RVG settimana 18BIS
Radio-video-giornale del Villaggio
Settimana-18bis del 2024
RVG-18bis - da - Radio-Fornace
Settimana 29⁄04 - 2024-04-29 - Dicembre - Calendario - la settimana
29⁄04 - 18-120 - Lunedi
30⁄04 - 18-121 - Martedi
01⁄05 - 18-122 - Mercoledi
02⁄05 - 18-123 - Giovedi
03⁄05 - 18-124 - Venerdi
04⁄05 - 18-125 - Sabato
05⁄05 - 18-126 - Domenica
29 aprile 2024 - lunedi - sett. 18bis-120
Notizie dal Villaggio
Cosa ascoltare oggi
Storia delle elezioni nel XIII secolo - Come avvenivano le elezioni in quel secolo
LA SOLIDARIETÀ
A Milano non si lascia indietro nessuno: gh'è semper quaidun che te dà ona man!
M: Un aspetto, quello della solidarietà, che spesso, infatti, mescola motivazioni religiose e civili, e che - fai poprio bene a ricordarlo - vede anche qui primeggiare la nostra città. Per la verità, l'è nò che i milanes sien inscì tucc avert e disponibil vers i alter, ma è un fatto che, quando c'è da tirar fuori i quattrini per aiutare quelli che hanno bisogno, noi a Milano siamo sempre in prima fila. Quaidun el ricorda quando si aprivano le sottoscrizioni per aiutare le vittime di gravi disgrazie che accadevano in Italia e c'era l'usanza di trasmettere alla radio i dati che arrivavano dalle varie città e, regolarmente, da Milano arrivavano contributi pari quasi a quei de tucc i alter città miss insemma; ed erano tanti i milanesi che proprio di questo si sentivano orgogliosi. E non parlo solo di soldi o beni di prima necessità, ma an- che di interventi concreti di assistenza e aiuto a che ne ha bisogno.
C: Minga per nient semm cognossuu per quei "cont el coeur in man", anche se poi ci sentiamo dire che è perché semm pussee sciori... In effetti, se è indubbiamente meritevole fare del bene con soldi e fatti concreti, mi sembra però che non abbiamo la fama di essere ospitali, non dico negli alberghi, ma nelle nostre case: anche se se aiutiamo volentieri i bisognosi, cerchiamo di non farlo in casa nostra.
M: L'idea che gli altri si fanno di Milano è piena di luoghi comuni e forse proprio il più sbagliato è quello che non saremmo ospitali. Certo semm minga abituaa a fa tanti salamelecch, ma, se guardiamo alla sostanza, è difficile trovare in Italia una città più accogliente ed ospitale di Milano. Il milanese, però, dall'ospite si aspetta, almeno, che si adegui alle regole locali...
C: Mah, mi sembra piuttosto che siano certi stranieri a voler imporre a noi le loro regole. Comunque, fai bene a ricordare che da sempre Milano è un luogo dove l'è pussee facil de vegni accolt, e non solo se in buona salute ma, soprattutto, se bisognoso di cure. E fin dai secoli passati: penso all'Ospedale Maggiore, costruito nel Quattrocento.
M: E negli anni si sono affiancate tante altre istituzioni, magari piscinitt e meno cognossuu, ma non per questo meno benemerite, che si occupano dei più svariati bisogni - l'infanzia, la disabilità, l'indigenza... - e, alla base di tutte, c'è sempre la partecipazione dei milanesi attraverso il volonta- riato, che a Milano vede un numero sempre maggiore di persone impegnate ad offrire poco o tanto del proprio tempo e delle proprie possibilità a tutte queste iniziative, grandi o piccole che siano. Pertanto, se a qualcuno non sembriamo così ospitali ed espansivi, in realtà, quand gh'è de fa accoglienza a quaidun, i primm che ghe vann inconter hinn quasi semper i milanes; e minga domà cont i danee, come ho già detto, ma con una presenza concreta e disinteressata, senza distinzioni di idee, credo e colori.
C: In effetti, credo che ognuno di noi el cognossa quaidun ch'el se dedica al volontariaa, sulle ambulanze, negli ospedali, a servire i pasti ai poveri, ad assistere i disabili. Sono numerosissimi i milanesi che donano il sangue, insegnano l'italiano agli stranieri, tengono i corsi nelle università della terza età, perché sono sempre di più le persone che vogliono imparare quando vanno in pensione.
M: In effetti, in Italia, quando si parla di pensionati, si pensa subito a vun settaa giò sora ona panchina al parch o a guardà la gent che la lavora, ma qui a Milano chi ha la fortuna di andare in pensione in buona salute el pensa subit a fa quaicoss de util: dall'operaio al manager, tutti cercano di mettere a disposizione la loro professionalità a chi ne può aver bisogno. E anche moltissimi liberi professionisti, che in pensione non ci vanno praticamente mai o quasi, trovano il modo di render si utili alla collettività...
C: ... Magari anche solo andando ad assistere i bambini che escono da scuole... Credo, però, che la solidarietà, sempre ammirevole, la poda fà ben pocch senza le adeguate strutture sanitarie e altri servizi essenziali. Ho già ricordato la Cà Granda, il nostro glorioso Ospedale Maggiore, uno dei primi ospedali moderni al mondo; ma oggi, tutto attorno alla città, ne abbiamo una serie di primissimo livello, tanto che vegnen chi a curass de tutta Italia, e anca da foeu ra. Anche se qualche magagna sembra stia saltando fuori anche qui da noi... Ho già ricordato la Cà Granda, il nostro glorioso Ospedale Maggiore, uno dei primi ospedali moderni al mondo; ma oggi, tutto attorno alla città, ne abbiamo una serie di primissimo livello, tanto che vegnen chi a curass de tutta Italia, e anca da foeura. Anche se qualche magagna sembra stia saltando fuori anche qui da noi...
MENZOGNA E SORTILEGIO
Me ne sono mai ricordato eppure sono "debolezze" ancora all'ordine del giorno. Credenze molto diffuse. Parlo del malocchio, della malasorte, della superstizione e di come scongiurarle. Elenco le più conosciute e le più temute. Non faccio commenti. Ricordo solo che siamo ormai arrivati alle porte del 2000 e che i nostri bisnonni oltre che quasi analfabeti non disponevano degli attuali mezzi di informazione.
Credenza: porta male incontrarne uno per strada, incontrarne tre rappresenta una grande disgrazia. Per scongiurare il pericolo basta toccare la spalla della prima persona che ci capita sottomano per strada.
La scàa - Purta mà ste ghe pasi sota. Primm: intant che te pasi al po' sempar vegnitt in co un quicoss ch'al scapa via di man a chi ghe su a laurà. Secondo: passare sotto (motivo simbolico) equivale a bloccare il flusso vitale. O questi maghi, che fantasia malata.
Gatt - (Sopratutt sa l'è negar) purta mà incuntral par stràa peg se 'I tà traèrza la stràa parchè, i disan i maghi chi san tuscoss, ul gatt negar l'e l'incarnazion dul diàul o d'una strìa. Par scongiurà 'l pericul l'e mei turna indrè e cambià straa. O forse l'e mej cambià cò.
Fazulett - Sa cred che regalà o ciapà in regal un fazulett al purta scarògna. Al sariss tame augurà lacrim al destinatari. Niente disgràzi se insema al fazulett sa regala anca 'na munèda. Magari una moneta rara e preziosa.
