RVG settimana 07
 
Radio-video-giornale del Villaggio
Settimana-07 del 2024
 
 
RVG-07 - da  - Radio-Fornace
 
Settimana 07       2024-02-12 -  Febbraio - Calendario - la settimana
12/02 - 07-043 - Lunedi
13/02 - 07-044 - Martedi
14/02 - 07-045 - Mercoledi
15/02 - 07-046 - Giovedi
16/02 - 07-047 - Venerdi
17/02 - 07-048 - Sabato
18/02 - 07-049 - Domenica
 
12 febbraio 2024 - lunedi - sett.07/043
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Proverbi della tradizione meneghina
Ci sono temi e insegnamenti sempre attuali che riconoscono il valore dell'impegno e dell'intraprendenza contro la rinuncia e il pessimismo
El milanes del dì d'incoeu
Tralasciando le origini celtiche, etrusche e latine e i molteplici contributi delle occupazioni lon gobarda, franca e teutonica nel Medioevo e di quelle ispaniche, austriache e francesi dal 1600 al 1800 (dopo la fine del periodo delle signorie), si usa prendere come fonte primigenia del dialetto milanese il testo Varon milanes de la lengua de Milan, stampato a Milano nel 1750 da Gian Giacomo Como insieme a El Prissian de Milan de la parnonzia milanesa, i cui autori sono rispettivamente l'ossolano Giovanni Capis e Giovanni Ambrogio Biffi.
La lingua comunica informazioni, sentimenti, concetti, bontà, cattiverie, carattere dei popoli ed emozioni attraverso il teatro, o la canzone, fatta di testi e musica. La lingua evolve con la mescolanza di culture, con le migrazioni dei popoli, con le occupazioni militari e con le attività economiche dell'uomo, che mutano con nuove invenzioni e con esigenze sociali, politiche e civili.
L'italiano casalingo a Milano era, fino al primo Novecento, infarcito di milanesismi (è questo, per esempio, il motivo per cui Alessandro Manzoni sentì come necessaria la proverbiale «risciacquatura in Arno» dei suoi <<panni>>). Con le migrazioni interne, il milanese si è arricchito di tanti neologismi dialettali generando così una lingua sui generis, una sorta di italo-milanese con cadenze e assonanze che prendono in prestito parlate di altre regioni, specie del Sud Italia. Nella seconda metà del Novecento hanno avuto influenza sulla parlata milanese molti autori, cantanti, attori come Dario Fo, Nanni Svampa e i Gufi, Piero Mazzarella, e molti altri, spesso usciti da quella fucina di comici che fu il Derby Club.
Hanno dato il loro contributo in merito anche alcuni attori di teatro dialettale milanese che hanno militato tra le file della Famiglia Meneghina, spesso collocandosi sulle tracce dei repertori dei grandi autori e attori della altrettanto grande stagione del teatro milanese (quella che tra il 1870 e il 1900 vide protagonisti Edoardo Ferravilla, Edoardo Giraud, Gaetano Sbodio, Dina Galli e tanti altri): stiamo parlando di Maria Pia Arcangeli, Liliana Feldmann, Evelina Sironi, Enza Pria, Angelo Fusar Poli, che hanno interpretato e valorizzato un milanese prevalentemente popolare ma lessicalmente molto rigoroso.
Anche questa collana di libri, che fa seguito a quella dei tre già pubblicati nel maggio 2021, sembra aver fatto affiorare un fiume carsico, che è andato via via ingrossandosi, portando a conoscenza di molti milanesi un patrimonio ricco e sconosciuto che, a tutti gli effetti, appartiene a loro, formato da lessico, proverbi, detti, mestieri, storie e leggende.
Non possiamo dimenticare un fenomeno attualissimo e straordinario rappresentato da un intraprendente giovanotto milanese, Valerio Saccà, che con la sua Compagnia Burattini Aldrighi gira il mondo mettendo in scena i burattini che lui stesso crea, utilizzando un milanese italianizzato.
In conclusione, ritengo che oggi possiamo essere moderatamente ottimisti circa la riscoperta, il risveglio, o la rinascita (comunque la si voglia chiamare) del milanese, in particolare di una parlata milanese che, come ho detto nel titolo di questo mio contributo, è quella del dì d'incoeu, cioè una miscela arricchita di molti lemmi provenienti da culture diverse. E non li dobbiamo guardare con il severo occhio critico del purista o del cruscante, ma prenderne atto con la schiettezza che è tipica del milanese, come si fa con ogni nuovo fenomeno.
La cultura di Canegrate. Territorio e cronologia
Rittatore propone di utilizzare i ritrovamenti e il toponimo di Canegrate per definire un'intera cultura. Ma cosa si intende per cultura? Nella letteratura archeologica, e in particolare nello studio delle popolazioni preistoriche, questo termine o quello più generico di facies archeologica definiscono un specifico complesso di resti - tipologie di manufatti, utensili e ornamenti; abitazioni e riti funerari - costantemente associati a un'area geografica limitata.
Le caratteristiche delineate per la necropoli di Canegrate trovano diffusione in un areale che comprende la Lombardia occidentale, la provincia di Novara e parte di quella di Vercelli, con una particolare concentrazione lungo l'asse del Ticino e del lago Maggiore. Necropoli e gruppi di tombe della cultura di Canegrate sono stati scoperti anche in Canton Ticino, nel Sottoceneri, a Locarno e nei dintorni di Bellinzona. Rispetto alla precedente cultura della Scamozzina, ampiamente diffusa nella media e bassa pianura, quella di Canegrate sembra prediligere l'alta pianura e l'area prealpina e alpina.
Dal punto di vista cronologico si colloca nella fase convenzionalmente definita come Bronzo Recente, che corrisponde grossomodo al XIII secolo a.C. e in Italia settentrionale coincide con l'ultimo periodo di vita delle palafitte del lago di Garda e delle terramare (villaggi arginati caratterizzati da abitazioni su impalcato ligneo, ma all'asciutto).
Se da una parte non sono ancora chiare le origini di questo gruppo culturale, dall'altra appare evidente che il territorio da esso occupato non subisce con il passare dei secoli estesi fenomeni di spopolamento. Nel passaggio dal Bronzo Recente al Bronzo Finale (XII-X secolo a.C.) non si registrano cesure nella documentazione archeologica, ma si ravvisano al contrario elementi di continuità: la più antica ceramica del Bronzo Finale presenta una stretta parentela con quella di Canegrate, da cui sembra derivare per un processo graduale e senza interruzioni. La medesima continuità si registra anche a livello geografico, poiché l'areale di distribuzione di questi elementi prefigura quelle che saranno la provincia occidentale e la provincia alpina della futura cultura di Golasecca.
Si può dire anzi che Canegrate mostra alcuni caratteri di celticità, elemento poi distintivo dei Golasecchiani.
VI RAVVISO O LUOGHI AMENI... - Ul lazarett
In antico: ospedale dei lebbrosi, appestati e colerosi, luogo di quarantena. Famosi i lazzaretti rievocati nelle pagine dei Promessi Sposi. Il lazzaretto di Verghera è luogo di sepoltura dei morti delle varie epidemie di peste succedutesi verso la metà del 1600.
Il posto è squallido e negletto. Si trova a fianco del lato maggiore sud del nuovo campo sportivo di via di Vittorio. Tre cipressi posti agli apici di un ideale triangolo simbolo forse della divina Trinità ricordano la sacralità del luogo di sepoltura dei nostri antenati morti di peste. Perché è sempre restato misconosciuto? Perché non vi si è costruito un piccolo altare di pietra? Perché non sono mai state riesumate le ossa gettate nella fossa comune alla rinfusa dando loro una onorevole sepoltura? Quando ero bambino i nostri vecchi parlavano del luogo con molta riverenza. Passandovi davanti si scoprivano con religiosa deferenza il capo e, mormorando una preghiera, si facevano il segno della croce.
