RVG settimana 04
Ra dio-video-giornale del Villaggio
Settimana-04 del 2024
Settimana 04 2024-01-22 - - Calendario - la settimana
22/01 - 04-022 - Lunedi
23/01 - 04-023 - Martedi
24/01 - 04-024 - Mercoledi
25/01 - 04-025 - Giovedi
26/01 - 04-026 - Venerdi
27/01 - 04-027 - Sabato
28/01 - 04-028 - Domenica
RVG-04 - da - Radio-Fornace
22 Gennaio 2024 - lunedi - sett. 04-022
Cosa ascoltare oggi.
- redigio.it/dati1901/QGLF073-territorio.Comabbio.mp3 - Vita nei dintorni di Comabbio - 5,43 - rvg
Toponimi di Biandronno
11) Laghet: piccolo specchio d'acqua all'interno della zona acquitrinosa a nord-ovest del Lago di Varese, creatosi a causa della cava costituita per estrarre il materiale utilizzato per la produzione di mattoni nella fornace a sud del paese.
12) Montége: zona ora pianeggiante un tempo caratterizzata da una masseria in cui avveniva la monta taurina e costituita da campi coltivati a mais. Oggi quest'area è tagliata in due dalla stazione ferroviaria di Travedona-Biandronno a sud-est del centro cittadino (per l'etimo v. Cadrezzate n. 13).
13) Montesé: piccola zona pianeggiante al di sopra di un leggero poggio che dal centro del paese porta alla Fornace a sud-est di Biandronno. Toponimo di non semplice interpretazione, forse da intendere come "monticello", legato indubbiamente al termine "monte", vista anche la sua collocazione geografica (v. Cadrezzate n. 13).
14) Nüstrin: piccola area pianeggiante che collega il Gesiolo alla Fornace. Alla fine degli anni '90 del Novecento, durante alcuni lavori di ricerca, sono stati trovati reperti e materiali che fanno presupporre l'antica presenza di un cimitero pagano. Di etimo incerto, forse da ricondurre ad una voce ticinese nèstula che significa "laccio" o "stringa" che si potrebbe riferire alla forma del terreno31.
OSMATE (2/2)
10) Murinasc: zona di Osmate che si affaccia sul lago adiacente al punto in cui il Valun si immette nel Lago di Monate. Il nome forse segnala l'antica presenza di un mulino in dialetto detto mulin o murin.
11) Paiét: terreno poco esteso situato su un piccolo crinale adiacente alla Casa San Giorgio. L'origine del nome è incerta. Forse si può far derivare dal termine paièta "loglierella" o riferito ad altri tipi di erba palustre diffusi in quest'area , oppure direttamente da paia "paglia, erba" tramite il suffisso -etum
12) Poleggetti: o Poleggette, in dialetto definito come Pulegèt, designa due luoghi distinti di Osmate. Una prima area così denominata si estende sopra l'odierno cimitero comunale di poco a est dalle Fontanazze di Comabbio, luogo che segna il confine tra i due comuni. Un'altra zona nominata Pulegèt è situata sulle rive del Lago di Monate ed era un tempo zona balneabile e utilizzata dai locali perché una delle poche spiagge basse e sabbiose che il lago offrisse. Il nome è forse da far risalire al termine dialettale polee "pollaio"con il suffisso finale da intendersi come diminutivo. Oppure possiamo ipotizzare una derivazione dalla voce dialettale pulèc "finocchio, cumino dei prati"
13) Pometta: attestato in alcune carte anche come Pomette, dai locali definito come Pumèt. E' una cascina tutt'ora esistente che si trova a sud-ovest del centro abitato tra il Montecucco e il Monte Calvo sulla strada che porta verso Lentate. L'origine forse può essere trovata nel termine latino pomum "frutto", continuato poi nel dialettale póm. Il toponimo presenta un suffisso di diminutivo che forse non è da intendere come "piccolo albero da frutto" ma come un luogo nato in un secondo tempo rispetto ad una realtà ben più conosciuta e anteriore.
14) Pramaggioli: in dialetto meglio noti come Primigiöö. La zona che definisce quest'area è incerta ma senza dubbio si riferisce ad alcuni campi un tempo coltivati. Il toponimo è di difficile comprensione ma vi si potrebbe leggere un Pra Mag "prati magri" come attestato anche in un terreno del comune ticinese di Rencate noto come Pramág o Pramaggio 133 (v. Cadrezzate n. 26). Non è da escludere però una interpretazione che si riferisca a "i primi campi coltivati" partendo da un ipotetico *primic(u)lum poi passato a *primig con l'aggiunta, infine, di un suffisso di diminutivo (v. Comabbio n. 27).
Soprannomi ed epiteti Suranómm e titul (2/2)
Così, ad esempio, una persona pia e assidua frequentatrice della Chiesa era qualificata come basabanchitt o basabalaüstar o pateraveglòria o mangiasignùur; un assiduo frequentatore delle osterie con conseguenti frequenti sbronze era ciucàtt, ciuchina, ciucatun, sborniafissa ecc.; se un tale aveva il vizio di grattarsi il didietro era gratificato di gratacüü e se invece si grattava il davanti era gratapàta; uno alto di statura: canela, perteghéta, cudeghéta, anima lunga, pirlùnga; se era anche un po'tardo grand e cióla; se malvestito: spuentapassàr, e chi più ne aveva più ne metteva.
Anche le donne avevano ovviamente la loro parte, ad esempio quelle che eufemisticamente diremmo un po' loquaci: betoniga, bucascia, lenguascia, slapetòna, sabèta, mentre per quelle di facili costumi: baltroca, ciapabigul, pelànda, pelàscia, pelegrina, peltréra, penàgia, pelòzza, slàndra.
I nostri antenati non difettavano di fantasia e di senso dell'umorismo nell'inventare appellativi ed epiteti: un salumiere che non portava il grembiale e si puliva le mani unte sul davanti dei pantaloni era diventato ul patavùncia; un tizio che portava pantaloni un po' bassi di cavallo era il patamòla; quando, usciti dall'osteria ad ora tarda, si fermavano ad orinare sui muri, quel tale che la faceva un po'di traverso era diventato il pissastòrt; quel contadino che, con la bùnza sul carro, svuotava i pozzi neri per ingrassare i prati, onde accertarsi che il "materiale" fosse di ottima qualità e non troppo allungato con acqua, vi ficcava dentro un dito e se lo passava sulla lingua (sic), era diventato il sagiamèrda.
Il vino nostrano, detto grimèll, era di gradazione piuttosto bassa e 'l faséva dumà pissà. Il buon consumatore di questo vino era pertanto costretto a dislazzà la pàta assai di frequente e poi riallacciarla. Di conseguenza l'allacciatura dei pantaloni era sottoposta a notevole usura. Da qui il nome di strasciapàta, attribuito in questo caso non a persona ma al vino.
L'argomento offrirebbe il destro di continuare ancora per molto ma, poiché pensiamo e speriamo di aver chiarito i concetti, ci fermiamo.
Busto Arsizio - cap. 7 (1/4)
Piove, piove da gran tempo. La campagna è tutta un pantano, le strade sono impossibili e il destino vuole che non passino che truppe. Austriaci dappertutto, che impiantano i pali telegrafici della linea Milano-Gallarate, che perquisiscono, che cercano armi « legalmente e illegalmente possedute», che incollano proclami sui muri, che cercano alloggi; e quando gli alloggi non si trovano, perchè ben pochi vorrebbero avere un tedesco in casa, requisiscono l'albergo della Giulietta Turati vedova Marcora e quello del Giuseppe Tosi Giandalén, al quale portano via, per un certo tempo, assieme a due cavalli anche la diligenza, altrimenti detta « ul ve lòciu», da usare per il servizio della Armata, restituendola poi in stato tale che il Tosi avanza al Comune la richiesta di 18 marenghi per danni, peraltro non pa- gati.
