RVG settimana 11
BIS (radio da asporto)
Radio-video-giornale del Villaggio
Settimana-1-bis del 2024
RVG-11-bis - da - Radio-Fornace
Settimana 11 2024-03-11 - Marzo - Calendario - la settimana
11/03 - 11-071 - Lunedi
12/03 - 11-072 - Martedi
13/03 - 11-073 - Mercoledi
14/03 - 11-074 - Giovedi
15/03 - 11-075 - Venerdi
16/03 - 11-076 - Sabato
17/03 - 11-077 - Domenica
11 Marzo 2024 - lunedi - sett. 11/071
Cosa ascoltare oggi
redigio.it/dati5/QGLA251-armi.mp3 - Parte 1 ("Medioevo - Armi e abbigliamento guerresco nel XII secolo - pt01") - Abbigliamento non armatura - il costo - Il cavaliere ricco - Abbigliamento europeo - Cosa vi era prima del medioevo - Descrizione dei cavalieri pesanti e leggeri - #35
Non dimenticar le mie parole
Questa Te la racconto io.
I signori dello swing: Rabagliati, Otto, Bonino
Alberto Rabagliati (Milano, 1909-1974), inizia la sua carriera a la via del cinema. Simpatico a prima vista, cordiale ed esuberante, sbaraglia migliaia di concorrenti nel concorso indetto dall'americana Fox per cercare un emulo e sostituire Rodolfo Valentino, scomparso giovanissimo. Rabagliati ha un'ottima presenza fisica e tutti i connotati richiesti, ma il soggiorno in America per tentare il successo nel mondo della celluloide si rivela drammaticamente fallimentare. La permanenza oltreoceano non è però vana perché se il cinema gli chiude le porte, riesce ad assimilare in maniera molto convincente lo swing e il jazz che dominano la musica americana. Tornato in Italia porta con sé questo suo importante bagaglio di esperienze che, per il panorama nazionale, equivalgono a una novità assoluta. Dopo un esordio con Barzizza, parte per Cuba con Lecuona tornando poi in Italia per una tournée molto apprezzata.
Fa amicizia col maestro D'Anzi, già affermato compositore, che gli permette di spalancare tutte le porte del successo. Lancia Bambina innamorata e Ti dirò.
Bambina innamorata stanotte ti ho sognata, sul cuore addormentata e sorridevi tu. Bambina innamorata la bocca t'ho baciata, quel bacio ti ha destata, non lo scordare tu...
Ti dirò che tu mi piaci, ti dirò che nei tuoi baci si nasconde il mio destino, il sogno mio divino che ancor non conosci tu!
Sfonda poi con C'è una casetta piccina, di Valbrega e Prato.
Sposi! Oggi si avvera il sogno
e siamo sposi!
Tutto risplende a noi d'intorno
e luminosi ci sembrano persino i fior...
Il Regime che nel frattempo sanziona la musica esterofila e negroide come stupida e antifascista, chiude un occhio perché in quest'ultima canzone si fa riferimento alla campagna demografica appena lanciata in Italia. A Mussolini non piacciono questi nuovi ritmi <«<sincopati»>, ma ormai Raba è popolarissimo ed è quindi meglio trattarlo da amico piuttosto che combatterlo. Sono molti i successi legati al nome di questo simpaticissimo interprete che porta un'aria nuova nella canzone all'italiana, mascherando talvolta lo swing come un'esuberanza personale. Un esempio è dato da Ba, ba, baciami piccina in cui sillaba il testo con grande maestria.
Ba, ba, baciami piccina
sulla bo, bo, bocca piccolina,
dammi tan, tan, tanti baci in quantità tarataratarataratatà.
Al cinema interpreta se stesso, il cantante osannato e «divorato» con gli occhi dalle tante ammiratrici. Tra le canzoni da citare Tu musica divina (tu che m'hai preso il cuore, non sai che il canto d'un violin può far di un sogno il mio destin), poi Mattinata fiorentina di Galdieri e D'Anzi.
È primavera, svegliatevi bambine, alle Cascine messere Aprile fa il rubacuor... E a tarda sera, madonne fiorentine, quante forcine si troveranno sui prati in fior.