Nei momenti di maggiore difficoltà i nostri nonni si rivolgevano, nelle preghiere quotidiane ai morti del Lazzaretto per chiedere aiuto e protezione. Ricordo anche che quand'ero bambino nel mezzo del terreno racchiuso dai tre cipressi c'era una croce di ferro alta due metri e più, molto simile a quelle della via della casìna dul pred.
Il pugnale alfieriano - (21-22 agosto 1876)
Lo scalpellino Dom... Vincenzo ieri depose gli scalpelli e afferrò litri e bevve e bevve fino a quel punto in cui la ragione fa viaggio. Gridò, tempestiò, e armato d'un pugnale alfieriano si mise a minacciare come un ebbro eroe da scena i suoi spettatori che anziché applaudirlo, ridevano a vederlo. Lo scalpellino si avventò d'improvviso contro un avventore dell'osteria accusandolo di avergli rubato del denaro; ma ubbriaco fracido com'era, il pugnale gli si infisse nei ginocchi. Fu arrestato e trasportato nell'infermeria delle carceri criminali: e ciò va bene.
Ladro di lenti - (5-6 marzo 1877)
Da qualche tempo le famiglie degli estinti non potevano più collocare sulle croci e sulle tombe dei cimiteri le fotografie dei loro cari defunti, perché i ladri sacrileghi le rapivano colle lenti, che servivano ad ingrandirne le sembianze. Nel Cimitero di Porta Venezia si stabilì alla fine una speciale sorveglianza, e ieri si colse il marmista Giovanni Monti nel punto che stava distaccando lenti e ritratti da un monumento. Fu perquisito, e in tasca gli furono trovate parecchie lenti rapite ad altre tombe. Fu arrestato e sarà punito.
 
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13 febbraio 2024 - martedi - sett. 07/044
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Toponimi di Cazzago Brabbia
11) Funtana: zona nei pressi del Lago di Varese che un tempo ospitava un lavatoio al coperto, utilizzato soprattutto nella stagione invernale, alimentato da una fonte naturale. da cui il suo nome.
12) Gaggiette: area a est rispetto al centro del paese, bagnata da un fiumiciattolo detto Riale. Il toponimo, con formazioni diverse, è largamente attestato in tutta l'area alto-milanese (cfr. Gaggiolo frazione di Cantello -VA-, Gazzada -VA-)78. L'origine del nome è da ricerarsi presumibilmente nel termine gajum del latino medievale che continuava a sua volta il longobardo gahagi con il significato di "bosco chiuso da una siepe o da un recinto ". Nel dialetto locale è detto gäsg. Da notare come anche in Valcamonica il gas indichi il bosco.
13) Goré: attestato anche come Gurée. Dovrebbe indicare un luogo con una fitta presenza di salici, da *gorra "salice" più il suffisso di collettivo -etum (cfr. Gorreto -GE)Non è da escludere la possibilità che il toponimo derivi dal latino gaurus "fosso, acquitrino' passato poi al latino medioevale goretus, propriamente il luogo dove crescono i giunchi. Il terreno si colloca a sud ovest del paese tra il Fosso di Mezzo e il fiume Brabbia
14) Laghetto della Fornace: piccolo spechio d'acqua che si staglia nel centro della palude e che è alimentato dal Fosso di Mezzo. Questo laghetto era un tempo la cava dove avveniva l'estrazione dell'argilla utilizzata nella vicina Fornace per la realizzazione di mattoni. Una volta dismessa la cava, le acque piovane e i rigagnoli circostanti l'hanno riempita dando vita al Laghetto.
15) Mottarello: in dialetto è detto Mütarèl (v. Cadrezzate n. 15). Il termine designava un monticello ora non più presente a causa di una spianata effettuata negli anni '50 del secolo scorso, per agevolare la costruzione della strada che costeggia a sud il Lago di Varese.
16) Paludi di Mara: vasta zona inserita nella palude Brabbia dove da sempre si estrae torba. Mara è la storpiatura cancelleresca del termine dialettale Mar di probabile derivazione celtica, infatti mara in celtico è la "palude" (cfr. longobardo marisk "palude"). Nei pressi troviamo anche il toponimo Marèl che ne è il diminutivo (piccola palude).
Proverbi - Commercio, risparmio ed economia
A comprà s'impara a spend, e anca a vend. Comprando si impara a spendere, ma anche a vendere. - A pagà e morì s'è semper i n temp. - A pagare e a morire si è sempre in tempo.
A pagà prima s'è mai servii.
Se si paga in anticipo non si è mai serviti. - A vend per el besogn se ghe perd semper. Se si vende per necessità ci si rimette sempre.
Besogna vardass del bon mercaa per no restà bolgiraa. Bisogna guardarsi dal vil prezzo per non essere frodati.
Chi gh'ha soci, gh'ha padron. Chi ha soci ha padroni.
Chi impresta, perd la vesta. - Chi presta perde anche l'abito.
Chi ha imprestaa, va a fraa. - Prestando si rischia di diventare poverelli come un frate.
Chi mangia la gaina di olter, impegna la soa. Chi mangia la gallina altrui impegna la propria.
Chi paga el debit, perd el credit. Chi paga il debito perde il credito.
Chi paga subet, paga doppi. - Chi paga subito paga il doppio.
Debit de massee, investidura de patron. - Il mezzadro indebitato con il padrone è sicuro di non essere licenziato.
Mè pader e mè missee barbetta, m'han lassaa per testament, de dà mai nagott a cretta. Mio padre e mio nonno mi hanno lasciato per testamento di non dar mai nulla a credito.
El bon mercaa el strascia la borsa. - Il poco prezzo rovina la borsa.
El primm guadagn l'è comprà ben. - Il primo guadagno è comperare a buon prezzo.
Negozzi squaiaa, l'è mezz sassinaa. Un affare divulgato è mezzo rovinato.
Dove vivevano? - Gli abitati dell'età del Bronzo Recente
La documentazione principale riferibile alla cultura di Canegrate proviene dalla scoperta di tombe e necropoli, mentre sono rari gli abitati finora identificati, nessuno dei quali oggetto di scavi scientifici. I dati a disposizione sono dunque molto lacunosi e mancano informazioni precise sulle strutture abitative, sull'estensione dei villaggi e sull'economia primaria (agricoltura, allevamento, attività mineraria).
Una delle poche testimonianze riferibili a un insediamento si colloca proprio a Legnano, in località Gabinella, tra via per Castellanza e la prosecuzione di via Roma. Nel corso degli anni Ottanta sono stati effettuati alcuni piccoli saggi di scavo che hanno permesso di identificare strutture in ciottoli, interpretate come supporti per l'essiccamento dei vasi prima della cottura e quindi associate ad attività artigianali, e un muretto di ciottoli a secco che poteva costituire una recinzione.
Presumibilmente, le abitazioni erano costruite in materiale deperibile, legno, argilla e paglia. Resti dicapanne sono stati individuati a Garlasco (PV), in località Boffalora, a Ponzana (NO) e Lumellogno (NO), ma troppo scarsi per proporre una ricostruzione. Si conservano frammenti di intonaco d'argilla con tracce del tavolato ligneo del pavimento o delle ramaglie con cui erano fabbricate le pareti.
Tracce di un abitato, ovvero buche di palo o semplici aree con dispersione di materiale ceramico, sono state individuate in località Bosco del Monte a Castelletto Ticino (NO) e a Vedano Olona (VA). Materiale sporadico è stato recentemente recuperato in superficie a Solaro (MI).
Anche nel Canton Ticino i dati relativi agli insediamenti sono piuttosto rari: provengono da uno scavo effettuato negli anni Quaranta al Castello di Tegna in Valmaggia e da alcuni ritrovamenti più recenti in Val Mesolcina, sul pianoro di S. Maria di Castello e lungo il versante settentrionale (Grotto) e meridionale (Cugias).