Sa - (Il sale) Credenza: porta male rovesciarlo a tavola. Sentite il perché. Prima ipotesi: perché il primo a farlo fu Giuda durante l'ultima cena. In questo caso il sale è simbolo di tradimento. Seconda ipotesi: nell'antichità si spargeva sale sui campi delle città vinte per renderli sterili ed affamare così le popolazioni nemiche. L'e 'na nuità sia 'l primm che 'l segond cas. Mai sentìi. Par venc la sfurtuna basta butàn un pizighen dadrè di spall. Sa sa nò se l'e mei a destra o a sinistra. Sa urì nò sbaglià un pizighen a destra cun la man manzina e un pizighen a sinistra cun la man driza.
Ul specc - Lo specchio, (per i nostri bisnonni spicc, ma era anche abituale miroir, alla francese): Chi ne rompe uno si procura guai a non finire (secondo alcune credenze almeno per sette anni. Che esagerazione!) Tra l'altro porta male rimirarsi in uno specchio rotto. Si devono raccogliere tutti i frammenti anche i più piccoli, e gettarli in un corso d'acqua. Difficile per chi abita in un deserto.
Oli - (Olio) Purta disgrazia a chi lo struèca (lo versa) sul taul o in tera e a tuta la famiglia. Par rimedià sa sa nò se fa. L'unica l'e stagh atent e versàl no. Sa risparmia l'oli e la fadiga da netà (pulire).
L'umbrela - Verd l'umbrela in cà al tira la mort. Sota al baldachen ch'al parea un umbrela ul pred cinquant'ann fa al purtei l'oli sant ai moribond. In qui casi chì basta tucà 'l portafurtuna (l'amuleto) o tucà fer o legn. A chi al gha la zuca (testa) da legn, ul so cò. Semplice, no?
Capèl, po' basta - Per ultimo il cappello. Non va mai appoggiato (è anche questione di igiene) su di un letto o una tovaglia apparecchiata, come si dice, facevano i preti quando portavano i sacramenti ai malati gravi. Non esiste uno scongiuro ad hoc. Ognuno se la cavi come vuole. Evitare le malattie gravi o non chiamare in casa il prete potrebbe essere una soluzione semplice. O non portare il cappello.
Basta con le superstizioni. - Sta piovendo ma devo per forza uscire. Come faccio? C'è un gattone nero seduto, a farsi pulizia, davanti al mio cancello. Mi faccio coraggio ed esco ugualmente. Comincia male, la giornata. E' meglio fare gli scongiuri.
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30 aprile 2024 - martedi - sett. 18bis-121
Notizie dal Villaggio
Cosa ascoltare oggi
VIVERE INSIEME
Noi vecchi siamo portati a magnificare il tempo andato; prima di noi lo facevano i nostri padri, i nostri nonni. Soprattutto la vita che si conduceva in comune, la vita di cortile: cordialità se non amicizia, pronti nell'aiutare in caso di bisogno, sempre disponibili a parlare, anche del più o del meno, a scambiare, a prestare, a sostituire, a curare. Non era fatica dare una mano nei lavori quotidiani di casa o stagionali, in campagna. Non avveniva che si ignorasse tutto o quasi del vicino di casa; dire buongiorno o che bella giornata, era troppo poco.
La gente in genere sentiva vivo ed operante il fatto di essere nati e di continuare a vivere nello stesso paese. Campanilismo? Certo, campanilismo che a volte non ci permetteva di vedere i nostri torti, i difetti che avevamo in quanto nati a Verghera: eravamo sempre i più bravi, i più svelti, i più istruiti, diversi, in meglio, dagli altri.
E gli altri erano "quelli" di Samarate o di San Macario. Era l'orgoglio comunitario che esultava per una vittoria in una partita di calcio, in un derby, se uno dei nostri era arrivato primo in una corsa ciclistica locale o regionale, se in un nostro orto o nella campagna del Ricò era nata e cresciuta una zucca di proporzioni gigantesche e se l'albero delle mele cotogne aveva, quell'anno, portato frutti di eccezionale grossezza, se nelle feste patronali gli addobbi, l'illuminazione, le cappelle, la processione serale, o il concerto bandistico erano risultati migliori, richiamando una maggiore quantità di stranieri, cioè di abitanti di paesi vicini.
La gente di Verghera formava una comunità compatta, disponibile, soccorrevole, pronta all'occorrenza. Cos'è cambiato nel tempo? Perché non è più come prima? La vita che è diventata meno dura, la ricchezza che ha aumentato l'orgoglio personale con conseguente voglia di considerarsi diversi o superiori, i divertimenti che ci portavano sempre lontani da casa, i tanti venuti a vivere nel nostro paese provenienti da regioni lontane, che hanno portato e tenuto nel cuore la loro Verghera: ecco cosa è cambiato per sempre.
I fatti, le vicende, i dolori, le disgrazie avevano valore corale: una morte addolorava tutti. Ciascuno di noi aveva più di un motivo per rammaricarsi del concittadino scomparso.
Quanti avvenimenti passati ce lo riportavano alla mente: bambino compagno dei primi giochi infantili all'asilo, poi a scuola (come copiava la soluzione del problema sbirciando sopra la spalla di chi sedeva davanti a lui), poi giovinotto quando si andava in compagnia (che compagnie chiassose, impertinenti, nottambule) in compagnia, dicevo, a caccia (absit iniuria verbo) di belle fanciulle.
Le nostre vite erano parallele: la vita di uno si muoveva in mezzo, insieme, a fianco della vita degli altri.
C'erano poche cose da tenere nascoste, molte invece le cose che ci legavano.
Da tutto ciò derivava che la festa del paese mobilitava tutta la popolazione fin troppo orgogliosa della sua origine e del suo stato. Quando la banda, per festeggiare l'anno nuovo, strombazzava (come rimbombava la grancasssa!) per le vie cittadine, era seguita sì da un codazzo di ragazzini vivaci e maleducati, ma anche da ragazze, donne, uomini e giovanotti.
Quando la banda organizzava la gita-premio annuale (meta Locarno, in battello lungo tutto il Lago Maggiore) in non meno di cento partecipavano alla traversata.
Concorso enorme di folla ai funerali, alle processioni; tutto esaurito al circolino e al circolone nelle serate di concerti e nei cortei del 4 novembre quando mi facevano recitare, davanti ai mutilati, ai combattenti, alle autorità civili, militari e religiose e a un mare di folla, la poesia della presa di Gorizia (Notte del sette agosto, chi mai ti dimenticherà?) di Vittorio Locchi, il poeta soldato inabissatosi col suo sommergibile nel Mare Egeo.
Folle oceaniche ai discorsi del duce prima e durante la guerra, ai comizi del senatore socialista Francesco Buffoni quando si inneggiava alla libertà riconquistata.
Allora il popolo era più popolo di adesso, la gente più gente di adesso. Nei rapporti personali ora ci si comporta con maggiore freddezza, con più formalità anche se all'apparenza non pare. C'era la società di mutuo soccorso per i contadini sfortunati; si ripagava la sfortuna con l'unione, con la mano tesa e il portafogli aperto.
Ricordo che quando si pensò di costruire la cappella dei caduti al cimitero e l'oratorio maschile, fu una gara continua di offerte in barba alla povertà che allora era costante casigliana, aveva cioè posto fisso nella nostra casa, ci era coinquilina. Si fece tutto senza tasse, senza obbligo, per "campanilismo": ecco la differenza.
Non dico i nomi, anche se li ricordo molto bene, di coloro che vollero fermamente e operarono degnamente per la loro realizzazione. C'erano ancora persone per bene, che erano egoisti solo quel tanto che bastava per vivere, che odiavano le tangenti e le bustarelle, vive e presenti anche allora, naturalmente adeguate ai tempi che correvano, tempi piccolo-borghesi.
Cento milioni di lire era una cifra impensabile, un miliardo una cifra astronomica, buona solo per misurare la distanza delle stelle. Ma allora si commuovevano quando sentivano suonare o cantare l'inno del Piave e del Montegrappa e pensavano che la bandiera tricolore rappresentasse la purezza dell'anima della nazione.