L'atmosfera del borgo va facendosi di giorno in giorno più pesante. Il 12 maggio del 1859, una notifi cazione del Governatore del Lombardo-Veneto deferisce ai consigli di guerra quelli che cantano in pubblico le << canzoni rivoluzionarie ». Per chi non lo sapesse, si cantava da pochi mesi « La bella Gigogin », « Richetta Richettina », e « A Castellanza a catà i bei fiori »; e le cantavano le tessitrivi della « Privilegiata Fabbrica Pietro Candiani » e della «Privilegiata Francesco Turati » che da alcuni anni faceva battere 1400 telai di cui 30 a Jacquard, e dava lavoro a 3500 operai per undici o dodici ore al giorno, e, in qualche caso, anche quattordici.
A Castellanza a catà i bei fiori,
A Castellanza a catà i bei fiori, viva l'amore, viva l'amore,
viva l'amore e chi lo sa fa.
Se questa era la rivoluzione, non possiamo far altro che sottoscriverla.
Ma il 23 di maggio e la notizia arriva come una bomba - Garibaldi attraversa il Ticino a Sesto Calende, e a mezzanotte, per la strada di Corgeno e sotto una pioggia sempre dirotta, raggiunge Varese, mentre a Busto, per prudenza, gli austriaci si ritirano e si raccolgono a Castellanza e a Legnano. Il 24 mezza Busto si riversa a Gallarate dove si dice passano i garibaldini, mentre il Tenente Maresciallo Urban, che è in villa Cantoni alla Castellanza, ripreso animo, si porta verso Como con le sue brigate alla ricerca del nemico e, non trovatolo, ritorna su Varese ove, il 26, viene battuto, e suoi croati si buttano in fuga sulle nostre campagne, ritirandosi tanto lestamente dicono le cronache da far persino credere a una manovra. Ripreso coraggio, l'Urban è di nuovo, il 30 maggio, a Castellanza con le brigate Rupprecht, Schaffgoste e Augustin e gli ussari pieni di paura. La notte, in un bivacco stabilito lungo la strada, tutti i croati sono in allarme: giungono da Castellanza dei sinistri rimbombi. Gli austriaci gridano come forsennati: « garibalda, garibalda! »; e invece sono gli sbiancatori della Garottola che battono le pezze.
**************** fine giornata ************************
23 Gennaio 2024 - martedi - sett. 04/023
Cosa ascoltare oggi.
- redigio.it/dati1901/QGLF072-storia-comabbio.mp3 - La storia dai romani - 3,53 - #36 #32
Toponimi di Biandronno
15) Ponte della Brabbia: piccolo ponticello in ferro situato sulla strada che da Comabbio porta a Varese e che sovrasta il fiume Brabbia, dialettalmente noto come Bràbie, confine naturale tra Biandronno e Cazzago Brabbia (v. Cazzago Brabbia n. 1).
16) Roggia Gatto: nota anche come Rùngia. Piccolo corso d'acqua che unisce il Laghèt al Lago di Varese e taglia latitudinalmente il comune passando al di sotto della strada provinciale che da Biandronno porta a Bardello. Il nome è da far risalire con tutta probabilità alla voce dialettale gat "canale di scolo" ben attestata nelle aree del piacentino e della Lombardia meridionale.
17) Roncato: o Runcàar è la zona che porta dal Gesiolo fino al comune di Travedona tramite una leggera salita. Il toponimo è dei più frequenti in tutta la Lombardia ed è un derivato dal latino runcare "sarchiare, dissodare". La voce dialettale ha un suffisso diverso dalla forma ufficiale, forse da far risalire all'aggettivo latino runcalem "relativo al ronco"
18) Rööch: monticello a sud-est del paese che ospita l'attuale acquedotto di Biandronno. Il nome con tutta probabilità è da far derivare dal termine "roca" o "rocca" con il significato di "promontorio"
19) Sötcà: piccola area al di sotto della Baserga verso il Lago di Varese un tempo zona di campi coltivati, ora area residenziale. Il nome è con tutta probabilità un composto di "sotto" e "casa" con riferimento appunto al nucleo abitativo in zona Baserga.
Agricoltura e mondo contadino
A camp tempestaa no var benedizion. Quando cade la grandine su un campo non c'è benedizione che valga.
Acqua de fevree, l'impieniss el granee. L'acqua di febbraio riempie il granaio.
A pientà i fav de s'genee se fà on bell favee. Le fave piantate a gennaio riescono bene.
April ghe n'ha trenta, e se piovess trentun, fa mal a nissun. - Aprile ha trenta giorni, ma se piovesse per trentun giorni non farebbe male alla campagna.
A san Barnabà, taja el praa. - A san Barnaba taglia il prato.
A san Gall, se somenna al pian e al vall. Per san Gallo si semina in pianura e in valle.
In temp de segarìa no se dis né pater, né avemaria. Quando è tempo di mietitura non c'è tempo per dire le orazioni.
A san Giorg la spiga in l'orz. - A san Giorgio l'orzo ha la spiga.
Chi gh'ha la vigna sova, in tra marz e april le brova. Chi ha una vigna la pota tra marzo e aprile.
El ris el nass in l'acqua e el mour in del vin. Il riso nasce nell'acqua e muore nel vino.
Giugn streng el pugn. - In giugno si stringe la falce in pugno.
L'acqua a sant'Anna l'è mej de la manna. - La pioggia il giorno di sant'Anna è più gradita della manna.
L'acqua dopo san Bartolamee l'è bonna de lavà i pee. La pioggia dopo san Bartolomeo non serve più a nulla.
O bagnaa o sutt, per san Luca somenna tutt. Che sia un'annata bagnata o siccitosa, entro il giorno di san Luca bisogna seminare tutto.
Per san Martin tutt el móst l'è vin. Entro san Martino tutto il mosto diventa vino.
Busto Arsizio - cap. 7 (2/4)
Il giorno dopo, verso sera, l'Urban spediva a Busto una squadriglia di cacciatori tirolesi per requisirvi dei viveri.
<< Era la truppa all'ingresso del Borgo, allorchè le campane della Parrocchiale suonando i segni della benedizione spaventarono quei soldati in guisa che incontratisi a caso in un giovane tessitore lo arrestarono e colla bajonetta alla gola il trasferirono tosto frammezzo alla colonna che accampava sulla strada poco lungi dal paese ».
<< Colpito da tanta sì improvvisa sventura il padre dell'arrestato trovò questo ascoltante della Pretura, marchese Leopoldo Corio, che generoso si assunse l'incarico di presentarlo al Comandante Austriaco onde ottenere la liberazione dell'innocente suo figlio.
<< Ma tutto fu indarno, anzi maggior male che il padre ed il nobile suo protettore furono essi pure posti in arresto, e solo il Corio, dopo aver fatta conoscere la propria qualifica e protestato pegli indegni trattamenti sofferti dalla soldataglia, venne lasciato libero e potè nell'oscurità della notte con evidente pericolo della vita evadersi pej campi.
<< Ma non bastava ancora che il padre ed il figlio Crespi senza alcuna colpa fossero barbaramente caricati di catene, ma un terzo individuo, certo Fagnani di questa borgata che per curiosità erasi recato sulla strada veniva arrestato ed insieme cogli altri due trascinato via dalle Truppe Austriache.
<< Questo doloroso fatto accadeva come si disse, la sera del giorno 30 maggio e d'allora in poi nulla più si seppe della sorte toccata a que' disgraziati ».
Questa lettera « all'Eccelso Governo Generale per la Lombardia in Milano »>, da parte della Deputazione Comunale di Busto, il 12 luglio 1859, non pare abbia avuto risposta.
< Ora che venne stabilito un armistizio fra le Truppe Alleate e quelle dell'Austria diceva la lettera la scrivente credesi in dovere di portare la cosa a cognizione di cod. Eccelso Governo Generale perchè coi mezzi che stanno a sua disposizione si degni di verificare se esistano tuttavia i prenominati individui ed in caso affermativo provocarne il rinvio alle loro famiglie che vivono già da tanto tempo desolate e trepidanti per la vita degli sventurati loro parenti ».
Le carte dell'archivio di Busto non ne dicono niente. Come sarà finita per i Crespi e il Fagnani, tradotti fino a Verona, vittime della isterica paura degli austriaci, in quei giorni?
