandereb be se semm diventaa inscì poveritt de andà in gir inscì con sciaa da non poterci permettere neppure un paio di pantaloni nuovi o, almeno, di rammendarli! E pensare che, fino a non così tanto tempo fa, la divisa dei milanesi era appunto la tuta...
M: Esageremm minga! Certo le fabbriche che alle 7 della mattina, o anche prima, suonavano le loro sirene e mettevano in movimento centinaia di migliaia di persone sono state l'emblema della Milano operaia, ma si lavorava anche nelle botteghe, negli uffici, nei negozi e in tutte le attività che fanno vivere una grande città.
C: Adesso le migliaia de operari gbhinn pu, ma il Salone del Mobile del 2019, quello prima del Covid, ha avuto in una settimana 380mila visitatori, ed il primo dopo il virus, nel 2022, 260mila. E numeri sempre molto alti li hanno anche tutte le altre manifestazioni che hanno ripreso alla grande dopo la pandemia, con gente che viene da tutto il mondo, anche se, per un motivo o per l'altro, adesso mancano russi e cinesi.
 
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