Il mio professore del liceo ci diceva sempre che era più difficile essere galantuomo che eroe o santo, perché si può diventare, a volte, eroi o santi, o morire da eroi e da santi in poche ore appena, mentre essere galantuomo vuol dire non sbagliare mai, restare onesti per tutta la vita. E' duro e molto difficile, ma penso che loro erano galantuomini. E poi c'era ogni anno la visita della leva militare. Si faceva baldoria (niente droga, naturalmente) in un locale parato con festoni colorati di carta e di fiori, lavoro gratuito di tante sere delle coscritte. Le due Angeline, Ermelinda, Carla, Rosetta, Franca, Giannina, Lucia, Pinuccia. Graziose e care amiche, chiacchierine e vivaci, è passato più di mezzo secolo da allora. I nostri capelli sono diventati grigi. Amica ricordi ancora? Chi baciava, sul vetro della finestra, il tuo volto riflesso, ridente di grazia, di allegria e di giovinezza, nell'osteria STELLA del Massimo Cinquetti? Oh tempi beati! Si ornava di piante, di fiori, di festoni di carta e di damigiane piene di vino, il carro del coscritto Geni Burén, che percorreva, tra canti e schiamazzi, le vie del paese, offrendo, al suono di una fisarmonica, da bere a tutti quelli, conoscenti e no, che il caso ci faceva incontrare.
Ma le cerimonie popolari, più popolari, erano i matrimoni. In chiesa si andava a piedi: un lungo corteo rivestito degli abiti migliori che sapevano di canfora lontano un miglio. Il corteo sfilava, a due a due, uomo e donna, per tutta la strada, compunto e consapevole dello spettacolo che stava offrendo, tra una interminabile ala di folla in attesa, sia sul lato destro che sul lato sinistro della via. Sul sagrato della chiesa aspettavano tante persone di condizioni diverse col riso fatale da gettare agli sposi, nascosto nelle tasche della giacca o dei grembiuli. Faceva parte della messinscena che la sposa ritardasse, sull'orario stabilito, almeno di un quarto d'ora, senza per questo, che le campane smettessero, un solo momento, di suonare a distesa. Il sacrista sapeva benissimo il perché.
Il banchetto che coronava l'avvenimento e che si consumava nel cortile della casa dello sposo, iniziava nel pomeriggio inoltrato e durava fino a tarda notte. Da mangiare c'era di tutto, con abbondanza. Da bere c'era di tutto, con abbondanza. Che "ciocche", figlioli! Da non potere neanche più reggersi in piedi. Venivano cantate, dapprima col dovuto rispetto, tutte le arie, canzoni, romanze del repertorio paesano, poi, man mano che il vino, calando nella damigiana aumentava nello stomaco degli invitati (donne comprese), tutto diventava effervescenza, baldoria, un gridare continuo, pareva di essere in una specie di bolgia infernale (come nei quadri di Peter Bruegel). Era spasso finale e chiusura d'obbligo lo scherzo-sorpresa nella camera nuziale, allusivo all'immediato futuro che attendeva la giovane sposa. Così è passato il tempo, soprattutto fino agli anni cinquanta. Poi, man mano, lentamente, le cose sono cambiate. Verghera è andata avanti col progresso, ha ospitato e ospita tanti "stranieri", e ha perso i lineamenti di una volta. Ha indossato un vestito nuovo, diverso, di lana migliore (migliore? non credo), vive, sogna, ama, si dispera in maniera diversa. Non più all'acqua e sapone, ma con un pizzico di droga.
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01 maggio 2024 - mercoledi - sett. 18bis-122
Notizie dal Villaggio
Cosa ascoltare oggi
- redigio.it⁄dati2608⁄QGLO820-1936-06-30-pt01.mp3 - Accadde nel 1936
- redigio.it⁄dati2608⁄QGLO821-1936-06-30-pt02.mp3 - Accadde nel 1936
LUDI GIOVANILI
A giugum a induinà i cità
Era il gioco dei giorni di pioggia e di neve. Non si poteva correre in giro per il mondo e tacitamente il raduno della masnada avveniva sul pianerottolo di mezzo della mia scala esterna che dalla cucina a pianterreno portava al ballatoio, (ul curidur), al granaio (ul granè) e alle camere da letto (i stanz da sura). Ci si sedeva per terra o meglio sui gradìtt da sass (sul primo della seconda rampa) ai bordi del pianerottolo (bord da sass, perché l'interno era formato da mattoni madòn) di cotto. Si tirava a sorte a chi doveva essere il capo, a chi spettava fare le domande (te ori pari o dispar? Dispar. Giò i man. Pari. Tuca a mì).
Sapete qual'è la cità pusè longa dul mond? No? Vergogna. Ma è Ventimiglia. E la Cità cha la ula (vola)? Mosca. No, no. Al var no. Niente città straniere. Si sente una vocetta che suggerisce Aquila. Gha sto no, gha la dìa lù. Stronz, sèra quela bucàscia. Altre domande su altre città. La cità cha la fa i bus in tera? Ma rigordi pu. No, no ma egna in ment. L'e in Sicilia: Trapani. Esultanza e orgoglio. Sorriso compiaciuto di chi la sa lunga. qual'è la cità cha la cascia via 'I pà. Subito veloce come un razzo Pavia. La cità cha gha n'è una inscì anca in Egitt. Ul Richen ci pensa. Ma fa solo finta, sa già il nome e lo dice dopo un po' di sospensione: Alessandria
Qual'è la cità che legiùa a l'incuntrari la vor dì amor? E la tera cines cha l'e no in Cina ma in Italia? Questa l'è facil. Terracina. Gioco e geografia nello stesso tempo. Gioco sedentario per ragazzini decenni (importava stare riparati dalla pioggia) e geografia elementare capace di coinvolgere studentelli svogliati e somarelli. Una specie da class di asin La cità cha la bèe, Trani e avvicinavamo il pollice alla bocca per indicare l'azione del bere. Restando nel campo dei pampini dei grappoli dei raspi di pincirò e di tagasc (acino e pelle dell'acino): Dimm trè cità ch'inn dientàa famus par ul ven e al ven di so vign an dai ul nomm. C'era un piccolino che per via del padre dispensiere e cantiniere conosceva a menadito vini e città: ul Gatinara Piemuntes, ul Bardulen, lag da Garda, Manduria e Squinzan, Puglia. I due ultimi gioielli liquidi venduti dul circulòn. Ven du la basa. Marsala la città dello sbarco dei Mille e il suo vino né ven ne liqùr, ven pài donn, Crema la città più dolce d'Italia e Pomezia la città delle mele. Amor capovolto era Roma.
Bastava un raggio di sole o il cessare del rumore della pioggia per interrompere la riunione. Tutto finito di colpo. La cità pusè longa dul mond (qual'è?) la cità che ula (vola) ul bicèr da squinzàn. La class di asin in geografia si trasformava in una squadretta di calcio. Attenta, corretta, spigliata. Il ragazzino che sapeva tutto dei vini conosceva a memoria il nome dei calciatori in formazione della Juve del leggendario quinquennio: Combi, Rosetta, Calligaris ....
Barilòtt - Gioco infantile, specialmente femminile, giocato sulla terra battuta con le righe tirate con la punta di un bastone o più tardi, sull'asfalto, col gesso. Era un grande rettangolo, diviso in due parti e ogni parte formata da tre altri piccoli rettangoli. Si cominciava lanciando un piccolo sasso piatto nel primo rettangolo, sasso che veniva spinto sempre con lo stesso piede negli altri rettangoli e fuori dall'ultimo, senza mettere il piede per terra e senza che il sasso si fermasse sulle righe che delimitavano i rettangoli. Il primo rettangolo in alto del secondo scomparto era quello del riposo.