Il 2 giugno, mentre il Garibaldi da Laveno per Induno e Arcisate si buttava su Como, i Franco-Sardi passano il Ticino a Turbigo, e l'Urban ritorna di nuovo da Varese su Busto, con 3000 uomini, per tamponare la falla. I primi bagliori della guerra si sentono già a Busto il giorno dopo, quando i turcos affrontano gli austriaci per le strade di Robecchetto e di Turbigo fino a Malvaglio, e sopra, fino a Castano, dove battono i battaglioni del reggimento Principe Wasta.
La zona intorno al borgo è un solo formicaio di soldati. Voci su voci corrono su tutte le bocche: Napoleone III è a Turbigo, Vittorio Emanuele II a Galliate, Garibaldi pare dappertutto, l'Urban non si sa.
Il 4, finalmente, non si capisce più niente.
Cave canem/1 - (9-10 marzo 1876)
leri mattina in piazza del Duomo l'accalappiacani voleva, secondo il suo dovere, portar via un cagnolino perché non aveva la museruola. Il padrone del cane, che probabilmente è uno di quelli che chiamano indipendenza la violazione della legge, piuttosto che consegnare il cane, lo sbatté replicatamente in terra e l'uccise senza rispetto alcuno all'idea di decoro e umanità. Quel brutale fu arrestato.
**************** fine giornata ************************
24 Gennaio 2024 - mercoledi - sett. 04/024
Cosa ascoltare oggi.
- redigio.it/dati1901/QGLF071-battaglia-corneliane.mp3 - 218 ac. romani e barbari - 6,59 - #36 #32 rvg
Il Coperto dei Figini - (Piazza del Duomo)
Racconta Bonvesin de la Riva che già nel XIII secolo Milano contava più di sessanta <<Coperti»>, ovvero edifici porticati con botteghe. Il più famoso fu certamente il Coperto dei Figini, in piazza Duomo, antico luogo dello shopping dei milanesi. La piazza, prima del restauro finale del 1863, su progetto dell'architetto Giuseppe Mengoni (lo stesso della Galleria), presentava un assetto diverso, con il popolare rione del Robecchino a destra del Duomo e il Coperto dei Figini a sinistra. Quest'ultimo era un palazzo rinascimentale porticato costruito, su commissione di Pietro Figino da Guiniforte Solari, sull'area prima occupata dall'antica Basilica di Santa Tecla, della quale vennero riutilizzate le colonne e il muro perimetrale per dar vita a un elegante edificio a più piani che divenne il cuore commerciale dei milanesi. Il Coperto ospitava botteghe di abbigliamento, passamaneria, telerie, oreficerie e molti bar, tra cui il Campari, tutti con le vetrine sotto i portici. Rimase attivo fino al 1864, quando fu domilito per far posto alla costruzione della Galleria Vittorio Emanuele II.
MEDICINE FATTE IN CASA - Decott da Bisii
Medicine fatte in casa. Le materie prima erano a portata di mano: il fuoco del focolare, un po' di acqua, un po' di zucchero, e 'l padelott. Mezz'ora un ora di cottura. Far raffreddare il tutto, 'l culen, una scudelòna o tazinòna da due litri da riempire di liquido che in genere aveva colorazione e riflessi dorati, più o meno come il tè. Ul decott da bisìi è quello che ricordo con più vivezza perché ne ho bevuto un vasèll, una botticella. Ragazzo, ero debul da pulmòn, e dovevo specialmente d'inverno ricorrere allo sciroppo Famèl. Vuoi perché costava soldi, vuoi perché a furia di berlo si ottenevano, per assuefazione, scarsi risultati (la penicillina era ancora da scoprire) si ricorreva a quelle medicine casalinghe che si conoscevano da tempo immemorabile e che, nei casi di tutti i giorni non gravi né pericolosi, si usavano in tante famiglie. Cùstan nient. Un pù da temp a catàj. Un po' da zúcar e da fogh. Fa mà, i fan ma nò. A me hanno sempre fatto bene e devo dire che bevevo con un certo piacere quegli intrugli zuccherati, forse perché mi sono sempre piaciuti i cibi e le bevande dolcificate. Servivano per la tosse, per purificare il sangue, per eliminare l'infesciadùra, per vincere la stitichezza, per rinforzare i reni ai bambini che ancora grandicelli mollavano la pipì a letto, per vincere l'infiammazione degli occhi o della bocca, perfino erbe da mettere nelle orecchie per calmare il dolore dei denti.
Decott da malva, da scigull e da àji, impacc da camamèla, aqua buìa di ratt muigiò par rinfurzà i reni, barbìs da furmenton, fiur da sambugh, buter par fa egnì a cò i bugnon, impacc da pìsa, (sì, impacchi di pipì per calmare o meglio annullare in brevissimo tempo il dolore acuto dovuto a storte o distorsioni articolari). La pel da bera per guarire gli orecchioni, i ragnèe (ragnatele) per disinfettare le ferite da taglio e le abrasioni. La povertà e il fabbisogno aguzzano l'ingegno. I buoni risultati e la convenienza (costi minimi) sono motivi sufficienti per far continuare sulla stessa strada. I bisìi, le ortiche, sono erbe cattive perché le loro punture irritano la pelle arrossendola e producendo vescichette dolorose, ma sono utili come medicamento e buonissime e gustose cotte nella minestra. MEDICUS CURAT, NATURA SANAT. E' un latino così facile che non ha bisogno di traduzione.
Mi viene in mente proprio adesso un altro decotto: decott da gramègna. Erbaccia difficile da estirpare totalmente (basta una radicetta dimenticata o sfuggita alla ripulitura per dar vita in pochissimo tempo a una rigogliosa nuova colonia) che si faceva bollire e il decotto ottenuto si usava, ma per cosa? E poi si faceva bollire davvero la gramigna? Mah. Quando una persona era attaccaticcia, noiosa, insistente, veniva definita peg du la gramègna.
Toponini di CADREZZATE
7) Cascina Castello: vecchia cascina oggi ristrutturata e abitata situata nel punto più alto del paese, sul poggio detto Motte. Il nome forse indica l'antica presenza di una fortificazione (castèl da latino castellum, derivato di castrum) che sempre veniva costruita nel punto più alto così da garantire protezione e difesa per tutta la popolazione . Non sono rimaste tracce di questa possibile fortificazione.
8) Galletto: antica cascina, ora non più esistente, che forse era situata sulla vecchia strada che da Cadrezzate porta a Osmate. Il nome potrebbe rifarsi alla famiglia Galetto, ancora oggi abitante ad Osmate.
9) Gesiolo: piccola cappella campestre situata sulla strada che porta verso Brebbia. Un tempo queste strutture avevano la funzione di riparare i contadini nei campi durante le improvvisi piogge ed erano anche il luogo dove si pregava per la buona riuscita del raccolto e si benedicevano buoi e asini utilizzati per l'agricoltura e l'allevamento (v. Biandronno n. 9).
10) Martinello: strada consorziale oggi non più individuabile attestata nelle carte del Catasto Regio del 1905.
11) Mogno: in dialetto noto come Mügn. È una zona pianeggiante che porta verso Monate, ora area residenziale. L'etimologia del termine è dubbia ma si possono riconoscere due forme di riferimento. Il termine mògn nei dialetti alto milanesi può voler dire "umido", ma indica anche "un tipo di foraggio scadente". In milanese esiste, però, anche il termine mognon "salice" e la presenza di questa pianta in area lacustre è da sempre significativa per le comunità locali.
Ferrante Rittatore Vonwiller. Appassionato ricercatore, innovatore e entusiasmante divulgatore
Ferrante Rittatore (1919-1976, solo nel 1953 aggiunse il cognome materno Vonwiller) nacque a Milano il 2 febbraio 1919 e fin da bambino mostrò un'innata passione per l'archeologia. Si laureò a Firenze nel 1942 e fu Medaglia d'argento a El-Alamein e medaglia di bronzo nella Guerra di liberazione.