I tre crus e la cà squaràa
Le tre croci e la casa crollata. Croci di ferro alte due metri poste a distanza di cinquecento metri una dall'altra sulla via, che passato il cimitero, porta alla casìna dul pred ora cascina Tangitt. La prima croce è ancora intatta e visibile all'incrocio segnato da due pietre miliari con l'indicazione della direzione di marcia. Su una le freccie indicano la direzione Busto e Arconate, sull'altra di Verghera e Gallarate. La seconda croce era un po' prima della curva e la terza un po' dopo la curva che il sentiero faceva in prossimità della cà squaràa di proprietà dei Tonetti Rumana. Detto cascinale di campagna era servito per il rifornimento di materiale da costruzione per una casa che i Rumana poi costruito altro posto. Quell'appezzamento era stato per lungo tempo lavorato dal Pàcio Bonardi nativo del paese bergamasco da dove veniva anche mia madre. Era un tipo molto singolare di contadino timorato e di galantuomo. Amava, con schiettezza un buon bicchiere di vino e qualche volta stracimava, lasciandosi prendere la mano dall'affetto un po' esagerato per Bacco. Era astemio in maniera assoluta per tutto il periodo della Quaresima; non toccava vino anche se la tentazione  fosse venuta dal capo dei diavoli in persona. Il posto dove stavano erette le croci era luogo di culto e di preghiera. Il giorno di San Marco, 25 aprile, tutti gli anni una processione partendo dalla chiesa arrivava fino alla terza croce dopo aver sostato in preghiera davanti alle altre due. Era la processione che si effettuava ogni principio di primavera per impetrare dal cielo un anno di messi feconde, per invocare principalmente l'acqua necessaria alle nostre campagne, prive di irrigazione, per la loro prosperità. La processione usciva dalla chiesa alle sei del mattino e il concorso della folla era strabocchevole. I vergheresi lavoravano sì, nelle industrie, ma l'agricoltura era pur sempre una specie di lavoro aggiunto, necessario per arrotondare la paga e consolidare la loro situazione economica. Ad petendam pluviam era la motivazione che informava lo spirito religioso della spontanea manifestazione popolare: per chiedere acqua.
 
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14 febbraio 2024 - mercoledi - sett. 07/045
redigio.it/rvg100/rvg-07-045.mp3 - Te la racconto io la giornata
Notizie dal  Villaggio
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Cosa ascoltare oggi
  1. redigio.it/dati17/QGLC756-osterie-varese.mp3 - Le osterie del varesotto - #73 - rvg
LE NOSTRE MALATTIE INFETTIVE
Cominciamo cun i uregiuni
Infiammazione delle ghiandole parotidi con tumefazione della parte esterna dell'orecchio. Orecchioni. Malattia infettiva per colpa della quale non eravamo ammessi alle lezioni scolastiche. Parotite. Dietro l'orecchio i nostri genitori ci disegnavano una grande croce nera con l'inchiostro e coprivano la zona infiammata con un quadratino di pelle di pecora per tenere al caldo la zona colpita.
I felz
Era una febbre eruttiva, contagiosa, epidemica propria dell'infanzia tipo rosolia, scarlattina, morbillo. La pelle si copriva tutta di piccole macchie rosse. Proibito uscire di casa e prendere freddo.
Terizia
Dovuta ad un travaso di bile e conseguente assorbimento della bile da parte del corpo. Colore giallognolo - verdiccio che si manifesta prima nella sclerotica, alle tempie e al collo e poi in tutto l'organismo. Itterizia Verd da terìzia: verde per l'itterizia.
Tusasnina
Pertosse. Tosse canina, ferina o asinina. Malattia infettiva localizzata negli organi respiratori con tosse forte e insistente e con frequenti conati di vomito. Propria dei bambini che venivano portati alla mattina molto presto in bicicletta nei boschi della zona per respirare aria pura e fresca.
Màa grupp
Si trattava di una violenta infezione alla gola (difterite) con conseguente difficoltà respiratorie. Era propria dei bambini di meno di dieci anni di età. Spesso era mortale. I giovani malati tra spasimi atroci morivano per soffocamento.
La quarta malatìa
Non meglio identificata. Veniva dopo il morbillo, la scarlattina e la rosolia ma non era né l'una né l'altra né l'altra. Malattia infettiva anch'essa che colorava la pelle di un rosa tenue e la punteggiava con macchioline rosse. Niente scuola e niente freddo. Ci voleva pazienza per queste malattie che non erano pericolose e che colpivano tutti i bambini di età scolare. Lo sfogo era parabolico: sempre accentuato fino al massimo, poi lenta e costante discesa delle manifestazioni cutanee.
Oli da rìcin
Era la purga classica e infallibile degli anni trenta. Un cucchiaio da tavola da ingoiare tra mille smorfie e boccacce e dopo, per accomodare il sapore infame che restava in bocca una caramellina. In quelle giornate attraversavamo il cortile per andare ai servizi quattro o cinque volte, con la mano già pronta per slacciare i pantaloni.
Del nome del borgo di Busto e della sua etimologia (1/2)
Milano, capitale e metropoli dell'Insubria, (1) è circondata da così gran numero di borghi, che non si può vedere niente di più notevole altrove; inoltre potendo questi borghi con facili provvedimenti essere ridotti a città e muniti di presidi, essa, se se ne offrisse l'occasione, potrebbe innalzarsi a fortissimo e sicurissimo regno.
Fra questi borghi serba un posto non ultimo Busto Arsizio di cui io ho intrapreso a narrare gli inizi e lo svolgimento. È questo un antichissimo borgo della Insubria, e da esso trasse origine la famiglia dei Busti (2).
(1) Nome antichissimo della Lombardia derivato dagli Umbri del nord o Ins-Umbri, uno dei primi popoli che vi abitarono.
(2) È noto che nel Medio Evo le famiglie nobili trassero il cognome dal luogo di origine, cognome che rimase ai loro membri anche quando si trasferirono altrove. Il Crespi asserisce recisamen te che i Busti o de Bustis sono originari del nostro borgo. Il Ferrario nelle sue Notizie storico statistiche lo conferma e aggiunge che questa famiglia nei tempi più antichi "vi alternava la dimora con la città, dove fin dal sec. XII esercitava cospicue cariche,. Così un de Bustis è menzionato dal cronista Fiamma tra i capitani e valvassori che seguivano il partito dei nobili. Un Amizone de Busti fu delegato della parte dei capitani e valvassori nel capitolato stabilito nel 1258, conosciuto con il nome di Pace di Sant'Ambrogio. Altri dello stesso cognome mi fu dato incontrare qua e là, tra cui basti citare frate Bernardino de Busti celebre predicatore e autore di opere religiose, di cui una, la Corona o Thesauro spirituale, ristampata nel 1925 in Roma da Riccardo Pascucci; e Agostino Busti detto il Bambaja, per il quale rimando il lettore alla monografia di Giorgio Nicodemi, edita nel 1925.
Ma poichè quattrocento anni fa il borgo era chiamato Busti Arsizio (1) o Busto Arsizio, alcuni hanno preteso di chiamarlo Busto Arso o Bustaccio.
Ora si usa chiamarlo piuttosto col nome di Busto Grande che con qualsiasi altra determinazione.
Diamante Marinoni, patrizio e Senatore Milanese, dice che la causa di questo cambiamento del nome fu il bisogno di distinguere il nostro borgo dall'altro che è chiamato Busto Piccolo o Busto Garolfo, e sorge a non più di 5 miglia di distanza, e il medesimo. storico aggiunge che il nome di Busto derivò al luogo. dai cadaveri abbruciati dei caduti nella battaglia vittoriosa dei Galli contro gli Etruschi. Ciò afferma nel suo trattato intorno all'origine, antichità e nobiltà delle famiglie milanesi e con lui s'accorda Bonaventura Castiglioni nel suo libro intorno alle sedi dei Galli Insubri.