È poi la volta di Silenzioso slow (Abbassa la tua radio, per favor), di Maria la O e della Canzone del boscaiolo, di Morbelli e Barzizza (O boscaiolo, il sole sta per tramontar, lascia il lavoro, torna al tuo casolar). Il Primo pensiero d'amore è un altro grande successo.
Il primo pensiero d'amore sei tu, sei tu,
colei che non posso scordare mai più, mai più. Negli occhi tuoi belli c'è un velo
di dolcezza, di bontà.
Se cade una stella dal cielo,
quella stella ti dirà...
Il primo pensiero d'amore sei tu.
Quando canta Rabagliati, di Galdieri e D'Anzi, conferma la bontà della sua voce e il prestigio del personaggio.
Quando canta Rabagliati fa così
e sui fianchi ben piantati resta li. Nello sguardo scanzonato come un lampo fa brillar
e agitando sempre l'indice levato
fa un versaccio che somiglia a un miagolar.
Canta Rabagliati diviene una rubrica fissa dell'EIAR, uno spazio personale nei programmi di musica leggera, molto gradito dai radioascoltatori. Nel dopoguerra il successo non durerà a lungo anche perché la voce, di pari passo a una evoluzione del fisico, subirà un peggioramento e non gli permetterà più di supportare i suoi soliti fraseggi. La popolarità acquisita gli consentirà, comunque, di partecipare a una serie di riviste, anche di Garinei e Giovannini.
Natalino Otto, nato a Cogoleto (Genova), nel 1912, seguendo l'innata predisposizione per il ritmo, vorrebbe diventare batterista, ma gli esordi sono difficili e lo spazio che trova per le sue esibizioni è sempre molto ristretto. Cerca fortuna allora in America dove cominciano ad apprezzare anche le sue doti vocali; ottiene un contratto, ma non si ferma negli Stati Uniti perché ha nostalgia di casa. Preferisce piuttosto imbarcarsi sulle navi che attraversano l'Atlantico ed esibirsi a bordo. Nel giro di due anni percorre molte volte la rotta e assimila perfettamente la nuova musica d'oltreoceano, il jazz in particolare e, ritornato stabilmente in Italia, con varie formazioni di avanguardia, gira i locali più alla moda. Fondamentale per lui la collaborazione con Gorni Kramer. Suoi successi del tempo sono Mister Paganini, Le tristezze di San Luigi (versione mascherata di Saint Louis Blues). La radio sbarra il passo tanto a lui che a Kramer, ma il successo continua, cosa sorprendente, solo basandosi sulla vendita dei dischi che escono sul mercato a ripetizione. Fra le migliaia di canzoni ricordiamo Mamma mi piace il ritmo, Conosci mia cugina?, Polvere di stelle, la Star dust americana e Mamma voglio anch'io la fidanzata di De Santis e Del Pino.
Mamma non son più quel capriccioso ragazzino, che sgridavi pel suo fare birichino,
ora son cresciuto e sento un fremito nel cuore che, o mamma, dà il segnale dell'amore.
Natale Codognotto, come si chiama veramente, da quegli anni sarà solo più Natalino Otto. Senza la radio, e con l'ostilità del Regime, deve lottare molto, ma ha il prezioso appoggio dei giovani che apprezzano la musica che propone.
Ricordo ancora i trionfi di Lungo il viale, del Giovanotto matto, della Classe degli asini, di Rastelli, Larici e Ravasini.
Signorina Maccabei venga fuori, dica lei dove sono i Pirenei? Professore, io non lo so, lo dica lei!
C'è poi Voglio amarti così insieme con una serie di (proibitissime!) canzoni americane.
Voglio amarti così, teneramente, voglio amarti ogni dì, con tutto il cuor Solamente il tuo labbro sa dirmi le cose più belle solamente i tuoi baci
san darmi la felicità.
Nel dopoguerra, finito il forzato esilio, trova i fan che vanno ad applaudirlo. Partecipa a numerosi Festival di Sanremo con Mogliettina, Il pericolo numero uno, Avevamo la stessa età. Nel '54 incrementa i successi cantando, in coppia con Flo Sandon's, che diviene sua moglie.
Tanti sono i brani che Natalino Otto lancia ed è impossibile fare una selezione esauriente. Non si tratta in tanti casi di canzoni bellissime, ma rappresentano delle pedine importanti nella storia del jazz nella canzone italiana.