Dal 1946 fu assistente alla cattedra di Paletnologia dell'Università di Milano, dal 1952 libero docente e quindi incaricato di Paletnologia prima nella Facoltà di Scienze, poi in quella di Lettere dal 1966. Direttore del Museo Civico Archeologico "P. Giovio" di Como dal 1962 al 1976, ispettore onorario per la preistoria in Lombardia, condusse numerosissime ricerche su tutto il territorio nazionale (in Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Toscana, nel Lazio e nel Gargano).
Rittatore condusse lo scavo della necropoli di Canegrate con estrema passione e competenza in un momento storico in cui l'archeologia stava muovendo i primi passi verso lo sviluppo di una metodologia scientifica.
Lo scavo scientifico e in estensione, la documentazione, lo studio e la ricerca furono condotti con metodologie d'avanguardia per quei tempi.
Inoltre riconobbe l'importanza di questo ritrovamento e propose di chiamare la facies archeologica, fino ad allora sconosciuta, "cultura di Canegrate", divulgandone la conoscenza con pubblicazioni scientifiche anche a livello internazionale. Affermò infatti: «Canegrate è molto più importante dei precedenti ritrovamenti per il numero e la ricchezza delle tombe rinvenute, tanto che si può proporre di chiamare cultura di Canegrate questa facies la cui esistenza non era stata fin'ora conosciuta>>.
Fu un appassionato divulgatore, capace di stimolare la curiosità, e si dedicò con entusiasmo, per tutta la vita, alla ricerca e alla valorizzazione. Ne sono testimonianza non solo le numerose pubblicazioni scientifiche, anche a livello internazionale, dedicate a questa importante scoperta, ma anche le conferenze organizzate per i cittadini.
**************** fine giornata ************************
25 Gennaio 2024 - giovedi - sett. 04/025
Cosa ascoltare oggi.
- redigio.it/dati1901/QGLF070-villa-comabbio.mp3 - Una villa romana nei dintorni del lago di Comabbio - 8,22 - #36 #32 rvg
Storie di Milano - El nost Milan in casa Merini
Non si può immaginare Milano senza l'irriverente ironia della sua lingua che non ha risparmiato nemmeno luoghi e avvenimenti
Una caratteristica di Alda Merini era la capacità di trasfigurare la tragedia in commedia. L'aiutava il dialetto milanese: quando era arrabbiata le veniva ancora meglio. Ho lavorato quasi quindici anni al suo fianco e come gli altri amici che l'hanno conosciuta bene, insieme alla poesia, che le era stata donata dal Cielo e di cui era portatrice naturale, Alda era un genio comico. In pochi istanti riusciva a guardare e a far vedere agli altri una situazione effettivamente tragica, che lei trasformava in qualcosa che poteva far ridere fino alle lacrime. Il dialetto milanese, con la sua ironia e il suo humour, l'aiutava a trasformare quello che la affliggeva in qualcosa di allegro. Ricordo un giorno con lei molto cupo. Alda sul letto, fuori pioveva. Un silenzio angoscioso nella stanza, finché Alda iniziò improvvisamente un monologo che sembrava uscito da El nost Milan: protagonista un ubriaco, che aveva scambiato un palo della luce per una signora. Un'improvvisazione di oltre mezz'ora.
lda impersonificava l'ubriaco che in dialetto milanese tentava di comunicare con l'immaginaria signora, che era il palo della luce. Così la giornata si trasformava. La pioggia e la cupezza erano diventati elementi necessari per il monologo, perché l'ubriaco si trovava effettivamente di notte, da solo, sotto una pioggia scrosciante, cercando di intravvedere il viso della signora che non rispondeva mai.
Ricordo le lunghe telefonate nelle quali Alda mi dettava poesie sublimi, per passare poco dopo a una bar- zelletta: poi ridendo metteva giù il telefono. Così era: pura poesia e pura allegria. Un giorno Alda chiamò il suo grande amico Alberto Casiragy. Era disperata: <<Ier sera seri dre' a pensàa de mazzam...».
Alberto le rispose: «Ma Alda, non hai appena man giato? Ma scrivi una poesia e lasciamo perdere, perché la vita è più forte della morte».
E l'Alda iniziò a dettare: «Quando cade una rosa / e viene riassorbita dalla terra / e la sua carne di fiore diventa spirito, / la terra piange per questa sua morte. / Così io piango perché tu sei caduto / nel mio grembo, inaspettatamente».
Così la poesia, insieme all'innata allegria e alla voglia di vivere, erano le sue misteriose forze. Con il dialetto sempre accanto.
MANGIARE, PER TENERE IN VITA IL CERVELLO (1/2)
Non c'era penuria di cibo, ma solo penuria di soldi. Pochi erano i soldi, molto pochi, e bisognava tirare la cinghia. Però non ho mai sentito dire che qualcuno fosse morto di fame. Magari si viveva di uova (per chi aveva le galline) di galline quando finiva la stagione produttiva delle uova (galina vegia fà bon brod) e di patate come è capitato a me. No la fame non l'ho mai patita. A volte un pasto (e non qualche volta solamente) consisteva in una scodellona da due litri colma di minestrone. E che minestrone: gambe di sedano, fagioli, carote, patate, foglie di verza intere, riso o pasta a piacere, qualche volta ne' riso ne' pasta, ma solo verdura. Cotta e ricotta ma mai frullata.
Il condimento consisteva in un po' d'olio, un pizzico di burro, e una bella fettona di lardo dalla larga e viva vena rossa.
La carne si comperava solo una volta la settimana per il brodo del risotto della domenica. Quanti piatti di risotto ci sono nella mia vita, tanti quante le stelle della via lattea: coi fegatini, con la luganiga, con i ossbus, coi bruscitt, con lo zafferano, coi funghi, ul ris in cagnon, ul risott in padela (coi fagioli e le patate). Quel riso che in tempo di guerra andavamo a barattare, in bicicletta, fino a Cameri, a Trecate, a Cerano.
Cotto in bianco con un goccio d'olio e con un po' di burro, o con un cucchiaio di salsa o di pesto, cotto col latte e con le rape, o compresso in polpette.
E la "buseca" (trippa), mangiare popolare, ma gustoso con quei fagioli borlotti o di Spagna che mi ricordavano sempre quel verso dantesco che dice: "ed elli avea del cul fatto trombetta" e la "cazola" che mia mamma preparava il giorno prima cuocendo per delle ore di fila le foglie delle verze che alla fine si riducevano a un decimo del volume iniziale.
Toponini di CADREZZATE
12) Moncalvo: altura di circa 300 metri a sud del paese al confine con i comuni di Osmate e Capronno, che i locali chiamano Muntcalv. Il toponimo è frequente anche in altre zone della Lombardia e d'Italia (cfr. Moncalvo località di Versiggia -PV-)42. Il nome, con tutta probabilità, richiama le caratteristiche di un monte poco ricoperto da alberi e arbusti (v. Comabbio n. 19).
13) Monteggia: noto come Muntége, è una piccola altura che si incontra a nord-ovest del paese sulla strada che porta verso Brebbia. Olivieri segnala in alcune carte del XIII secolo un loco Montegia (de Brebia3). Oggi il nome è legato a quello di un ponte: è infatti noto a tutti i locali il Ponte di Monteggia. Il nome si rifà al latino monticulus per indicare una piccola altura. Il toponimo è largamente presente in tutta la Lombardia con altre forme e diverse desinenze suffissali (cfr. Montecchio -CO-, Montecchie -LO-)44.
14) Montelungo: in dialetto Munteslüngh, è un poggio che si estende più in lunghezza che in altezza localizzabile tra l'area del Rondegallo e quella della Baraggiola.
15) Motta Pianca: il toponimo ricorre in dialetto come Mööt Pianch, ma qualche parlante locale è solito citarlo anche come Bianch, termine più noto e trasparente. L'altura si trova a ridosso della più alta zona detta Motte e si colloca all'intersezione delle strade che da Cadrezzate portano a Ispra, Capronno e Travedona. Motta è nome di vari luoghi lombardi con il significato di "mucchio di terra". L'origine è sicuramente da ricercarsi nel latino volgare mutta, forse originato da una base celtica muts. Una possibile interpretazione per Pianca può essere cercata nel termine tardo latino planca (o palanca) con il significato di "superficie liscia anche in pendio" (cfr. Pianca, località sopra a Mandello -LC-, Pianca frazione di San Giovanni Bianco -BG-)46.