Rèla - Vecchio gioco molto diffuso che assomiglia un poco al BASEBALL (forse che l'inventore del BASEBALL non abbia avuto l'idea dal nuovo gioco vedendo giocare a la rèla i ragazzi di Verghera?). Come la gibulèa, la rèla era gioco prettamente maschile. Attrezzi necessari due pezzi di legno, rotondi, lisci, solidi. Uno, lungo un metro, normale, uno di una trentina di centimetri con le estremità molto appuntite. Si metteva il legno più corto per terra, col bastone lungo, che fungeva da mazza, si colpiva una delle estremità appuntite con un colpo secco e deciso in maniera di farlo alzare da terra un metro circa poi senza farlo ricadere colpirlo di nuovo nel mezzo con forza per lanciarlo lontano. L'avversario del lanciatore si poneva a buona distanza e in posizione presunta favorevole per abbrancare a volo il legno battuto. Era pericoloso sostare vicino al battitore. Si dava il caso (dolorosissimo caso) che uno o l'altro dei bastoni finisse sul naso di chi invece doveva catturarne uno solo, il più corto, con le mani.
Cucàgna - Ul paes du la cucagna. N'ho sempar sentì parlà, ma l'ho mai vist. L'e dumà 'na manera da dì. L'è un riferìss a un mond ch'al ghe no. Sogn impusibil du la fantasia. Esiste invece il palo della cuccagna, alto quattro o cinque metri, tutto ricoperto di uno strato di grasso sulla cui cima sono appesi salami, bottiglie di vino e altre specialità mangerecce (cenone in vista per i vincitori). Due compagnie di scalatori volenterosi alternandosi dovranno salirvi fino in cima. Al più piccolo ed agile del gruppo sarà riservato il compito di toccare con la mano il cerchio sul quale sono appesi i premi che diverranno di proprietà del gruppo che avrà la capacità e la fortuna di arrivare primo alla meta. Era un divertimento che si rinnovava ogni qualvolta arrivava la festa dell'oratorio o quella patronale. La gente perdeva ore intere per assistere ai tantissimi tentativi di scalata. Non era facile salire sul palo della cuccagna unto com'era di grasso per tutta la sua lunghezza. Penso che se c'è ul paes du la cucàgna, esiste solo sulla cima di un palo altissimo (più di un chilometro) ricoperto di uno strato continuo di grasso, in posizione irrangiungibile. Se no, che paes du la cucagna l'è?
Gibulèa - Gioco popolare per ragazzi, un po' violento e pericoloso. Si metteva in un piccolo cerchio una latta vuota (di salsa, marmellata, conserva) da colpire con un sasso piatto e rotondo da un distanza di cinque metri (linea di tiro). La latta colpita doveva essere bocciata fuori dal cerchio. Chi era "sotto" cioè era condannato a rimettere a posto la latta, doveva, dopo, cercare di catturare uno dei partecipanti che oltrepassavano la linea segnata prima del cerchio per riprendere il sasso lanciato per colpire la latta. Non potevano essere presi se la latta non era posizionata, in posizione verticale, nel cerchio. Prima del tiro del sasso, che avveniva dietro la linea del lancio si poteva avvertire del prossimo tiro gridando: òcio le bàgole (attento alle palle). Chi non diceva la formula sacra mentale o si faceva toccare con la mano oltre la linea del campo di battaglia andava sotto. Era condannato a rimettere a posto la latta ogni qualvolta veniva colpita. Riepilogando: due linee distanti tra loro cinque metri: linea di lancio del sasso, linea di demarcazione tra campo neutro e campo di battaglia, cerchietto di trenta centimetri di circonferenza per metterci la latta, latta che doveva essere cambiata due o tre volte nel corso di una giocata per i tanti colpi ricevuti. Qualcuno dei contendenti, impetuoso e anche un poco irresponsabile, si prendeva, qualchevolta, il sasso lanciato con forza in diverse parti del corpo. Paura, dolore e sangue se veniva colpita la testa. Chiaro? Non so dire un modo migliore, ma basta se ho reso l'idea.
Mònta caàlina - (A monta cavallo). Altro gioco della mia giovinezza ora del tutto scomparso. Due gruppi di quattro ragazzi ciascuno, i condannati, che come si diceva, stavano "sotto" e gli altri, i fortunati che avevano vinto, tirando a sorte, la posizione migliore per iniziare il gioco. Uno dei "sotto" stava con la schiena appoggiata a un muro e con le dita delle mani allacciate, poste all'altezza della pancia doveva sostenere la testa di un compagno che, prendeva una posizione molto curva come fosse un cavallino; gli altri due si attaccavano al posteriore del cavallino. Un palo che sosteneva il primo dei compagni unito con gli altri come a formare un lungo cavallo. Gli altri quattro uno dopo l'altro saltavano a cavalcioni dei tre. I quattro di sotto non dovevano cedere per non perdere; i quattro di sopra dovevano stare in equilibrio sui dorsi degli avversari senza toccare terra coi piedi, pena la sconfitta. Far cadere i cavalieri, far cedere i cavalli: era arte raffinata i marchingeni che si mettevano in atto dalle due parti in gioco per ottenere il risultato voluto.
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02 maggio 2024 - giovedi - sett. 18bis-123
Notizie dal Villaggio
Cosa ascoltare oggi
Che l'abito non faccia il monaco, una linea di moda - C'era pure l'unisex - Intero guardaroba in un solo abito - Cloches, guanti, cornette - Linea di moda "flamboyante" - Civetteria maschile
DOTTORE COME FRATELLO
Per vocazione vuol dire col cuore; vuol dire stare dalla parte di chi soffre, di chi ha bisogno. Vuol soprattutto dire: "Eccomi" in qualsiasi momento della giornata: nella notte più tarda, all'alba, con la pioggia, il vento, la neve.
Essere sempre di servizio, servizio compiuto con la massima efficienza e tempestività. E quasi sempre il servizio era gratuito per coloro che intristivano (stavo per scrivere che vivevano, ma che vita era?) nell'indigenza e nel bisogno.
Confortava con la parola, confortava sapere della sua capacità tecnica. Gratis et amore hominis. Così lo vedevo allora, così lo rivedo adesso, dopo tanti anni. Un sant'uomo, un dottore attento, scrupoloso, capace e umano.
Alfredo Ollearo, piemontese di nascita, scapolo, fratello del generale Ollearo che si era distinto in Albania nella seconda Guerra Mondiale era il medico condotto del Comune di Samarate.
Una condotta vasta come territorio, numerosa come quantità di pazienti.
I tre paesi principali costitutivi del Comune erano abbastanza distanti tra loro se si pensa che la bicicletta era il suo unico mezzo di trasporto. A casa nostra venne tutti i giorni per più mesi di fila, quando il mio fratello minore, affetto da empiema polmonare toracico, tralasciato senza speranza di guarigione dal professor Costantini, primario dell'ospedale di Gallarate, aveva bisogno di medicazione giornaliera. Era il 1931. Non voleva essere pagato. Che brutta parola per un dottore! Avete più bisogno di me, diceva. Pensate ai vostri bambini: non fate mancare loro niente.
Avevamo galline e anitre nel pollaio e tante patate. Pensavamo di compensare in qualche maniera con le galline e le patate. La maggior parte delle volte ci rimandava patate e galline.
Era d'animo gentile, di carattere bonario, ma fermo e schietto.
Quando veniva da noi mi accarezzava la testa irsuta di capelli scarmigliati e mi raccomandava sempre: "Non dimenticare, quando sarai grande, quello che fa per voi la vostra mamma”.