L'Arnèta
Torrente che nasce dalle Prealpi Varesine e che attraversando Gallarate, passa a fianco di Verghera, e si perde, scomparendo dopo aver formato una palude di acque stagnanti con alte piante pietrificate, nelle campagne di S. Antonino. Paesaggio lunare che merita di essere visitato. Poverissimo d'acqua d'estate, con acqua quasi abbondante nelle stagioni più ricche di pioggia, straripava più di due o tre volte in primavera e in autunno. L'acqua colmava la conca che circondava il ponte di Cardano al termine di via Adriatico e il cavo dei Piciòtt, subito dopo il ponte, a destra. L'acqua dello straripamento a volte raggiungeva Piazza Volta. Torrente collettore degli scarichi fognari e industriali dei paesi che attraversava aveva sempre l'acqua nera come il carbone. La zona del gallaratese era ricca di tessiture e di filature e di conseguenza di tintorie e di stamperie di tessuti. Tessuti da tingere in nero utilizzati per confezionare grembiuli neri da lavoro. I resti delle operazioni di tintoria finivano nell'Arnetta come nell'Arnetta finivano i rifiuti liquidi e solidi dell'ospedale. Non era luogo da giocarci, ma noi ragazzi, non andavamo troppo per il sottile. Se le nostre mamme si accorgevano della disubbidienza erano botte sacrosante.
Il nero dell'acqua si depositava sul fondo del letto, i ciottoli erano ricoperti da una scivolosa melma nero-verde, il fondo era disseminato di pezzi di vetro e di culi di bottiglie. Sopra il livello dell'acqua, sulle rive erano visibili le tane dei topi di chiavica, topi grossi come gattini di tre o quattro mesi. Attraversavano l'Arnetta a nuoto e si vedevano benissimo gli incisivi luccicare bianchi e appuntiti e la coda lunga e grossa, remigare nella corrente. Due o tre ore prima che scoppiasse il temporale abbandonavano le loro tane scavate al livello dell'acqua e si disperdevano nelle campagne vicine. Le piene inevitabili e frequenti di una volta non si ripetevano più per la dispersione che si opera prima di Gallarate con la rottura degli argini che lungo il percorso sono stati provvidenzialmente rinforzati in diversi punti.
Passando il Rubicone Cesare è diventato nemico di Roma. Passando l'Arnetta, cioè traversando il torrente teatro inimitabile delle nostre scorribande e avventure giovanili, termine di confine tra il nostro paese il comune di Cardano, andandocene per sempre, lasciamo alle nostre spalle le vie, le case, gli orti, i giardini di Verghera, i giorni beati e tristi della nostra vita passata. Una parte di noi stessi. Il nostro cuore di allora. Ci portiamo via solo le nostre memorie. Al par nanca vera, ma l'e propi inscì. Mia mamma, che pure aveva abbandonato il suo paese natale da bambina, parlava della sua Brignàa che era vicina a Careàss (Brignano Gera d'Adda vicina a Caravaggio) almeno una volta al giorno. Sempre e solo per fare paragoni. E il paragone era sempre a favore della sua Brignano. Non morirei tranquillo se nell'aldilà non fossi sicuro di trovare - stèsa precisa - una Verghea in dùa a fa ben nun ghe manèa. Proprio così, anche in Paradiso. Se no, che malinconia e che monotonia. Con la piazza allagata dopo il temporale, con l'osteria Bellaria, cul giustaoss e i quatar Purisej du la mùra, ul buzòn e la muntagnèta, e ul Lazaret con un'arca noa par i mort du la pest, e 'l Carlen dul Piciott chal canta i filastrocc in dul bel mezz du la piaza.
 
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15 febbraio 2024 - giovedi - sett. 07/046
redigio.it/rvg100/rvg-07-046.mp3 - Te la  racconto io la giornata
Notizie dal Villaggio
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Cosa ascoltare oggi
redigio.it/dati2605/QGLO408-giochi-antichi.mp3 - Busto Arsizio: giochi antichi e dimenticati - - #73 - rvg
Toponimi di Cazzago Brabbia
17) Piàn: breve spianata che costeggia il Lago di Varese a pochi metri dalla Funtana.
18) Póz: zona poco a nord del Runch. Un tempo venivano create delle piccole buche nel terreno per la macerazione della canapa. Questa attività era favorita dal terreno particolarmente umido e argilloso che dava agio nella lavorazione della pianta. Il toponimo si rifà al latino puteum "buca, fosso", da cui l'italiano "pozzo".
19) Pregòss: piccola distesa pianeggiante a nord del Marèl, a sud del centro del paese. Il nome è forse un composto di pra "prati" e gròs "grossi" toponimo ricorrente in tutta l'area.
20) Riale: in dialetto denominato Riää dal nome generico latino rivus. Il breve torrentello nasce e muore all'interno del comune di Cazzago Brabbia partendo da alcune sorgenti sotterranee vicine al centro cittadino nei pressi di una pietra miliare detta Segnääl "segnale" e sfocia poi nel Lago di Varese 83. È un affluente del Canale Brabbia.
21) Rogorée: o Riguré è il nome dialettale per indicare un insieme di querce, dal termine dialettale rùgura "quercia". L'etimologia è da ricercarsi nel latino robur "quercia". Quest'area molto piccola si trova a est del Laghetto della Fornace e confina con la zona delle Gaggiette.
22) Runch: zona nei pressi delle sorgenti che danno vita al Riale (v. Biandronno n. 17).
18) Ruscàl: terreno vicino al nuovo cimitero comunale. Il toponimo potrebbe derivare dall'appellativo dialettale rüsca che dovrebbe riflettere una voce celtica che significa letteralmente "scorza o corteccia di rovere ". Il termine dialettale, poi, è usato e attestato per indicare un lavoro particolarmente faticoso. Il toponimo, quindi, potrebbe indicare un luogo dove si praticava un mestiere.
24) Sciarèe: piccola striscia di terra che si sviluppa in lunghezza anch'essa a cavallo del Riale. Il toponimo è attestato anche come Sceréa. Con tutta probabilità il nome deriva dal latino cerretum "cerro", specie di quercia che cresce soprattutto nei terreni sassosi. Il toponimo è largamente attestato in tutta la Lombardia sia come Cerro e Cerreto (cfr.. Cerro Maggiore -MI-), sia nella forma Sciarè/Scerèa (cfr. Sciarè zona di Gallarate -VA- ).
IL LAVORO DEI CAMPI
A quei tempi (anteriori alla seconda guerra mondiale) i paesani di giorno lavoravano nella fabbrica e prima che calasse la sera trovavano qualche ora da dedicare al lavoro dei campi: seminare e coltivare verdure, zappare, mietere, dissotterrare patate, cogliere granoturco. Con la carriola si trasportava qualsiasi genere di prodotto della terra che non fosse stato il grano. Era sempre stracarica: quanti viaggi, quante sudate, avanti e indietro; non pochi chilometri dal sorgere al tramontare del sole per ogni giornata.
Era dura e ingrata la vita del contadino: non c'era anno in cui tutto filasse liscio: estati asciutte senza pioggia, temporali improvvisi e violenti, grandinate.
E se non pioveva da tempo, arrivava il vento ad asciugare ancora di più la terra già morta di sete.
Non pochi erano gli anni in cui non si riusciva a ricuperare nemmeno i soldi delle sementi; senza contare il lavoro e tanta fatica sprecati. In quegli anni si lavorava solo per prendere caldo. Il granoturco raccolto veniva scaricato tutto in cortile davanti alla casa del proprietario. Di sera i vicini davano una mano a "sfogliare" o a scartocciare le pannocchie che venivano poi portate sul granaio nei "cavagni" di vimini. Su e giù, sulla scala a gradini di sasso, un centinaio di volte. Una delle donne presenti, in genere la padrona, aveva il compito di raccontare le favole ("esèmpi") al fine di tener desta l'attenzione degli aiutanti, specialmente i bambini.