L'organizzazione della necropoli
Non è possibile definire con precisione l'estensione della necropoli di Canegrate, il numero di tombe e la loro precisa disposizione. Al momento delle campagne di scavo, infatti, alcune zone del sepolcreto erano precluse all'indagine per la presenza di edifici o già intaccate dalle attività di cava.
L'area indagata da Ferrante Rittatore dal 1953 al 1956 è una fascia di 42 m in senso ovest-est e di 19 m in senso sud-nord, per un totale 680 mq. Tuttavia, tenendo conto delle scoperte iniziali documentate dall'ing. Sutermeister nella cava Morganti e nella proprietà Rimoldi, è probabile che la necropoli si estendesse per 65 m in senso ovest-est e occupasse oltre 1200 mq.
A non grande distanza, inoltre, vi erano forse anche altre aree di sepoltura: ad esempio la tomba rinvenuta 600 m a sud, presso la scuola dell'infanzia, nel 1954, può appartenere a un diverso nucleo di tombe.
Il numero di sepolture rinvenute tra 1953 e 1956 è di 164. Questo valore però non è realistico: nell'area della casa Colombo potrebbero esservi state circa 50 tombe, altre decine potrebbero essere state distrutte nella zona orientale della necropoli, fortemente intaccata dalla cava Morganti. È verosimile che le tombe fossero almeno 300.
Osservando la planimetria di scavo, la disposizione delle sepolture appare a tratti più rada, a tratti invece abbastanza fitta. Si riconoscono infatti zone di maggiore densità, in cui le tombe risultano anche a contatto e potrebbero suggerire legami familiari. In questo caso è plausibile che vi fossero segnacoli o elementi per distinguere i vari nuclei.
Durante lo scavo sono state individuate anche alcune aree carboniose, a volte caratterizzate dalla presenza di cocci e ossa combuste, che Rittatore interpretò come aree di cremazione (ustring).
Rituale funerario e strutture tombali
Il rituale funerario della cultura di Canegrate è la cremazione esclusiva. È questa la pratica funeraria prevalente nella tarda età del Bronzo (dal XIII secolo a.C. circa) anche in Italia nord-orientale e in ampie aree a nord delle Alpi dove, data la presenza di estese necropoli a cremazione, si è parlato di cultura dei Campi di Urne.
Le tombe sono costituite da un pozzetto in cui è deposta l'urna cineraria e che è colmato, nella maggior parte di casi, con la terra carboniosa del rogo. Si tratta quasi sempre di pozzetti in nuda terra, talora con una pietra sul fondo e una a copertura. Fanno eccezione alcune tombe con ciottoli a rivestimento delle pareti (t. 75, t. 98) o disposti a formare una specie di cista litica a protezione dell'urna (t. 9), nonché prive di cinerario, con le ceneri coperte da qualche frammento ceramico.
Le tombe di norma sono singole e contengono una sola urna, priva di ciotola- coperchio. Vi sono tuttavia pozzetti utilizzati per più ossuari e pozzetti con un solo ossuario ma contenente deposizioni multiple. Ad esempio, nell'urna della t. 9 erano sepolti 5 individui subadulti, di età tra 1 e 10 anni, mentre l'urna della t. 25, bisoma, conteneva un adulto di genere non specificato e un bambino. Situazioni di questo genere sono solitamente riferite a decessi simultanei e a individui con un legame di parentela o affettivo.
Un aspetto caratteristico del rituale consiste nella posizione capovolta dell'urna, cioè con la bocca rivolta verso il basso, che a Canegrate riguarda quasi la metà delle tombe analizzabili. Il fenomeno è stato ricondotto al genere del defunto, poiché i corredi con elementi segnatamente maschili, come le armi, hanno l'urna capovolta, mentre quelli femminili hanno l'urna dritta. Urne capovolte sono documentate anche in altri contesti della cultura di Canegrate, come a S. Jorio di Locarno e ad Appiano Gentile (CO).
Si parla di "orientamento bipolare secondo il genere"; spesso le comunità protostoriche regolavano l'uso dei sepolcreti - e talora anche l'accesso - secondo parametri legati al sesso, come sembra in questo caso, all'età, al lignaggio e ad altre condizioni significative per i codici che ne definivano l'articolazione sociale.
**************** fine giornata ************************
26 Gennaio 2024 - venerdi - sett. 04/026
Cosa ascoltare oggi.
- redigio.it/dati1901/QGLF069 -lago-comabbio.mp3 - Cenni storici sul Lago di Comabbio - 5,06 - rvg
La colonna del diavolo (Basilica di Sant'Ambrogio)
Milano anche il diavolo ci ha messo lo zampino, anzi, le corna. E le ha lasciate impresse in maniera indelebile nella colonna romana posta a sinistra dell'ingresso della Basilica di Sant'Ambrogio, dove a circa un metro di altezza dal suolo sono visibili due fori perfettamente rotondi. Secondo un'antica leggenda, il diavolo avrebbe tentato il vescovo Ambrogio in persona, per farlo vacillare dalla sua fede, ma in cambio avrebbe ottenuto solo un fortissimo calcio, finendo per piantare le corna contro la colonna, prima di sfuggire al vescono dileguandosi attraverso i due fori. La colonna in questione è un resto dell'antico palazzo imperiale fatto erigere da Massimiano nel III secolo, quando l'antica Mediolanum era capitale dell'Impero romano d 'Occidente. In ricordo di questo avvenimento, si dice che talvolta dalla colonna escano effluvi solforosi, e che la domenica che precede la Pasqua il diavolo faccia ancora la sua comparsa alla guida di un carro che carica le anime dei dannati da portare all'Inferno.
MANGIARE, PER TENERE IN VITA IL CERVELLO (2/2)
E le cotiche belle grasse con qualche pelo refrattario alle raschiate del "salamat" e le costine non spolpate, ricche di carne. E l'odorino che usciva invisibile ma stuzzichevole in cortile e arrivava fino in piazza. La cottura era lunga e meticolosa. "Ul fa bon" delle cotiche e delle costine doveva impregnare le verze che prendevano una colorazione quasi bruno-bluastra.
Ut unum sint. Davvero verze, brodo, cotenne e costine dovevano diventare una cosa sola.
L'insalata "di patati e fasoeu" con un po' d'aglio e abbondanza di prezzemolo; olio, sale, lardo venato o pancetta, con una presa di sale; polenta bergamasca coi bruscitt o col merluzzo cotto nel latte: castagne cotte mangiate col latte appena riscaldato; pan cotto col "pane giallo" che si faceva cuocere nel forno comunale che c'era in piazza e che doveva durare una settimana intera.
Insieme si cuoceva anche il pane uvetta (con l'uva secca e dolce: uva sultanina) e fichi; la "paciarota" (avanzi di minestra con pane giallo), la quagiàa: latte cagliato che si raccoglieva in un grande tovagliolo perché ne sgocciolasse l'acqua e che mangiavamo zuccherata: quel che restava era la "furmagina" che si gustava in tante maniere diverse: al naturale, sulla insalata verde o insaporita col sale e pepe. E 'I "sancarlin"? E' proprio una fortuna non essermi mai mancato l'appetito e che stomaco e fegato abbiano sempre funzionato a meraviglia! I disnà da spus, i banchetti annuali dei coscritti, le commemorazioni solenni di feste speciali, dei trentesimi o quarantesimi di matrimonio erano vere e proprie "cerimonie mangiatorie", e duravano ore e ore. Durante il loro svolgimento capitava di tutto: cantare, ballare, mangiare, e ancora mangiare, ballare e cantare: pareva che non dovesse finire mai. E bere, bere, bere: vini corposi di alta gradazione (non conoscevamo la birra).