O uomo di Dio, che pensavi sempre agli altri, che servivi sempre gli altri, che additavi sempre la bontà e lo spirito di dedizione degli altri, che non avevi pensieri o attenzioni o preoccupazioni che per gli altri; e non eri padre ad alcuno, e non eri madre di nessuno.
Aveva l'ambulatorio nella casa Ferrario di via Dante. Rivedo la sua governante grigia, burbera, severa, di poche parole che cercava di difenderlo, prevenendo ed ostacolando la sua eccessiva generosità. Una volta, quando mi ero fatto un taglio lungo e profondo sul lato sinistro del ginocchio destro, mio fratello mi portò dal dottor Ollearo in bicicletta. La ferita mi fu cucita con sei o sette punti di sutura con una specie di lesina da calzolaio e un filo tipo "strafunzen" cioè con una specie di spago. La cauterizzazione della ferita fu fatta con la fiamma viva, per timore che nella profondità di essa si potessero annidare microbi mortali.
Gli hanno dedicata fuori mano una via alla memoria ed intitolato al suo nome il Centro Anziani.
Non so se c'è il paradiso: se là c'è un posto, per ripagare la tua dedizione incondizionata, è senza dubbio riservato a te. Hai sempre dato. Non ti sei mai rifiutato di compiere sacrifici, non ti sei mai lamentato delle privazioni che la vita riservava al tuo altruismo. Santo senza aureola, ma santo esemplare, santo da imitare. Forse senza fede in Dio, ma con tanta fede nell'uomo. Il Signore ti benedica, tu che avevi un cuore grande come una casa. E nonostante le tante esperienze dolorose e le tante complicazioni quotidiane della vita, eri restato un puro di cuore.
Non ti eri dimenticato mai di quello che tuo padre - capitano medico - ti aveva raccomandato il giorno della tua laurea: "Ricorda, rispetta sempre i poveri!".
LA BOGIA PELAA
Negli anni trenta toccava alle mamme fare le "parrucchiere" di famiglia. Tagliavano le chiome ai loro figli. Forse è meglio dire che si arrangiavano a tagliare i capelli alla prole. I taièan i caèj cun la tazìna. Mettevano in testa ai figlioli la tazzina dul latt e cafè per non fare qualche zaff e per mantanere il taglio uniforme e lineare. Era per risparmiare i danè dul barbè, che era un bel risparmiare per chi aveva famiglia numerosa. Tante donne, che oltre alla famiglia, avevano da accudire alla stalla dovevano lavorare la campagna e coltivare l'orto, non avevano tempo di gingillarsi. Non si preoccupavano degli strilli dei marmocchi offesi e con mano svelta e capace i fean adiritùra la bògia, cun la machinèta, senza 'n briciul da pietà. I taièan a ranza tera. Lasciavano il cuoio capelluto quasi scoperto, privo di capelli. Tempo risparmiato perché, a ricrescere, la zazzera impiegava più tempo. Sta sicùr - confortava la mamma che gha nèa nanca par i ball, par i lament di fiò - sta sicur che la zuca la respira pusè ben e ta nass nò i piocc in cò. Le bambine lasciavano crescere le treccie (no, i cùu da cavall) così gli interventi delle barbieresse oltre ad essere molto più rari erano anche più facili. Guarda caviòn (pien da cavèj) quanta làna te lassàa giò in tera. Noi bambocci guardavamo con rammarico e con rimpianto i neri fili recis i che giacevano sul pavimento e vedevamo già le nostre amichette scherzarci, con la lingua lunga in fuori. Se la svignavano subito per paura di rappresaglie, ma, andandosene, cantavano, ridendo la filastrocca del bogia pelàa la faj i turtej.
I BARBIS DUL FURMENTON (1-2)
Quando il granoturco era maturo vagabondavano nelle campagne con un sacchetto di tela bianca che riempivano da barbìs dul furmenton. Verso la fine di settembre, soprattutto se il tempo era asciutto e caldo, i barbis i ciapèan un culur tra 'I negar e 'l maròn scur, culur ideal, tabac da prima qualità. Le prime fumate le consumavamo (che gusto!) accovacciati tra i filari delle piante già cimàa (cioè senza l'inflorescenza terminale) e senza i frascàsch, seccati e dati in pasto alle bestie. Scòd la sed vincere la sete. Appagato il desiderio impellente si fumava poi con comodo un po' dappertutto, lontano però dagli occhi sempre vigili dei nostri genitori, che avendo fatto prima di noi le stesse marachelle, ci aspettavano al varco. I barbìs dul furmentòn èan i sigarètt, e i tuscàni? Sul tronco delle viti si formavano delle scorze che col tempo si sollevavano a metà, per cui era facile scrostarle. Si riducevano sottili più dei fiammiferi e della stessa lunghezza. Bruciando davano un odore profumato intenso e particolare che ci mandava in estasi. Tanti di noi raccoglievano i cicch e i mucch e fumavano come i grandi. Cun la mancia du la festa non era certo possibile andare una volta alla settimana al cinema e comprarsi anche una sola sigaretta. Il tabaccaio le vendeva anche sciolte, due o tre per volta, e cercava di capire se le compravamo per noi o per i nostri parenti. Pòar laù: poveri piccoli. Pòar fiò: poveri figlioli. A ghèm nò da sfujà verz: non avevamo da scialacquare. Vita stràscia, a pensarci adesso. Ma allora è forse merito del tempo? la vita era davvero meravigliosa. Anche per merito di barbìs dul furmentòn, di cicch e di mucch. Pòar ratìtt: poveri topolini, diceva mia madre, a ghì aùu (avuto) propi nagott da bell in la vita.
Ci ho pensato a lungo, ma solo ora, a capitoletto finito, mi viene in mente di come erano chiamate le sigarette che alla pari col tabacco olandese per le pipe, erano le più fini, le più bionde, le più leggere, le più odorose sigarette in commercio. Non in pacchetto ma confezionate in scatoletta di cartone: le serraglio. Erano le più care di tutte e trop legèr. Sigarètt da signorìn, bon par i gagà. Era solo una scusa. Come l'uva acerba della volpe, erano irragiungibili dal nostro borsellino che piangeva sempre miseria.
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03 maggio 2024 - venerdi - sett. 18bis-124
Notizie dal Villaggio
Cosa ascoltare oggi
ANAGRAFE NON COMPUTERIZZATA - Dei soprannomi
Era ed è come un'anagrafe. Perfetta, con ricerca automatica, senza bisogno di computer né di schede perforate.
Di soprannomi c'erano e ci sono quelli personali e quelli famigliari. Un soprannome era ed è il più immediato, preciso e colorato segno distintivo, personale e famigliare. Ironico, spregiativo, scanzonato, specchio di un difetto fisico o morale, rivelatore di cattive abitudini, nuove o inveterate o di qualità nascoste.
Perché chiedere il nome della persona cercata, la paternità, la via abitata e il numero civico? Bastava o basta chiedere (non a uno che è venuto da Canicattì o da Alberobello, ma a uno che è nato e restato a Verghera) del Giuanin dul Frà e vi era o vi è indicata la via, il numero civico, la casa dell'interessato, subito, sul momento, senza esitazione. Se non avevate fretta vi avrebbero fatto anche delle confidenze, dette cose segrete, sconosciute a tanti.
Parole speciali, fascinose, pregnanti, che in un solo sostantivo racchiudono mondi svariati.
Baloss, cioè furbo, ma detto invece con ironia e una certa derisione di chi "possedeva" la faccia un po' tonta;
La Fa' Facc, la strapazzona, la lavoratrice accanita, indefessa, detto invece a canzonare una fà nigott (che non fa niente), una lazzarona patentata.