Era un lavoro divertente: si cantava anche, si scherzava, si raccontavano i fatti degli altri, le novità del paese.
Il grano, raccolto invece verso la fine di giugno o in principio di luglio, si portava sul granaio dove restava in attesa di essere trebbiato, fino alla metà di agosto.
Si ricaricava covone dopo covone, fino a quando si arrivava all'ultimo strato. A questo punto cominciava il divertimento: iniziava la caccia ai topi che avevano nidificato e procreato in tutti gli angoli del granaio. I ragazzi si armavano di bastoni, i gatti (tutti quelli del cortile) disponevano di artigli uncinati ed acuminati tanto che alla preda sarebbe stato impossibile liberarsi.
I gatti allora, i topi se li mangiavano e come! Essendo molto prolifici e avendo a disposizione una quantità per loro enorme di grano, erano diventati una tribù molto numerosa e ben pasciuta. Era una vera e propria carneficina. Lo spettacolo ripagava così delle tante spighe private dei loro chicchi dagli ingordi e invadenti animaletti.
Dal Piemonte veniva a Verghera la trebbiatrice. Sullo spiazzo di via San Bernardo (zona chiamata "la màchina") carro dopo carro, dall'alba a sera inoltrata, in mezzo a un frastuono da non dire e avvolti da una perenne nuvola di polvere, si procedeva (che divertimento per tutti i bambini!) alla trebbiatura.
In mezzo al granoturco, per tenerlo al riparo dai malandrini, (allora c'erano oltre ai ladri di verdura, i ladri di galline e i ladri di biciclette) si "piantava" una specie di orto: insalata, finocchi, cavoli, carote, prezzemolo, sedano, pomodori e coste (i erbètt.).
Mio zio che aveva la campagna a cento metri dall'Arnetta, ci mandava con la carriola carica di una damigiana a prendere l'acqua da metter nel buco dove si interravano le piantine di cavoli, comperate al mercato
SUI BANCHI DI SCUOLA (1/2)
In piazza e nelle strade si svolgeva la maggior parte della nostra libera vita di ragazzi. La piazza e le strade furono la prima grande scuola dove imparammo molte cose, anche troppe, senza l'aiuto dei libri e dei maestri.
Ricordo che l'insegnante della prima classe elementare (Argia Miglioli Lazio, vecchissima d'aspetto "la vegèta" che a guardarla bene, almeno nel mio ricordo, assomigliava più ad una strega che ad una persona normale) era autoritaria, non tollerava in classe né disattenzione né svogliatezza, soffocava sul nascere qualsiasi tipo di insubordinazione, era acerrima nemica di ogni baccano. Una specie di spaventa bambini.
Ricorreva spesso ai castighi corporali. Il più comune era quello di farci metter le mani sul banco a palme in giù e con una lunghissima canna di bambù, restando seduta sulla cattedra, batteva sulle nostre dita con furore e con stizza. E gli alunni guai a lamentarsi, perché era sempre portata a rincarare la dose. Con bontà tutta materna e femminile! Dopo le percosse, sempre per castigo, ci mandava dietro la lavagna, o in corridoio a farci deridere dagli alunni delle altre classi, quasi fossimo piccoli delinquenti da mettere alla gogna.
Era dura e inflessibile: la sua più grande soddisfazione la provava quando, a mezzogiorno, per castigarci di avere detto solo una parola in più al compagno di banco, o risposto male a una interrogazione o per essere stati disattenti, ci proibiva di tornare a casa, facendoci così saltare il pasto di mezzogiorno.
Lo sa il cielo con quante bacchettate mi obbligò a scrivere con la destra, io che ero mancino naturale! Che differenza tra l'accanimento di allora e il permissivismo d'oggigiorno. "In medio stat virtus", né troppo a destra, né troppo a sinistra.
Molto diversa, dolce per natura, materna, la mia seconda maestra ha lasciato nel mio cuore un così vivo ricordo che, dopo sessant'anni, il tempo non è riuscito a cancellare.
Ha avuto una grande influenza sul mio animo e nella formazione del mio carattere. Ci incitava a leggere, portava a scuola riproduzioni a colori di quadri celebri, vidi allora per la prima volta gli affreschi della cappella degli Scrovegni, ci leggeva poesie del Pascoli (la prima: "Il sole e la lucerna", dai Canti di Castelvecchio, la imparammo a memoria) e poesie di Ada Negri, la maestrina lodigiana da lei tanto amata. Ci parlava spesso dei metodi di insegnamento di Maria Montessori e ci insegnava a vivere parlandoci di lealtà, di coraggio, di libertà. Noi, attenti, seri come piccoli ometti, pendevamo ansiosi dalle sue labbra. Non si sarebbe sentita volare una mosca, in quei momenti.
 
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16 febbraio 2024 - venerdi - sett. 07/047
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LA  PASTASUCIA E LA CUMÀ
(LA PASTASCIUTTA E LA LEVATRICE) (1/2)
25 Novembre 1925. Ore sei del mattino. Gianin, l'è un Purisell. Sul grandissimo camino della nostra immensa cucina era acceso un fuoco vigoroso e scoppiettante, alimentato da legna di fascina, sul quale era posto un caldaio colmo di acqua bollente: un po' doveva servire per la levatrice (la cumà) e un po' era riservata alla cottura della pasta per la fatidica "pastasùcia" se il nascituro sarebbe stato maschio. Alle sei del mattino? E perché no? Pastasciutta sacrosanta, una specie di incoronazione famigliare.
Si era già cucinato pastasùcia quand'era nato il mio fratello maggiore (maschio e primogenito); altrettanto si sarebbe fatto, qualche anno dopo, per il mio fratello minore. Prorompeva la gioia per la nascita di un figlio e maschio per di più. Tre maschi aveva avuto mio padre: quale soddisfazione paterna e orgoglio maschile. Il maschio era l'erede del nome e il continuatore della stirpe. La nostra "casa" godeva in Verghera di una lunghissima continuità e di una meritata stima: documentata dal 1300! Un bel po' di storia.
Puricelli è la contrazione della frase latina “puri ut coeli", cioè puri come i cieli (quando sono sereni).
Il parroco di Samarate nel 1390 circa era un De Purisellis; un De Purisellis l'inviato speciale al vescovo di Milano per richiedere l'autorizzazione per le Cassine de Verghera all'autonomia parrocchiale; di casa nostra uno dei primi medici del paese; lustro e fama sopra ogni altro ci venne dalla vita santa ed esemplare della Beata Giuliana Puricelli, cofondatrice della comunità religiosa del Sacro Monte sopra Varese.
Tra i Puricelli illustri, Gian Pietro Puricelli (1589-1659), Monsignore, Prefetto agli Studi di Milano, studioso di fama, insigne storico. Durante il periodo napoleonico, visse nel gallaratese un Puricelli giurista, dotato di qualità di diplomatico sagace ed accorto: fu al servizio delle potenze continentali coalizzate contro Bonaparte.
Ci fu anche un Giuseppe Puricelli, nato a Gallarate nel 1825 e morto nel 1894, pittore di buone qualità che studiò all'Accademia di Brera sotto la guida dell'Hajez e del Sogni, e fece esposizioni a Torino e a Napoli.
Tra le pecore nere, invece, della famiglia, Carlo Purisello, giustiziato a Gallarate per omicidio nel 1637, e Carlo Puricello detto Filippino, arrotato (sottoposto cioè al supplizio della ruota con altri) nel 1747, sempre a Gallarate.
Quanti poi i Puricelli che si sono sparsi nella provincia di Varese e oltre?