Vini pugliesi pigiati nelle cantine della cooperativa che si spillavano addirittura dalla botte. Quando si metteva mano al vino prodotto in loco, nostro orgoglio e vanto enologico, (ul strasciapata) i bevitori perdevano subito la trebisonda, provavano difficoltà non solo a camminare, ma perfino a stare in piedi.
Ah, che vino: si diventava subito brilli e che potere diuretico, aveva! (ecco il perché dello "strasciapata").
E per finire: chi a Verghera mangia ancora la rusumàa? Bianco d'uovo sbattuto a neve, latte tiepido appena munto e vino rosso: un miscuglio che per uno stomaco delicato era come mangiare qualcosa di indigeribile.
Era forte la rusumàa e pesante, difficile sì da digerire, ma aveva un profumo tutto particolare, una delicatezza da non dire e una bontà da nettare degli dei.
Che vita beata quando eravamo poveri e semplici !
Toponini di CADREZZATE
16) Motte: in dialetto Mööt, è la maggior altura di Cadrezzate e sulla sua cima si ergono la Cascina Castello e la Cascina Belvedere. Il Mööt (in dialetto la voce è maschile) è raggiungibile tramite la vecchia strada che da Cadrezzate portava a Ispra, oggi sostituita dalla Strada Provinciale. Un tempo ospitava le numerose vigne presenti in zona che venivano coltivate attraverso ampi terrazzamenti che hanno plasmato la forma del Mööt con i caratteristici gradoni, ancora oggi scorgibili nonostante l'abbandono delle vigne.
17) Novelle: strada oggi non localizzabile registrata sulle carte del Catasto Regio del 1905.
18) Padolette: strada che continuava un tempo il Rossino. Entrambi i toponimi oggi non sono più conosciuti. Le voci sono tratte dalle carte del Catasto Regio del 1905.
19) Passeraccio: zona boschiva che si inserisce tra la strada che porta verso Ispra e la strada che gira verso il limitrofo comune di Capronno. Il nome sembra essere trasparente e potrebbe suggerire un antico luogo di caccia agli uccelli (v. Comabbio n. 30).
20) Pauretta: strada di incerta localizzazione, forse da individuare nella zona est del paese in un'area adiacente al lago. Il nome potrebbe risalire alla voce dialettale pau "palude" con la presenza del suffisso di diminutivo -èta in dialetto e -etta in italiano. Notiamo anche in questa voce il rotacismo della laterale. Un'altra difficile ipotesi etimologica fa risalire la voce al nome pauràt che in dialetto sembra designare "il conoscitore e frequentatore della palude"47
21) Persico: strada oggi non ben localizzabile e documentata in carte notarili di fine Ottocento, che si presuppone congiungesse il centro del paese al Lago di Monate. Il pesce persico, insieme alla tinca e al cosiddetto lavarello, è la risorsa principale per i pescatori della zona.
1. Le prime civiltà della pianura padana
I primi sicuri segni della presenza dell'uomo nel nostro territorio risalgono al secondo millennio avanti Cristo, quel periodo che va sotto il nome di età neolitica e che ha come centri principali, a noi vicini, l'Isolino del Lago di Varese e la Lagozza di Besnate. Erano villaggi di palafitte, con economia agricola e pastorale. Dai reperti conservati nei musei di Milano, Varese, Gallarate e Legnano, possiamo capire che già vi si lavoravano il lino e la lana.
L'epoca successiva (tarda età del bronzo) è caratterizzata dalla "cultura" di Canegrate, che prende nome da una necropoli ritrovata nei pressi di quella cittadina, vicino a Legnano. Ceramiche, bronzi, armi, spille e collane testimoniano di una civiltà più evoluta, che, dai confronti effettuati dagli archeologi, rivela sorprendenti somiglianze con usi e costumi di popoli d'Oltralpe dello stesso periodo.
All'età del bronzo segui l'età del ferro, che vide la fioritura, nel nostro territorio, dell'importante civiltà di Golasecca, protrattasi nel tempo dall'800 fino al 400 a.C.. La necropoli (località non troppo distante dall'abitato, ove si seppellivano i morti), il cui primo scavo sistematico risale alla fine del secolo scorso, ci ha mostrato i notevoli progressi nella tecnica e nell'arte compiuti dagli abitatori, sicuramente di stirpe ligure, di Golasecca, collocata poco a Sud di Sesto Calende, cosi da dominare la via di comunicazione naturale del Ticino.
Proprio lungo e attraverso il fiume, Golasecca commerciò con popolazioni anche lontane e sicuramente più evolute, come gli Etruschi; questi le trasmisero, fra l'altro, l'alfabeto come ci rivela la stele di Vergiateora al Museo Archeologico di Milano che è senza dubbio la più antica testimonianza dell'uso della scrittura nella nostra zona.
Ai Liguri di Golasecca si sovrapposero nel V secolo a. C. popolazioni celtiche, tra le quali gli Insubri, che la tradizione vuole fondatori di Milano. Queste nuove popolazioni non cancellarono la civiltà precedente, ma imposero unicamente la loro superiorità militare, che tuttavia crollò nel momento in cui Roma conquistò la pianura padana, dopo la battaglia di Clastidium - l'odierna Casteggio, presso Pavia - nel 222 a.C..
Cosa e' il rotacismo
Il rotacismo nella lingua lombarda
Nella variante milanese della lingua lombarda, la -l- intervocalica era comunemente sostituita da -r-, mentre nel dialetto moderno questa caratteristica tende a scomparire.
Nei dialetti della Lombardia occidentale il rotacismo è in generale arretramento, in particolare nella città di Milano: qui sopravvivono comunque forme come vorè (volere), varè (valere), dorì (dolere), cortèll (coltello), scarogna (scalogna), pures (pulce), sciresa (ciliegia), carisna (caligine), regolizia o regorizia (liquirizia), mentre risultano scomparse forme come ara (ala), candira (candela), sprendor (splendore), gorà (volare), gora (gola), Miran (Milano) e scœura (scuola); [2] Queste ultime forme sono ancora rintracciabili nella periferia milanese e nelle altre province lombarde, in particolare nelle aree montane e rurali.
**************** fine giornata ************************
27 Gennaio 2024 - sabato - sett. 04/027
Cosa ascoltare oggi.
- redigio.it/dati1901/QGLF048-comabbio-telefono.mp3 - Nei nostri paesi intorno al Lago di Comabio, arrivo' il telefono - 3,12 - #36 #48 rvg
La scrofa semilanuta - (piazza dei Mercanti, palazzo del Broletto Nuovo)
La piazza dei Mercanti è uno dei luoghi più antichi di di Milano. Un tempo era il centro da cui si poteva accedere alle sei vie dedicate alle corporazioni di arti e mestieri della città: Armorari, Orefici, Cappellari, Spadari, Speronari e Fustagnari, alcune dell e quali sopravvissute nella toponomastica della città moderna. Con la splendida Loggia degli Osii, risalente a oltre settecento anni fa, l'antico pozzo e il Broletto Nuovo, la piazza custodisce anche il più antico simbolo della città: la scrofa semilanuta, visibile nel bassorilievo de l secondo arco del Broletto Nuovo e tra le zampe dell'aquila che è posta sul balconcino della Loggia. La leggenda narra che questo animale dall'aspetto poco familiare sia stato il simbolo della città prima dell'età comunale e del biscione, e sia ricollegabile alla fondazione di origine celtica - narrata anche da Tito Livio nelle sue Historiae - ad opera di Belloveso, il quale, interrogati gli oracoli in merito al sito dove far sorgere le fondamenta della città, ebbe questa risposta: «Una porca di lana ricoperta segni il principio alla cittade e il nome». Ed ecco sorgere Mediolanum.