Il capostipite, cioè il primo che veniva incoronato "baloss" trasmetteva titolo e corona ai suoi diretti discendenti, i quali, anche se furbissimi, restavano marchiati per sempre e obbligati, vita natural durante, a portare l'ingrato titolo nobiliare.
C'è nei soprannomi furbizia, cattiveria, satira, bonomia: una specie di elenco di vizi, difetti e virtù degli uomini, una specie di Gotha popolare, una galleria ideale in cui sono rappresentati ed esposti i ritratti surreali, impressionisti, realisti dei rappresentanti più illustrib della élite intellettuale, borghese, contadina ed operaia della Verghera di sempre.
Si risparmiavano, per doverosa deferenza, i preti che però, gli anticlericali più accaniti chiamavano, con un certo livore, scurbatt cioè corvi. Di bianco avevano solo il colletto: l'abito talare, le calze, le scarpe, i calzoni era tutto nero. Anche la coscienza? Chissà!
Comincio coi soprannomi di casa mia, dei Puricelli Fra' presenti da almeno seicento anni sul nostro territorio, il cognome più numeroso, e tante volte, nei secoli, protagonisti della storia antica, vecchia e nuova della nostra borgata.
Geni Murne' (Eugenio Mugnaio, mio nonno paterno).
Giuanin dul fra' (mio padre). La nostra famiglia proveniva dal cortile Fra' adiacente e comunicante con la piazza Volta. Uno della nostra famiglia si era fatto frate, ma poi, aveva gettato il saio alle ortiche, riprendendo il posto in seno alla famiglia nel vecchio cortile.
Altri soprannomi di mio padre: Giuanin Curtela (coltello al femminile come quello lungo e largo che si usa per affettare le angurie); senza brash (mutilato di guerra del braccio destro) e Medaion (con tante medaglie: due d'argento, una di bronzo, e una croce di Cavaliere della Corona d'Italia).
Ogni famiglia che abbia una trentina di anni di anzianità ha il proprio soprannome. Anche le famiglie che vivono nell'anonimato o nella riservatezza più controllata: niente sfugge all'occhio attento e vigile del demone che vaga instancabile e non visto, alla ricerca di nuove persone da ridicolizzare o da rendere famose e fin anche (si fa per dire) immortali nell'ambito locale.
Soprannomi familiari
I Baloss, i Burela, i Tracch, i Bocc, i Catabiss, i Malpensa, i Maza Cavai, i Maza Asnitt, i Maza Vacc, i Mustiola, i Caragnan, i Bula' (perché provenienti da Bollate), i Rumana (uno degli antenati aveva visitato Roma), i Busciaghitt (provenienti da Albusciago), i Pasquell, i Locarno Barbon, i Locarno Strasce', i Locarno Sacrista, i Stefani Profughi (venuti da Feltre durante la prima guerra mondiale), i Bartulitt, i Puliro' (i pollaioli), ul Ngiulen (ne era il capostipite, era suonatore estemporaneo di tromba, sovente disturbatore della quiete notturna), i Gamèla (nome tristemente famoso, una specie di "passator cortese" vergherese), i Roa, i Puricelli Liquoratt, i Puricelli Piciott (tenitori della stazione di monta taurina, sovente spiata da noi ragazzi curiosi di vedere cose nuove e soprattutto diverse), i Purcelatt (proprietari del salumificio di Via Adriatico), i Sinaghitt (perché provenivano da Sacconago), i Tonetti Piate' (venditori di piatti e chincaglierie), i Cruatitt, i Sgramela (i giusta oss), i Luna' (provenienti da Lonate Pozzolo), i Papota, i Buren, i Mucit chiamati anche Bacicia (il capostipite aveva di un dito, solo una falange, cioè un mucc), i Bardazz, i Bùta, i Mismirì (originari di Mezzomerigo), i Bacheta, i Sumen, i Mincio (i vecchi), i Minciorelli (i giovani), il capostipite (trisnonno?) aveva combattuto sul Mincio nella Guerra di Indipendenza, i Gepa', i Zagn, i Vasalet (stirpe di bevitori che, quando avevano sete, vuotavano anche un vasello - o vaso piccolo - colmo di vino), i Cazoa, i Gramulit, i Futa, i Palerma, i Cota, i Ciucio (cioè asino; ad andare al mercato avevano cominciato coll'asino e sono arrivati alla Mercedes), i Manoca, i Manzitt (mancini), i Barbisitt, i Taca su' (lavoratori e artigiani produttori di corda, gretti e rigidi, possedevano un cane chiamato Nerone ancor più cattivo di quanto comportava il suo nome), i Pesitt, i Dencitt, i Bisen, i Gulit (i Banca dell'impresa edile), i Leluia (macellai di via Mazzini), i Nisciuela, i Camana (da capanna), i Pidrela (falegnami di via Palazzo), i Martalet (deriva dalla bella siepe sempreverde che avevano in giardino), i Ranza, i Scigait (Puricelli Giovanni mutilato di guerra Scigain, negozio di generi alimentari all'inizio di via Indipendenza), i Cicela (Protasoni di via del cimitero), i Cilitt (famiglia Grassi), i Muntuna', ul Bigen, i Calaò, i Cràa (da capre: operaie della Tessitura Alceste Pasta, così chiamate perché, quando avevano bambini da allattare, ottenevano il permesso di uscire per la bisogna, venivano così paragonate alle capre quando allattavano la prole. Il soprannome poi fu di tutte le operaie della tessitura, giovani, vecchie, prolifiche o no perfino lo stabilimento finì col portare quel nome).
E per finire coi soprannomi familiari riporto una specie di filastrocca che celebrava la famiglia Morosi quando settanta-ottanta anni fa abitava nella cascina che c'è ancora sulla destra della Stràa noa per andare a Gallarate, poco dopo lo stabilimento Alceste Pasta: Len, Lon, Lena Zola, Paciara, Canela: i figli,
la Nita e '1 Giuanò: i genitori,
la Bela bianca sul pugiò.
La Nita o la bela bianca (nera come il fuèn) era la mamma. Non ricordo con sicurezza, se fu il Len o il Lon, a buttarsi nel pozzo senza procurarsi nemmeno un graffio. Era un matocch, cioè un quasi matt. Ricordo invece che quella sera, sul tardi, andai anch'io fin là per curiosare, a piedi e senza provare timore per la lunghezza della strada, dell'oscurità della notte e dell'aver trasgredito gli ordini della genitrice che vietavano di uscire dal cortile senza permesso, soprattutto nelle ore serali.
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04 maggio 2024 - sabato - sett. 18bis-125
Notizie dal Villaggio
Cosa ascoltare oggi
- redigio.it⁄dati5⁄QGLA394-armi.mp3 - Parte 9 ("Medioevo - Armi e abbigliamento guerresco nel XII secolo - pt09") - 6,09
- redigio.it⁄dati2608⁄QGLO822-1936-07-02-pt01.mp3 - Accadde nel 1936
Soprannomi personali (con noterelle personali)
Ul Milò del craon (caprone), ul Tunagon dul Malpensa, ul Susi, ul Cianghei, ul Sacanebia, ul Cicarlin, ul Bagela, ul Pin du la bionda, ul Slim, ul Gajeta, l'Agostino Carmela, ul Peiz, la Carulò fa il lacc, la Maria Beata, ul Giulai, ul Zep du la Sonta, ul Ceco Pisacc, ul Calderina, ul Cunilatt, ul Bilò (pulcino), ul Gambusio (alto di gambe), ul Gata Morta (portiere della squadra di calcio però sempre vigile e scattante), Ul Ghiaccio (distribuiva casa per casa, i pani del ghiaccio che venivano messi nella giascera, una specie di comodino a più ripiani che fungeva da frigorifero), ul Cagnino (cattivo come un cane cattivo), ul Sarto Caghen, ul Siel, ul Luis dul Biel, ul Niel, la Basluten, la Ida dul Ruca, ul Basalò, la Fà Facc, ul Riguleto, ul Gino Baco (detto "il figurino di Parigi" per la sua eleganza tutta paesana), ul Pasarin, ul Barbison, la Cleria sorella del Balos (una furia sempre vociante: tè ùsi teme la Cleria - si diceva); la Bigiarin, ul Co Guzz, ul Brascen, con una mano deformata per una caduta, bidello e custode del cimitero, marito della Nebia (moglie, dalla faccia color biancolatte), la Rusa (rossa di capelli), la Bela Itaglia (con la g), la Maria bela, la Cucen, ul Tapò, ul Bagatt (calzolaio), ul Palerma, la Maria d'Urog (di Orago), ul Barlam (dal nome di battesimo Boreamo, nome di origine biblica), ul Misctiga, ul Zepp di Culomb, ul Caldar (Aldo Gobbi calciatore), ul Pipò, ul Pitalèn, Urbano e Vitòri dul Radesch.