Ernesto Bonino (Torino, 1922-2008) è forse il meno fortunato del trio che comprende Rabagliati e Otto. Nel '41 lancia Se fossi milionario, un brano sincopato che piace ai giovani. Gradevole Non passa più di Liri e Marchetti.
Non passa più per la mia stessa via, non passa più perché non è più mia. Intorno i platani si spogliano col vento, col vento tornano le nuvole nel ciel...
Seguono Maria Gilberta, Bambola e Il giovanotto matto che, nella sua versione, fa incassare diritti d'autore consistenti a Lelio Luttazzi. Da ricordare ancora Birimbo-Biram-bo, un pezzo pieno di swing assimilato negli Stati Uniti. Presto sarà sul viale del tramonto. Il suo nome scomparirà per anni per ritornare, tristemente, nella cronaca dei giornali in tempi recenti. Completamente in miseria, chiede di fruire della legge Bacchelli che aiuta i cantanti (anche lirici) a superare le difficoltà economiche. I giornali lo ricorderanno ancora nell'aprile del 2008, alla sua morte, tracciando un ritratto che renderà giustizia ai suoi meriti.
LA POLITICA
Questa te la racconto io.
Ogni volta che un milanese è riuscito a diventare un capo politico, hinn pussee i dagn che l'ha faa che i benefici che ha portato.
Forse... la politica l'è minga el noster mestee.
M: Ah, la politica... Guarda Cecca, se gh'è quaicoss dove i milanes hinn negaa, forse l'è propi la politica. Abbiamo già ricordato tante volte che Milano è stata governata, per la gran parte della sua storia, da non milanesi: qualche volta da italiani (romani, piemontesi, romagnoli), più spesso da stranieri (goti, visigoti, longobardi, tedeschi, francesi, spagnoli, austriaci); anca Sant Ambroeus l'era on roman nassuu in Germania... E quando invece sono stati dei milanesi, come i Visconti, non erano certo in molti a voler loro bene, anche a Milano.
C: La bravura dei milanesi è sempre stata quella di fare le cose in grande: soldi, gran signori, palazzi, fabbriche, commerci, finanza... Ma quanto al governo, all'amministrazione della cosa pubblica, mei lassai fà ai stranier, che inscì fann i lor legg e ghe porten via cont i tass tutt quell che poden... E noi mugugniamo, ma lasciamo fare.
M: De esempi in la storia ghe n'è a bizzeff, ma quello, a mio parere, più significativo è risale al nostro momento forse più glorioso, quello delle Cinque Giornate, quando, dopo che noi milanesi siamo diventati finalmente padroni della nostra città, hinn subit andaa a cercà quaidun "de foeura" che i governass, financo gli stessi austriaci che avevamo appena cacciato, e che, infatti, dopo pochi mesi sono tornati nuovamente a comandarci. E, non contenti, noi continuiamo ad essere quelli che, a capodanno, applaudono e battono il tempo alla Marcia di Radetzky, ed è tutto dire...
C: Vedi propi che te gh'et minga ona bonna opinion de nun come politich! Ma se facciamo qualcosa, a noi piace farla bene e, se non siamo tagliati per la politica, forse è meglio lasciarla fare a chi ne è capace! Del resto, quasi tutte la grandi famiglie che hanno dato fama e lustro a Milano l'hanno fatto sotto il governo de quaidun d'alter.
M: L'è propi quest el problema, la mancanza di un senso dello Stato che andasse un po' più in là delle mura cittadine! E così Milano ha sempre delegato altri, che, al contrario, da questo punto di vista guardavano decisamente oltre. Chi, hinn vegnuu a comandagh can e porscei - tanto per non fare giri di parole - che, ogni volta, i milanesi accoglievano con entusiasmo, sperando che fossero migliori dei precedenti... Ma, t'et mai sentii de on loeugh dove i milanes hinn andaa lor a comandà debon? Dispiace dirlo, ma il nostro temperamento è sempre stato quello dei "sudditi", che per giunta si compiacciono dei favori dei padroni di turno.