Il maschio era anche la salvaguardia e la garanzia per la conservazione del patrimonio: terreni, case e bestiame. Tutto restava della famiglia. Una figlia, sposando, avrebbe cambiato nome e avrebbe “portato via” dalla casa dei vecchi avi la dote (la schirpa). Aveva un significato particolare la nascita del figlio maschio, specialmente se era il primo nato. Per lui in casa si mettevano in atto tutti i privilegi. Era il beniamino, il favorito, il protetto. L'istruzione era riservata soprattutto a lui; i vestiti più belli erano i suoi, godeva della considerazione e del rispetto dei fratelli minori: era una specie di piccolo padre.
A destra e sinistra della tenda
E' risaputo che fino alla seconda guerra mondiale scoppiata nel quaranta, nella navata della nostra chiesa le donne (solo le donne!) stavano nella parte sinistra, mentre nella parte destra stavano solo gli uomini. I figli piccoli erano custoditi dai papà, le figlie piccole dalle madri. C'era il gruppo degli anziani, il gruppo giovani, il gruppo fanciulli e ogni gruppo aveva il suo istruttore di dottrina e di catechismo.
Alcuni insegnanti da quei "bravi analfabeti" che erano, non sapevano né leggere né scrivere né parlare in italiano. Si esprimevano e insegnavano in dialetto, facendosi capire benissimo. Forse era più facile spiegare i misteri della fede e anche più facile capirli. Tre gruppi anche per le donne. E tre insegnanti. Per evitare che la tentazione spingesse gli sguardi degli uomini verso il luogo dove stavano le donne e viceversa, (il demonio era sempre in agguato, anche nelle chiese) una lunghissima tenda divideva la navata in due navate più piccole: la navata riservata (strettamente riservata) al genere femminile e la navata riservata (strettamente riservata) al genere maschile. L'istruttrice di noi bambini era la suor Prudenzia che, piuttosto piccola di statura, per farsi vedere e per vedere meglio saliva sul posapiedi di una panca. Lei parlava in italiano e qualche volta, agli ascoltatori più disattenti, tirava le orecchie.
L'organo suonato dal Romeo, il mantice girato qualche domenica anche da me, le cappelle immerse sempre in una penombra surreale, la balaustra così bella, di marmo color rosa antico, la tenda separasessi alla cui ombra vegetava la mia piccola dubbiosa fede: tutto finito, tutto Scomparso. Che pena per il cuore che non può vivere che di ricordi di sessant'anni fa.
Del nome del borgo di Busto
e della sua etimologia (2/3)
Livio nel libro Vo delle Storie scrive che in Roma presso l'Equimelio (?) esistettero i Busta Gallica, che così si chiamavano perchè ivi i Galli avevano bruciato i corpi dei loro morti di pestilenza; Cicerone nel libro III del De Legibus chiama Bustum il sepolcro; alla stessa maniera questo borgo fu chiamato Busto perchè qui, dopo la vittoria dei Galli contro gli Etruschi, i corpi dei morti furono cremati e sepolti (2). Quindi il nome del borgo nient'altro significa che cremazione di morti, incendio di sepolcri o sepolcro incendiato.
Io credo che sia avvenuto per ignoranza del volgo che Busto si trovi qua e là con la terminazione in i ma che invece il nome sia venuto per derivazione e che Bustum sia detto per sincope invece di Bustorum; così che si dovrebbe dire Arsizio dei busti, e incendio dei busti, non Busto incendiato.
(1) La denominazione medievale del borgo pare quella di Busti Arsizo. Il Ferrario (o. c.) ne adduce a prova una pergamena del 28 Febbraio 1171 ove leggesi tale nome.
(2) L'opinione del Crespi potrebbe essere accettata se anche i Galli Celti come i Romani avessero usato chiamare bustum il sepolcro o il cadavere cremato; ma ciò non risulta. Bisognerà perciò cercare un'altra spiegazione o rinunciare all'origine gallica.
Ciò è confermato e dall'antico linguaggio e dallo stemma del borgo. Infatti fu costume degli antichi chiamare questo borgo Busti Arsizio e quelli che qui nacquero furono chiamati non di Busto Arsizio ma di Busti Arsizio quasi dall' incendio del Busto o sepolcro.
Così pure lo stemma del borgo, contrassegnato da un duplice B, il secondo dei quali ha dipinto sotto una fiamma, mostra che si deve dire Busti, in numero plurale, non Busto in singolare, a guisa dei Busti che sono a Roma. Cosicchè diciamo Busto Arsizio invece di Bustorum Arsizio e incendio dei busti, poichè la fiamma dipinta sotto il B significa incendio e il doppio B significa pluralità. Nè questa nostra interpretazione discorda dall'uso degli scrittori più recenti, poichè anche i maestri del giure quando menzionano nello scrivere parecchie leggi usano la sigla LL; quando invece si richiamano a una sola legge scrivono un'unica L.
 
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17 febbraio 2024 - sabato - sett. 07/048
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Toponimi di Cazzago Brabbia
25) Streccione: in dialetto streciùn. È l'accrescitivo di stréc, dal latino strictus "stretto". Così sono chiamati questi appezzamenti di terreno lunghi e stretti che congiungono la palude Brabbia al Fosso di Mezzo.
26) Tarompa: in dialetto Tarumpa. Piccola zona a nord-est del centro del paese. Il nome è di dubbia interpretazione: una spiegazione potrebbe venire dall'elemento celtico tar diffuso nella toponomastica italiana (cfr. fiume Taro in Emilia affluende del Po). La voce tar è riconducibile all'indoeuropeo *tor/tar che copre l'area semantica del termine "veloce
27) Trébia: zona sul confine con il comune di Biandronno che si sviluppa longitudinalmente lungo il corso della Brebbia. La trebbia è un'erba magra utilizzata un tempo come cibo per alimentare il bestiame. Il nome "trebbia" potrebbe derivare dal latino tribula "erba spinosa", che forse continua una voce celtica
28) Turiùn: zona nel centro del paese a pochi passi dalla Chiesa cittadina. Il nome richiamava forse l'antica presenza di una torre oggi del tutto scomparsa. Turiun dal dialetto fùrr che continua a sua volta il latino turris "torre".
29) Vignicurin: piccolo appezzamento di terreno al confine tra l'antica suddivisione tra campagna e centro del paese. Il toponimo riflette con tutta probabilità la presenza di una vigna (v. Cadrezzate n. 38) ed è un nome doppiamente composto da due diminutivi, -icul (poi passato a -icur per rotacismo) e -in.
30) Volta d'Amore: la zona che prende questo nome è un piccolo terreno che si affaccia sul Lago di Varese bagnato dal lago tramite una piccola insenatura da cui il termine "volta" (dal latino volvere, "girare" in italiano, cfr. "golfo"). Il termine di specificazione "d'Amore" è di dubbia origine ed è segnalato nelle carte del Catasto Regio del 1905. In dialetto infatti troviamo il nome mur. Secondo Stadera murr è da intendere con la u breve quindi con il significato di "mora, frutto del rovo". In dialetto muur "amore" è pronunciato con la u lunga. È possibile che cartografi senza nessuna conoscenza del dialetto locale avessero frainteso il nome da indicare sulla carta e lo abbiano adattato romanticamente secondo la propria interpretazione
LA PASTASUCIA E LA CUMÀ
(LA PASTASCIUTTA E LA LEVATRICE) (2/2)
Per le femmine pochi riguardi: lavoro domestico, apprendistato dalla sarta del paese, niente istruzione, che per loro veniva considerata una spesa superflua e quindi inutile.
I bambini venivano portati al fonte battesimale dopo otto o dieci giorni dalla loro nascita. I genitori temevano di lasciare il piccino nelle mani del peccato originale, di cui, mi sia concesso dirlo, non avevano colpa alcuna. La cerimonia del battesimo era solenne e di carattere fortemente religioso. Motivo per riunire la parentela e rinsaldare così i vincoli di affetto che allora erano molto più sentiti. C'era poi "l'immissione" nel novero dei credenti di una nuova anima innocente.