Verso gli anni 1870 nella casa che fu poi del Cerutti Milò (ora via Vittoria 10) era di stanza un distaccamento di artiglieria italiana. Mentre un soldato stava lasciando la casa, a cavallo, per motivi di servizio, si imbatté in un ragazzino che piangeva disperato. Il buon soldato, per quietare il piccolino, cercò di caricarlo in groppa al cavallo, ma non riusciva ugualmente a calmarlo. Alla mamma del piangente chiese il motivo di tanto affanno. La donna rispose: l'è catìi me '1 Radesch. E' cattivo come il Radetzky. Johan Joseph Radetzky, feldmaresciallo (1766-1858) era il comandante in capo delle truppe austriache in Italia.
Da allora Radesch fu il soprannome del piccolo, di suo figlio e del nipote. Sull'arco della casa del Milò, una volta, era dipinto, a ricordo della permanenza antica, lo stemma dell'artiglieria italiana.
La Giuanina dul centu lia (cento lire) (lavorava la calza seduta in cortile tenendo a portata di mano una "stageta" con infisso in cima un chiodo per potersi grattare la schiena con facilità e comodità. (Staggia: asta come quelle che sostengono le tegole del tetto o bastone). La Pina Carulot (abitava nel mio cortile e di sera, quando rientrava a casa si fermava, appena varcato il vano del portone, a gambe allargate non portava mai mutande - ad irrorare il terreno del cortile dove di solito cresceva la più bella erba del mondo. (Le vecchie della sua età [ottanta anni] si comportavano tutte come lei). Ul Ghicc di Leluia, ul Tencon (Locarno tabacchino), ul Parò (ciclista dei Mustiola), ul Gambon, ul Ciaschin (Franceschino, Francesco Lampugnani), la Mangia Salam, la Bistuchina, ul Balela, ul Sen dul Tenciù, ul Meza Dona, ul Gadan (che vendeva d'estate angurie, granatine e gelati, d'inverno caldarroste sull'angolo tra piazza Volta e l'inizio di via Indipendenza. Un suo figlio, Alfio di nome, era morto molto giovane di tetano).
Una citazione particolare per Carlo Prandoni già ricordato in merito alla costruzione del cimitero nuovo. All'occorrenza fungeva da notaio, da giudice di pace o conciliatore, consigliere, paciere; era il direttore tecnico della tessitura Alceste Pasta dove si tesseva, su telai, tela robusta e resistente. Per questa sua attività direttoriale era chiamato Carlò du la machina.
Da ricordare anche la sciura Pepina (Giuseppina Manzini in Souza) benestante proprietaria di terreni e di casa (la cà rusa, la casa rossa, in via Bolzano circondata da almeno duecento pertiche di terreni e da una infinità di filari d'uva affittati ai Pidrela e poi passati agli Stefani di Feltre, la casa abitata dal Giacumen Bagatt tra via Indipendenza e il principio di Via Bolzano, il circolino dove si dava convegno l'alta società della zona per partecipare a balli rimasti leggendari e favolosi per le toilettes delle signore e soprattutto per le audaci scollature delle partecipanti.
I contadini, increduli e sgomenti, commentavano: ai bàlan bei e biutt (cioè, a dire della gente, ballavano nudi). Il marito della sciùra Pepina, arrogante, inflessibile nell'esigere il canone d'affitto che era corrisposto metà in moneta sonante e metà in prodotti della campagna, si era sentito minacciare da uno dei Pidrela col fatidico "verrà un giorno" di Frate Cristoforo, perché non gli era stata concessa proroga al pagamento dell'affitto. Ul Pidrela si era arrangiato ugualmente, aveva fatto tirare la cinghia a tutti quelli della casa, ma l'ebbe vinta. Il signor Giacinto cadde in miseria e morì solo e abbandonato in una stalla. Si diceva di lui che era stato tenutario di una casa chiusa a Legnano.
La Sciura Pepina fu animatrice delle iniziative che avevano dato il via e i soldi per l'organizzazione e la costituzione, poco prima della fine del secolo scorso, della banda musicale. Tante delle notizie di questi capitoletti le devo all'amicizia delle signorine Varisco che ringrazio.
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07 maggio 2024 - domenica - sett. 18bis⁄126
Notizie dal Villaggio
Cosa ascoltare oggi
Che l'abito non faccia il monaco, una linea di moda - C'era pure l'unisex - Intero guardaroba in un solo abito - Cloches, guanti, cornette - Linea di moda "flamboyante" - Civetteria maschile
redigio.it⁄dati5⁄QGLA404-vestire.mp3 - Parte 6 ("Civetteria maschile") Vestire pratico e gentile nel medioevo fino al rinascimento - Linee di moda - Calzabraga e farsetto - Le calze e le braghe e le braghette - 3,55 - - #50
La disfatta di Federico Barbarossa
Preceduta dalla Dieta di Ratisbona, la quinta calata del Barbarossa avvenne nell'autunno 1174, lo seguivano le truppe del fratello Corrado, di Ladislao di Boemia, di Ottone di Wittelsbach, degli arcivescovi di Colonia e di Treviri nonchè le milizie di molti principi e vescovi, inoltre c'erano bande mercenarie di Babansoni (del Brabante). Attraversò la Savoia ed entrò in Italia per il Moncenisio. Nel 1175 Federico assediò Alessandria; ma inutilmente. Ed anch e cercava nuovi alleati in Italia: alcune città della Lega passarono dalla sua parte, mentre riceveva forti soccorsi dalla Germania, che giunsero, infatti, nella primavera del 1176. Fu allora che i Milanesi, anche se non potevano contare su tutte le forze della Lega, deliberarono di giocare la carta decisiva.
Così si giunse alla battaglia di Legnano il 29 maggio, tra il Ticino e l'Olona, a trenta chilometri da Milano. Al grido “ sant'Ambrogio! “, attorno al Carroccio, mentre la Compagnia della Morte urlava e si lanciava sulle truppe tedesche, gli alleati vinsero clamorosamente e batterono Federico con una grave sconfitta. Egli cadde da cavallo che gli fu ucciso, scomparve nella mischia, si salvò errando, sconosciuto sul campo di battaglia.