Olì da merluzz
Questo era invece il ricostituente per eccellenza. Quando andavo ancora all'asilo prima del pranzo del mezzogiorno, la suora Davida ci metteva tutti in fila indiana, e dalla bottiglietta di ciascuno, ci metteva in bocca una cucchiaiata del liquido grasso e incolore e subito dopo, direttamente nella bocca ancora spalancata, un bombon dolcificante. Ciascuno possedeva la sua bottiglietta da oli da merluzz e aveva il cucchiaio personale. Poiché siamo all'asilo, restiamoci. Quando era di turno la minestra noi bambini ci divertivamo a togliere tutti i fagioli che mettevamo nel fazzoletto e schiacciavamo sulla fronte ricavandone una specie di focaccetta che divoravamo come se fosse stato cibo degli dei. Era la figascèta. Ciascuno di noi aveva anche in dotazione il flacone dello sciroppo Famèl specifico contro la tosse e la bronchite leggera. Per detti disturbi ci facevano bere decotti ottenuti bollendo i bisìi (le ortiche) i barbìs dul frumenton (le barbe del granoturco) i fiur dul sambùg (i fiori del sambuco): se le affezioni erano di lieve entità. La farmacopea contadina era ricca di risorse che costavano poco o niente ed era facile trovare un po' dappertutto. Malattie e medicine: senza volerlo il pensiero corre al dottor PURGONE di Molière.
Toponini di CADREZZATE
22) Peverascia: è il nome di un prato non molto esteso a sud-est del centro del paese che ospitava forse un tempo la peverascia, in italiano nota come "centonchio": erba infestante che fiorisce spontaneamente durante tutto l'anno per lo più accanto ai muri e nelle strade non selciate. (cfr. Peveranza frazione di Cairate -VA-)48.
23) Piaggiolo: area pianeggiante a ridosso del Lago di Monate. Il nome può essere ricondotto al latino plaga "pianura""" continuato in dialetto prima e in italiano poi con un diminutivo (cfr. Piaghedo, frazione di Gravedona -CO-)50.
24) Porà: toponimo registrato sia nelle carte del Cessato Catasto Lombardo del 1860 sia nelle carte del Catasto Regio del 1905. Oggi se ne ignora la localizzazione. L'etimologia del termine è incerta: potrebbe valere o "poroso", come riferimento al terreno, o "piantato a porri" (cfr. Porè -LC-)51 per il tipo di coltivazione in esso praticata 2 (cfr.
25) Prada: toponimo frequente che continua il plurale del latino pratum. La voce è presente in molti luoghi della Lombardia con suffissi differenti (cfr. Pradazzo -CR-, Pradella -CR- Pradera -SO-)53.
26) Prati Grassi: il toponimo riferisce delle qualità ottimali per la coltivazione di quel terreno. L'aggettivo "grassi" infatti è riconducibile al termine "grasso" apposto a molti toponimi in Lombardia (cfr. Abbiategrasso -MI-, Bulgarograsso -CO-)54
27) Preda del Vassallo: toponimo che designava con molta probabilità una grande masso (préda "pietra" dal latino petra attraverso la forma metatetica *preta) presente in un terreno dato in custodia ad un vassallo. Non è da escludere la possibilità che "vassallo" si riferisca ad un cognome o soprannome di un antico proprietario.
28) Quadro del Morone: il toponimo è composto da due nomi. Il primo probabilmente fa riferimento o alla forma del campo o ad una unità di misura di estensione (cfr. Quadro località di Casteggio -PV)55. Il secondo è riconducibile alla voce dialettale morón "gelso" (cfr. Morona e Morone località presso Casteggio-PV-)56.
Busto Arsizio - cap. 7 (3/4)
Si vedono da lontano guizzi di luce (lo ha racconato un testimone oculare), si sente sempre più insistente il rombo del cannone. Mezza Busto, che durante la notte si era riversata a Lonate Pozzolo per vedere la 2° divisione sarda che aveva passato il Ticino e puntato su Castano, il mattino del 4 si riversa a Castano e a Vanzaghello dove dicono siano arrivati i bersaglieri, che invece sono a Corbetta. Altri si spingono anche più avanti, verso Cuggiono e Magenta: sono l'avvocato Travelli, un Antonio Ballarati e certo Bruschetti.
Questi spostamenti frenetici di torme di gente « che vuol vedere » sono incredibili. Mentre le strade sono ingombre di cariaggi di ogni sorta che ostacolano la marcia delle divisioni, al punto che più volte i soldati sono costretti ad abbandonare le strade per buttarsi attraverso i campi incontro al nemico, i popolani si muovono, a frotte di invasati e di curiosi che saltano siepi e traversano i terreni coltivati, e si trovano più volte nel pieno della confusione di una battaglia che, come questa di Magenta, ancora a tarda sera, non si riesce a capire chi l'abbia vinta.
È notte alta, il cannone non ha ancora smesso di brontolare di lontano, e già passano in Busto, mentre tutti vegliano e sono per le strade, i primi fuggiaschi e i primi feriti. Sono gli austriaci - formidabili vecchi soldati che hanno disperatamente tentato di salvare l'onore; sono i turcos, soldati marocchini, abilissimi maneggiatori di coltello (hanno sempre combattuto solo alla baionetta, e andavano contro il nemico con furia incredibile, spaventosamente trasformati in ossessi, urlando, saltando, agitandosi per stordire e impaurire gli avversari); sono i bersaglieri del 9° battaglione del generale Fanti, che hanno combattuto a Marcallo. Cercano acqua e pane e bende, e gli ussari dell'Urban non sono più i prepotenti di prima.
L'Urban, che viene da Abbiategrasso, dopo aver perso, in questi giorni, tempo prezioso intorno a Busto (e una parte della colpa della disfatta è stata proprio attribuita al suo mancato intervento) nell'inoltrato pomeriggio del 4, con grande spavento degli abitanti, è di nuovo in paese con 3000 uomini; fa legare le campane per paura di sommosse, mette tutto a soqquadro, perquisisce, si fa consegnare scorte di viveri e, il mattino del 5, è sulla Piazza Santa Maria, vuole tutta la posta, apre ogni lettera e butta a terra quelle che non lo interessano; poi, improvvisamente ordina la partenza. Si racconta che, in questo momento, davanti agli occhi stupefatti dei bustesi, butta sul banco dell'Albergo d'Italia una moneta da venti franchi con l'effige di Napoleone, e dice: « il vostro amico sarà qui a momenti ».
Una singolare avventura aspetta i tre bustesi che, dopo aver passato la notte per i campi fra il tuonare e il lampeggiare furioso della battaglia di Magenta, il mattino, mentre si aggirano ancora fra le campagne biancheggianti dei nastrini delle cartucce strappati coi denti, in mezzo a feriti che urlano e ai morti che ingombrano strade e fossati, vengono avvicinati da due generali che arrivano a cavallo, seguiti da uno stuolo di ufficiali. Uno di essi li interroga, e risponde per tutti l'avvocato Travelli. Riferisce che l'Urban è ormai partito da Busto coi diecimila uomini della sua divisione, in ritirata verso Legnano. Il generale gli chiede come sappia che gli uomini dell'Urban siano proprio diecimila e il Travelli risponde di saperlo per avere egli controllate, proprio in quei giorni, le note relative alla requisizione del pane. Il generale, che è il Mac-Mahon, da pochi minuti duca di Magenta, si volta all'altro per riferirgli ed i nostri si accorgono esterefatti che si tratta di Napoleone, Imperatore dei Francesi.
Gli uomini che intanto sopravvengono da Busto e dai paesi, non sanno ancora rendersi esatto conto di quel che è successo durante la notte. I primi che passano per Castano si vedono intimare l'alt da una sentinella del Saluzzo che, sentito della fuga dell'Urban si mette a saltare dalla gioia. Poi, man mano che si avvicinano a Magenta, i morti e i feriti, che si trovano dappertutto, inducono molti dei nostri ad arruolarsi per la raccolta e per la sepoltura.
**************** fine giornata ************************
28 Gennaio 2024 - domenica - sett. 04/028
redigio.it/rvg100/rvg-04-028.mp3 - Te la racconto io la giornata
Cosa ascoltare oggi.