Niente banchetti milionari, pellicce milionarie, fuoriserie milionarie: ci si comportava come dettava la semplicità e lo stato economico- sociale della stragrande maggioranza dei vergheresi (i quali non si vergognavano della loro onesta povertà). Le puerpere, da parte loro, si facevano un dovere sacrosanto di allattare la loro prole. Vivevano prigioniere, per quaranta giorni, della tradizione che le considerava donne "speciali" che non potevano (non ho mai capito e saputo per quale motivo) attraversare o uscire dal cortile fino a quando la benedizione del parroco toglieva il divieto e le reintegrava nella vita normale. Che cosa c'era che non andava nell'aver dato la vita a un nuovo mortale? Non è un comando divino il moltiplicatevi? E il fantolino, l'innocenza fatta persona, che non aveva chiesto a nessuno di nascere, che, aperti gli occhi, non aveva fatto altro che piangere, dormire e succhiare il latte dal seno materno? Cosa c'entravo io coi peccati di Adamo ed Eva che, forse, non sono mai esistiti e con la fantasia malata e assurda di teologi disoccupati?
Il peccato originale: illogicità che non ho mai compreso.
Al principio di questo capitoletto ho parlato della levatrice, la nostra "cumà". Nel servizio sanitario affiancava il medico condotto: aveva cognizioni di scienza e arte medica, ma era soprattutto preposta alla nascita dei piccoli vergheresi.
La nostra Rosa Righini, madre del dottor Colombo, ha assolto con maestria ed umanità il suo compito per quasi mezzo secolo: dal principio degli anni venti fino alla fine degli anni sessanta.
Di carattere cordiale, estroversa, pronta a qualsiasi chiamata, durante il giorno o durante la notte, col buono o il cattivo tempo, ha fatto vedere la luce a molti nati prima e dopo di me. Era larga di consigli, rincuorando infondeva fiducia e dava, anche se non richiesti, aiuti materiali a chi si trovava in condizioni economiche precarie. Quando mi capita di vedere un bambino nato da poco, riappare sempre nella memoria la tua faccia bonaria e gentile, indimenticabile sciùra Rosa.
Le strane statue del Duomo - (Duomo di Milano)
Non tutte le statue del Duomo di Milano hanno avuto la stessa fama della Madonnina, protagonista di detti popolari e celebri canzoni. Tuttavia, il Duomo nasconde parecchie sorprese per chi abbia la voglia di cercarle tra le sue terrazze. Si comincia con due lottatori: Primo Carnera, l'italiano che conquistò il titolo dei pesi massimi nel 1933, e Erminio Spalla, attore in molti film, tra cui Miracolo a Milano. Poi il leggendario drago Tarantasio, che terrorizzò gli abitanti dell'antico lago Gerundo, dal fondo del quale emanava lingue di fuoco e odori pestilenziali. E ancora, l'antesignana della celebre Statua della Libertà di New York: una signora con fiaccola e corona posta sulla facciata del Duomo, sopra al portone centrale. Tra le guglie si nascondono anche Dante, Toscanini, una statua del Duce ampiamente ritoccata nel Dopoguerra e persino un tributo a un piccione. Non manca, infine, una nutrita varietà di attrezzi sportivi: racchette da tennis, palloni da rugby, piccozze, insomma, un mondo oltre a quello dei santi, tributo alla vita laica della città.
LA FESTA PATRONALE (1/2)
Era divisa in quattro parti la festa patronale, che cade all'otto settembre, giorno della natività di Maria Vergine, ma festeggiato la prima Domenica antecedente o posteriore a tale data.
1a parte: quella di carattere religioso: la messa, la comunione, visita, in paese, alle cappelle e agli archi trionfali;
2a parte: la brugheràa: pranzo e divertimenti in un bosco poco lontano dall'abitato; non più di un quarto d'ora a piedi con andatura turistica.
3a parte: in prima serata la processione per le vie cittadine; preannunciata in precedenza per dare modo agli abitanti del luogo di addobbare convenientemente cancelli, porte e finestre.
4a parte: dopo le nove concerto in piazza. Musica operistica e operettistica, qualche vecchia canzone romantica.
Era orgoglio di ogni cortile di mettersi in gara per allestire la cappella migliore con statue di santi e animali, getti d'acqua, laghetti, montagnole coi castelli sulla sommità, giochi di luci colorate, festoni intrecciati di fronde di sempreverdi guarnite da una infinita varietà di fiori, naturali e finti.
Festoni di fiori dunque e di carte colorate; "sandaline" bianche e rosse, appese sulla cima di pali piantati la settimana prima della festa in posti fissi, tese nel bel mezzo e lungo i lati della piazza, da muro a muro, lungo le vie principali e le vie della periferia.
Sulla piazzetta della chiesa o in piazza grande erano allineate bancarelle di dolciumi, di palloni multicolori, di trombette e fischietti. Era un continuo andare e venire di gente a piedi che spingeva a mano le biciclette un mare di gente che arrivava dai paesi vicini: colori, spari di mortaretti, suoni di ogni sorta, vociare continuo. Ricordo che, prima della guerra, mischiati coi venditori ambulanti, c'erano anche i cinesi col fascio delle cravatte appese al braccio sinistro: "Signoli, merce pella, costa poco". Avevano una vocettina femminile, dolce e delicata, erano rispettosi e discreti.
La tensione durava tutta la mattina. Per noi bambini si trattava di alta tensione.
Verso mezzogiorno il paese si spopolava: silenzio e solitudine si impossessavano di tutte le vie. I forestieri tornavano ai loro paesi; i vergheresi invece si preparavano per andare al buscc dul frà per la brughierata.
 
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18 febbraio 2024 - domenica - sett. 07/049
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redigio.it/dati2212/QGLI1197-boschi-Comabbio-01.mp3 - I boschi di Comabbio - pt01 - #32a #36 - 7,50 - rvg
BALÓN E AQUILONI
Altro momento storico della mia prima fanciullezza, molto vivo nella mia memoria, ricordo più che chiaro non appena una qualsiasi occasione me lo richiama dalle ombre del passato. Chi conta più o meno i miei anni ricorda ancora quelle piccole mongolfiere o palloni dalle forme più strane che il vento, nei giorni del lancio, spingeva da Gallarate verso le campagne e le case del nostro paese, e che tenevamo sott'occhio per delle ore intere nel timore che il vento, cambiando d'improvviso direzione, le spingesse o verso la collinetta di Cardano o verso i boschi di Busto?
Si restava trepidanti col naso in aria, si sollecitava, col cuore in gola, il momento in cui incominciava, tra molti tentennamenti, il lento digradare, con sbandamenti, con riprese improvvise, discese, risalite, sbalzi. Volevamo a tutti i costi, essere i primi a mettere le mani sul piccolo aerostato; per noi era titolo di orgoglio portare a casa nostra, in mostra per chi volesse vederli, i resti ambiti della incerta trasvolata. Anche noi di Verghera, per qualche anno, con non troppa fortuna in verità, abbiamo copiato e tentato di imitare i brusa balon da Galarà. Ma vuoi per la imperfetta costruzione dell'aeromobile, o per la dinamica irrazionale o per il fuoco di spinta insufficiente e non sempre tenuto costante, se era possibile effettuarne il lancio, non era possibile tenerlo in volo per più di dieci minuti, con nostro grande disappunto. Ma se non ci andava bene come "brusa balon" eravamo invece provetti lanciatori e navigatori nello spazio, con vento di brezza appena accennato, degli aquiloni. Azzurri, neri, rossi, a righe vistose gialle e verdi, con stecche rubate nottetempo alle stuoie delle finestre di casa nostra o delle vicine, con carta speciale che garriva come fosse vela di vascello in tempestosa traversata, leggera e forte ad un tempo, con code formate o da una striscia continua o con code ad anelli concatenati, uniche attaccate all'apice inferiore del corpo fatto a rombo, o doppie pendenti spigoli laterali o addirittura a tre code, lenti e maestosi come fortezze volanti.