La vittoria di Legnano assicurò l'indipendenza alle città lombarde e costrinse l'imperatore a riconciliarsi con il papa, Alessandro III°, a cui l'anno dopo si umiliò in Venezia all'ingresso della basilica di San Marco. Il 23 giugno 1183 venne la Pace di Costanza a rinsaldare gli effetti conquistati sul campo di battaglia; e Federico scomparve nel 1190 mentre partecipava alla Terza Crociata, annegando nel fiume Salef, sul confine della Siria. La pace di Costanza aveva introdotto la nuova figura del Podestà, che avrebbe poi soppiantato quella dei Consoli della città. Primo Podestà di Milano fu Uberto Visconti da Piacenza. La parte di Melegnano che era sulla sinistra del fiume Lambro (ora occupata dalle Vie Dezza, San Martino, Sangregorio, Lodi, Piave, Volturno, Gramsci, ed altre più recenti) e le terre di Vizzolo e di Calvenzano erano da secoli nei confini naturali del territorio laudense, e quindi anche nella diocesi di Lodi, a cui pagavano i tributi.
Ma nel Trattato di Pace tra Milano e Lodi, stipulato il 28 dicembre 1199, i Lodigiani cedettero ai Milanesi tutta la zona di Melegnano che stava sulla sinistra del Lambro, con Calvenzano e Vizzolo, che dovevano per sempre rimanere nel dominio milanese. E così Melegnano si trovò unificata, come comunità stretta attorno alle rive del suo Lambro. Fu una pace di buon compromesso, perchè i Milanesi ricevevano la parte melegnanese che stava a sinistra del Lambro e mantenevano alcuni diritti che già avevano sulla navigazione del Lambro.
Ma anche i Lodigiani poterono mettere per scritto che “ a riguardo del fiume Lambro da sotto Melegnano fino al Po, dall'una e dall'altra sponda, nessun ponte, ne porto deve essere costruito se non con il permesso e la volontà del Comune di Lodi”. La vittoria di Legnano, che ebbe una vasta risonanza in tutta Italia ed Europa, e la relativa Pace di Costanza del 1183 determinarono diverse prese di posizione e di revisione di vecchi contratti e di ingiustizie sofferte o presunte tali. Un caso di questi avvenne il 13 luglio 1185, quando Giordano di Melegnano, e gli eredi di Guido ed Alberto che già abbiamo trovato a Maleo, essi pure melegnanesi, pretesero la restituzione di parte della sostanza immobiliare che a loro era stata tolta, presentando la causa legale contro il vescovo di Cremona, Offredo, un amico dell'ex Barbarossa.
Difatti il 13 luglio 1185 Ydo di Tortona, giudice del tribunale imperiale, con il vescovo di Novara, Bonifacio, e con il vicario imperiale del tribunale, Metello, emise la sentenza che Offredo, vescovo di Cremona, dovesse restituire il possesso di metà delle terre di Malco a Giordano di Melegnano, ed il possesso della quarta parte agli eredi di Guido e di Alberto che la domandavano.
Una campana in lega di rame, oro e argento
Perché allora l’abate Taddeo di Noceto fece applicare il suo nome e la suddetta iscrizione? Ce lo rivela ancora il già citato Padre Paolo Cassola nel suo memoriale, dove tra l’altro scrive che: l’abate Noceto «per occultare la campana in modo che non venisse derubata, fece applicare tutto all’ingiro di essa il proprio nome. L’attento osservatore scopre subito a prima vista che le lettere con le quali è scritto il nome... sono posticce e che vennero applicate alla famosa campana vari secoli dopo. E’ noto poi che nel Medio Evo di questi inganni se ne facevano molti, anche intorno alle reliquie dei santi, per sottrarle alla rapacità degli uomini e all’entusiasmo religioso. Niuna meraviglia quindi se alcuni storici, tratti in inganno dall’astuzia usata da quell’abate, hanno creduto (contro la tradizione costante) che la campana non fosse del carroccio di Milano. Ma contro costoro grida la tradizione diffusa non solo nel popolo ma tra gli stessi uomini dotti. Tanto è vero che questa tradizione è tramandata per mezzo di scritti e di stampe. Anzi alcuni anni orsono il famoso gesuita padre Savio, storico insigne, passando a Varzi per andare a Bobbio, ebbe occasione di trattenersi in argomenti storici con l’illustre dottor Giacomo Piana, assessore del Comune di Varzi; ora avvenne che egli manifestò al Piana l’idea di vedere con i propri occhi la famosa campana del carroccio di Milano e che da secoli si conservava in S. Alberto e che a tale effetto si era recato a Varzi per venirla a vedere... ».
La campana pesa 200 chilogrammi, è alta 47 centimetri e ha un metro e mezzo circa di circonferenza. Stando anche alla testimonianza della ditta Eredi Giovanni Borroli di Genova, che nel 1856 aveva proceduto ad accordare questa e le altre due campane collocate sul campanile, era stata confermata la circostanza che si trattava di una campana fusa nel Mille e che nella lega era stato impiegato, oltre al rame, anche oro e argento, affinché non si rompesse cadendo e perché il suo suono fosse più squillante e i suoi rintocchi si udissero da più lontano non solo come richiamo per le contrade di Milano nel momento del pericolo e del bisogno di volontari, ma anche durante le battaglie, come richiamo al valore e alla fede dei combattenti.
Infine un particolare importante confermerebbe la autenticità della «martinella», riconducendola a quella donata dall’arcivescovo Ariberto d’Intimiano alla Lega Lombarda: due piccole borchie nelle quali è scolpita come in trionfo una donna che ha ai suoi piedi un uomo inginocchiato. La donna, nel senso mistico religioso cattolico, rappresenterebbe la Madonna e l’uomo in ginocchio l’umanità. Attorno ai due borchioni vi sono cinque iniziali di altrettante parole, e precisamente: F. R. U. O. S., cioè Fiet Regnum Unum Ovile Sanctum, che tradotte suonano: vi sarà un regno solo, un santo ovile. L’ultima parola potrebbe anche essere solum, un solo ovile.
Questa interpretazione delle sigle è confermata anche nel manoscritto del già citato padre Paolo Cassola, rettore nel primo Novecento dell’Abbazia di Butrio, che aggiunge alcune considerazioni riferite all’arcivescovo Ariberto. «Egli riconosceva - afferma il Cassola - tanto l’Impero Romano come la Chiesa di Roma, ma in pari tempo voleva e riconosceva la libertà d’Italia e dei suoi Comuni contro l’egemonia dell’imperatore tedesco». E quindi la frase riportata sulla campana, a suo parere, potrebbe anche essere interpretata in «un solo ovile», cioè l’unione delle Chiese dissidenti. «In tal senso le sigle - afferma l’abate Cassola - riassumono il diritto naturale dell’ordine pubblico, basato su leggi cristiane, a difesa delle libertà popolari dei Comuni, sostenute dalla potenza del Sacro Romano Impero». Ora che tradizione, documenti e riscontri ci hanno portato a scoprire l’esistenza e il luogo dove è conservata la «martinella» del carroccio c’era da auspicare che, in occasione della imminente Sagra del Carroccio del 2000, la si potesse avere a Legnano per esporla e portarla magari anche in sfilata.
La Famiglia Legnanese, in accordo col prevosto di Legnano Carlo Galli ha subito avviato i primi contatti con l’attuale rettore dell’eremo, don Francesco Maragno.
Dopo una trasferta a Butrio, lo stesso rettore ha sciolto le riserve, concedendo la rimozione provvisoria della storica campana affinché, con tutte le garanzie che richiede lo spostamento di un così antico e prezioso cimelio, possa essere trasportata a Legnano per l’edizione di quest’anno della Sagra.
La campana potrà così essere anche sottoposta a nuove probanti prove scientifiche per certificare la più precisa data di fusione.
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La lista degli argomenti della settimana 18bis
redigio.it⁄dati5⁄QGLA404-vestire.mp3 - Parte 6 ("Civetteria maschile") Vestire pratico e gentile nel medioevo fino al rinascimento - Linee di moda - Calzabraga e farsetto - Le calze e le braghe e le braghette - 3,55 - - #50
Sommario
Le dirette
Pensiero della settimana