- redigio.it/dati1901/QGLF046-stanghe-asini.mp3 - Stanghe e asini nei paesi del lago di Comabbio - 4,30 #36 #48 rvg
La Foca barbisa - (Il tram per la pulizia delle strade)
Il nome riecheggia ancora nella memoria di molti milanesi, ma forse si è persa traccia della sua origine, e dunque la Foca barbisa sembra appartenere alla schiera degli animali mitologici. Al contrario, si tratta dell'ennesimo esempio di efficienza ambrosiana. All'inizio del Novecento, infatti, per mantenere pulite le strade polverose della città, in gran parte ancora in terra battuta, l'amministrazione comunale decise di riadattare alcuni tram installando sulle carrozze - per l'occasione dipinte di grigio, per distinguerle da quelle adibite al trasporto dei passeggeri - delle capienti cisterne d'acqua che alimentavano due potenti getti situati nella parte anteriore della vettura. Al suo passaggio, il tram grigio sputava fiotti d'acqua ai due lati e pareva veramente una foca con i baffi. Ma non fu l'unico tram a meritare un divertente soprannome: prima di lui c'era già stato il Gamba de legn, e più tardi arriveranno le Gioconde, i tram funebri che portavano le salme al camposanto.
UL CAMP DI CENT PERTIGH
Non si finisce mai di sudare e soffrire in quel campo immenso, senza fine, che è il simbolo della vita. Semm sempar da capp: sempre da capo. 'Na olta la caazaia, 'na olta prima da rià nanca a metà, 'na olta un po' prima da ria in fond. In principio, a metà, in fondo. In fondo, a metà, in principio. Si capovolge il ruolo dell'operare, cambiano i momenti. Ma è sempre la stessa favola antica. Avant e indre e po' sa turna dal fond a la caazaia.
O Madona l'è '1 camp di cent pertigh, era questa, immancabile, l'esclamazione di rammarico, quando si doveva incominciare a tagliare il prato, a mietere il frumento, a cogliere il granoturco o cavare le patate, nel campo grande quello riservato alle coltivazioni più importanti.
Al finiss pù: non finiva mai. Si incominciava col fresco, di buon'ora. Ma man mano che il sole saliva alto nel cielo e si facevano sempre più sentire e il caldo e la fatica: o Signur sem chi ancamò in principi. Incò a emm a cà pù. A sera si andava si, a casa. Stanchi e soddisfatti. Era la schiena il punto dolente. Stanchi morti noi bambini. Ma soddisfatti i vecchi perché quel giorno i ean riàa in fond al camp di cent pertigh. Ora che la vita volge al tramonto illuminata da vespero, la stella della sera, ora che è il momento, come diceva il mio professore del liceo, di tirare i remi in barca, di fare un po' di conti, mi pare di essere ancora curvo a raccogliere nel cavagno le patate di una annata lontana, proprio lì dove comincia la caazaia. Mi pare di non essermi mai mosso da quel posto. Guardo in giro: frumento, gelsi, siepi, la strà Casta la stradicciola che portava a Castano Primo e ul camp di cent pertigh, cioè la nostra vita dove ognuno di noi ha avuto, anche se non vista, la sua stella cometa.
ALL'OMBRA DEL CAMPANILE - Le campane (1/2)
Nel 1680 il nostro campanile aveva solo due piccole campane ; una venne venduta e portata a Turbigo (20 febbraio 1688), l'altra, venduta e mandata a Milano, due mesi dopo.
All'inizio del XVIII secolo, sul campanile di Verghera erano installate tre piccole campane. I fedeli si lamentavano per la pochezza delle campane e il parroco don Lepori pensò bene di indire, nei primi di gennaio del 1785, una sottoscrizione tra le poche famiglie che contava la comunità per poter dotare il campanile di campane più grandi e sonore.
Capitò proprio allora l'occasione di acquistare le tre campane del monastero delle suore di S. Michele di Gallarate appena soppresso. L'acquisto "costò" ai vergheresi la bella cifra (per quei tempi, naturalmente) di £. 2982 e se ne incaricò Giuseppe Locarno, con l'assistenza del suo parroco.
Dunque campane più grandi e sonore che, con buona pace dei vergheresi, andarono a sostituire quelle precedenti, vendute a loro volta ai cittadini di Lonate Pozzolo.
Ma col passare del tempo non soddisferà più l'ambizione dei fedeli nemmeno l'ultimo "lotto di bronzi" acquistato. I paesi vicini vantavano campane più rispettabili: non erano motivi di carattere religioso alla base del mal contento, ma di orgoglio municipale ferito e umiliato, era pura e semplice invidia.
Aumentava la popolazione della ex cascina (800 anime in tutto) e aumentava anche il benessere; in mezzo al popolo dei contadini si facevano strada i mercanti, gli esercenti, i negozianti. Ed ecco che nel 1884 il parroco don Luigi Brambilla dovette capitolare: fece togliere dal campanile le campane in attività, furono spezzate e fuse nel nuovo concerto di cinque campane" che ancora oggi, dalla cella campanaria, guarda dall'alto il paese di Verghera che cresce sempre più in uomini, in case e in ricchezza (e in sapienza?),
E adesso seguiamo le varie peripezie cui si dovette sottostare per la realizzazione, il trasporto, la messa in opera e la benedizione delle campane e il corteo dei carri (14) che le portarono nella loro nuova dimora; lasciamo la parola al maggior protagonista di questa vicenda "canora", cioè al parroco di allora Don Luigi Brambilla. Dovette essere una manifestazione davvero unica e suggestiva.
Parla il parroco: "Il peso complessivo delle tre campane esistenti era di Kg. 830, fuse nel 1771 dalla rinomata ditta Comerio (di Busto Arsizio?). Nel 1884, essendo il castello delle campane in completo disfacimento, si pensò di rinnovarlo costruendo un cupolino che rialzasse e desse ornamento al campanile, e istallando un nuovo concerto di cinque campane.
Fu nominata una commissione per realizzare detta opera. Venne scelta la ditta Barigozzi di Milano e il concerto fu stabilito in mi-bemolle. Le tre vecchie campane vennero inviate a questa ditta e venne fissato il 25 Settembre 1884 come giorno per la fusione.
La mattina del 25 Settembre, alla presenza di una rappresentanza di vergheresi, che passò la notte precedente vigilando il forno di fusione nel quale erano già state messe le campane vecchie ridotte a pezzi, ebbe inizio l'importante operazione della fusione, che riuscì ottimamente.
Ul nom da batesim
Ambra, Giada, Ivan: modernità. Carlo, Mario, Giovanni, Giuseppe, Francesco, Luigi: addio, nomi di una volta. Ambrogio? A Milano è quasi più facile trovare un Gennaro o un Salvatore nato da milanesi che un Ambròs, frutto di amore meneghino. Càmbia tuscoss. Il nome non è più nome tradizionale di famiglia, omaggio alla memoria del nonno o del genitore morto, ricordo e rinnovo di un passato famigliare da non dimenticare, eredità ricevuta e da trasmettere. Qui parlo del nome, ma non si tratta solo del nome. Svaniscono, si rarefanno, sbiadiscono i connotati di un paese come quelli di una famiglia. Donne e buoi, paesi tuoi: non tanto nel senso che uno di Verghera debba sposare per forza una di Verghera, ma nel senso soprattutto di affinità di sentimenti, di abitudini, di tradizioni. Il contatto di civiltà diverse non sempre dà luogo a civiltà migliore. E' più facile accogliere a volte il negativo, più del positivo e il sovrapporsi di usi e di costumi nuovi cancella e mortifica tradizioni e modi di vita che sarebbe bene restassero vivi e sempre presenti.
Ma torniamo ai nomi. Guai se mio padre non avesse imposto al suo primo figlio il nome di suo padre. Se io fossi nata femmina avrei dovuto chiamarmi Caterina, nome della mia nonna materna. Formalità? Non direi. Pensando le "cose" in questi termini tutta la vita sarebbe o dovrebbe essere una continua e inutile formalità. Luisò Sen, Luisen, Luis, Carleto, Carleten, Carlò, Carlèn, Cèco, Cecò, Cechèn, Ciaschèn, Cech, Marièta, Marietina, Marion, Mieta, Mietèn, Mariùcia, Mariucina, e via, via. Ambra e Giada. Nomi freddi e senza vita come le pietre di cui portano il nome.
**************** fine giornata ************************
:# 000000";>