Seduti sulle balze erbose della montagnetta, dietro al cimitero vecchio, li seguivamo, in trepidazione costante quando prendevano quota, lentamente ma progressivamente, minuto dopo minuto. Che delizia, che ansia, che voglia di azzurri spazi infiniti.
Il nostro cuore saliva con gli aquiloni sugli altopiani. Il tempo si fermava immobile fintanto che durava l'incanto. Magia degli anni trenta. Eravamo appena decenni. La bellezza dei sogni fatti di niente, dell'azzurro del cielo, dei raggi del sole, del verde e dei colori dei fiori. Prima uno, poi due, tre, fino a cinque, fino a dieci: aquiloni in contemporanea libera uscita, in competizione con passeri, rondini, piccioni, diventavano quasi uccelli essi stessi, le nostre grida che li seguivano, che li incitavano, che si spezzavano quasi terrorizzate quando un colpo improvviso di vento li faceva ondeggiare come se andassero alla deriva, come se stessero per precipitare, il respiro di sollievo quando tutto si ricomponeva e il volo ridiventava tranquillo. Mentre scrivo, col cuore colmo di tristezza, mi domando con angoscia dove si è dissolta la mia fanciullezza, dove sono andati a finire gli aquiloni, dove sono volate le oche che spingevo al pascolo nei giorni spensierati delle vacanze estive, dove è svanita la gioventù beata dei primi pantaloni lunghi.
In questo momento di malinconico stupore "io vivo altrove e sento che intorno sono nate viole"!
Non terroni, ma milanesi
Erano gli anni Cinquanta. Io ero una ragazzina del liceo e abitavo non lontana dal quartiere Isola. Li i dialetti di tutt'Italia milanese compreso - si mescolavano allegramente, e tutti si capivano. Tra vie e viuzze piene di botteghe di ogni tipo c'era un frequentatissimo «trani» (il cui nome derivava dall'omonima città della Puglia da cui erano emigrati molti pugliesi che commerciavano vino, frutta e verdura). dove capitai un giorno per comprare del vino sfuso per la mia famiglia. Solito brusio e chiacchiericcio degli avventori, seduti ai tavoli a bere e a giocare a carte, poi di colpo scoppia un diverbio con urla tra i clienti. Improvvisamente, uno di questi si alza e con voce irata dice al suo interlocutore: «Fa no el bauscia!». Alla strascicata parlata pugliese si era sostituita con chiarezza e incisività irresistibile la <<lingua>> milanese, che meglio sembrava esprimere i sentimenti di chi l'aveva pronunciata. In quel momento mi è venuto un dubbio: che i «terroni> fossero spariti, che non ci fossero più?
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Per vangà e zappà no besogna degiunà. Per vangare e zappare non bisogna digiunare.
S'el piœuv a san March o a san Grigou l'uga la va tutta in cavricu. - Se piove a san Marco o a san Gregorio, l'uva va tutta in pampini.
Someneri desembrin el var nanca trii quattrin.  - Seminare in dicembre rende ben poco.
Tajadura malfada, pianta ruinada. - La potatura fatta male rovina la pianta.
Vendembia temporida, de spess la va fallida. - La vendemmia fatta troppo presto è spesso disastrosa.
Del nome del borgo di Busto e della sua etimologia (3/3)
Nè è da meravigliarsi che nessuno prima d'ora abbia posto mente a ciò perchè anche coloro che sono istruiti nelle umane lettere, seguendo l'uso comune considerazione alcuna degli antichi monumenti, che per noi devono essere un fortissimo argomento, hanno qua e là adoperato il nome Busto Arsizio al singolare. Più impropriamente uno scrittore (1) volle inventare il nome Busto Artitio derivandolo dalle molte arti che nel borgo in ogni tempo furono esercitate, perchè le antiche tavole fanno fede che il borgo non si chiamò Artitio ma Arsizio da " ardere, (2).
E tuttavia non nego che se, abbandonato il prisco linguaggio, fosse concesso di trovare un nuovo vocabolo, questo di Artitio ben si addirebbe a questo borgo, perchè non v'è quasi nessun altro luogo del territorio milanese che possa con ragione esser paragonato a Busto per la molteplicità delle arti
Infatti non v'è casa quasi in cui non sia esercitato qualche mestiere. Ai giorni nostri sono aperte cento- quaranta officine e sessanta si possono ancora vedere chiuse, le quali si deve credere siano servite non ad uso di botteghe ma di laboratori.
Per questa ragione colui che disse che il nome di Busto Arsizio deriva dall'esercizio delle arti, ha la sua parte di merito.
(1) Non mi è stato dato di trovare chi sia questo scrittore. Forse qui il Crespi allude ad Alberto Bossi o al Gallazzi. (vedi prefazione).
(2) Secondo il Rampoldi: Corografia d'Italia, l'appellativo Arsizio rimonterebbe al sec. IX e sarebbe dovuto a un grave incendio che in quel tempo avrebbe distrutto interamente il borgo; cosa non improbabile dato il materiale, legno e paglia, con cui erano allora fabbricate le case.
LA FESTA PATRONALE (2/2)
Col fagotto dei cibi sotto il braccio, incominciava l'esodo verso il bosco. Lunghe file di persone, a gruppi "per famiglia", parlando del più o del meno, cantando canzoni popolari, in un clima di forte eccitazione. Nel bosco, dove era già stata posta nel bel mezzo di uno spiazzo erboso una botte capace, colma del miglior vino nero, c'era anche il banco di mescita con bottiglie dei liquori più vari.
Si mangiava seduti sull'erba: polli arrosto, bistecche, salamini. La gente vuoi per il caldo, vuoi per il cibo, vuoi per il vino, arrivava subito alla "pressione" giusta. Pressione che raggiungeva il culmine, quando, venuto il momento più sospirato, un distaccamento della banda musicale (per lo più clarinetti) attaccava con brio e foga valzer, polche e mazurche.
Aveva inizio il ballo preannunciato da tre formidabili colpi di cembali. Apriti cielo. Giovani, anziani, vecchi, uomini e donne, tutti facevano a gara a chi era più originale, più resistente, più bravo.
L'improvvisata jazz-band non si risparmiava; non si risparmiavano i ballerini; nemmeno quelli che assistevano ai bordi della pista si risparmiavano incitando e acclamando. Un motivo più sfrenato dell'altro: la riserva di fiato dei musicanti e dei ballerini era inesauribile, Bacco permettendo. Avanti tutta fino al crepuscolo, perché ormai era giunta l'ora del ritorno. Di stelle era palpitante la volta celeste. Nel cuore c'erano tanti rimpianti e tanta malinconia. La processione serale col simulacro della Vergine cambiava itinerario ogni anno ed era sempre suggestiva per le luci che i partecipanti recavano in mano, gli stendardi, il baldacchino dell'officiante, le ali di folla assiepata lungo le vie del percorso. E dulcis in fundo, a coronamento della giornata, la banda cittadina teneva in piazza grande, il concerto strumentale: ouvertures, intermezzi, preludi e pot- pourri di opere e operette celebri.
Durante l'esecuzione dei vari brani il silenzio era totale e generale era l'attenzione degli astanti che non lesinavano battimani e consensi. Qualcuno accompagnava canticchiando sottovoce o fischiettando allegro e spensierato.
La festa del paese era sentita e goduta come una giornata speciale, tutta dei vergheresi, seconda solo al Natale. O forse, per l'allegria e l'eccitazione, anche più del Natale.
       **************** fine giornata ************************