C: Me par ch'el sia minga on problema domà noster... Sono secoli che le menti migliori d'Italia, non solo di Milano, lo dicono; e lo dice persino il nostro inno nazionale. Invano, però. Occorre però anche dire che ci sono state, e ci sono anche oggi, tante famiglie milanesi che hanno reso grande Milano un po' in tutti i campi, il che significa che anche i milanesi riescono, se non a guidare, almeno a condizionare anche ad indirizzare la politica.
M: Già, inscì te fann cred de vess el padron de quell che te gh'et e che te set bon de fà, mentre i veri "padroni" sono quelli che fanno le leggi e ti mettono in riga con le tasse e tutto quello che ci sta attorno: burocrazia, tribunali, forza pubblica, perfino la scuola e gli uffici locali, Regione, Provincia, Comune... Mei lassà perd 'sto argoment, che ghe fa passà per "ciolla" in tutta Italia, anche se con tutto il rispetto...
C: Voeur propi di che fa i politich l'è minga el noster mestee. Ma, forse, faremmo bene a cercare di essere almeno un po' più diplomatici, altrimenti... te gh'et propi reson ti: se femm mangià in sul co senza che se ne accorgiom.
M: Ma gh'emm minga de sbattess giò tropp, perché, tutto sommato, da quando c'è lo Stato Italiano, anche se a Milano sono nati gli estremismi, la città è riuscita a non farsi mai governare dagli estremisti; anzi, si può dire che qui, alla lunga, sia prevalso un rapporto virtuoso tra il capitale ed il lavoro, dando vita a una realtà liberal-socialista, dove anche i due grandi partiti del dopoguerra che si spartivano l'Italia, DC e PCI, non sono mai stati maggioritari.
C: Alla fin fine, però, siamo sempre soggetti alle decisioni degli “altri”, che, ultimamente, hann vorsuu mett el becch anca in del stadio di San Sir! Mi viene da dire che Milano è il cervello del Paese, ma ghe manca el fisich: non sa imporsi, rimane sempre sottorappresentata in politica, ed anche nella cultura. E quando qualcuno che lo grida indignato viene poi eletto al Parlamento di Roma, regolarmente si dimentica di Milano, ed anche in fretta.
M: A proposito di San Siro... una città si può identificare anche con i suoi colori, ma da noi il "rosso" e il "nero" ricordano più il Milan - voglio dire la squadra - della politica! Ultimament, gh'è saltaa foeura anca el "verd"... ma, anche in questo caso, più che alla Padania pensiamo alle nostre fontanelle o, magari, ai tram e ai taxi di un tempo... E poeu, gh'è el "giald", quello bello carico del nostro famoso risotto, e quello più smorto dei tram (quando non sono totalmente coperti dalla... pubblicità).
C: Ma, anca chi, il colore milanese più citato è il "grigio", che, ahimè, ci ha identificato per tanto tempo e che ancora è ben presente nella "percezione" che tanta gente ha della nostra città.
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12 Marzo 2024 - martedi - sett. 11/072bis
Cosa ascoltare oggi
Le Madonne e i poveri Cristi dimenticati sui muri
Questa te la racconto io
Le immagini sacre tanto care ai milanesi di un tempo stanno scomparendo in silenzio. Quei poveri Cristi messi in croce e dimenticati in strada. Sono sempre più smunti, si consumano, ma lentamente, quasi volessero ancora gridare il loro amore per la città. Quasi non volessero scrostarsi, perché lì li hanno messi i padri dei nostri padri. Perché il cuore e la fede così voleva. Poveri Cristi di gesso oppure dipinti; i più fortunati hanno un vetro a proteggerli, gli altri sono addormentati nell'aria spesso viziata di Milano. E non sai più se è lo smog a cancellarli o il poco amore che ha la città per loro. Spariscono così anche le Madonne, con i Santi e gli Angeli che danno a lei conforto. Ma hanno una forza sorprendente e non si sbriciolano del tutto. Certo, non sono pitture d'autore, e non si sa neppure a chi aspetti il compito di conservarle, ma sono la città. Svaniscono mute le figure sacre, perdendo i colori e le preghiere dei passanti, però resistono. Sbiadiscono il rosa del volto, il celeste del mantello, il giallo ocra e tutti i colori di altre pie credenze.
Eppure, le immagini sacre sono come la punteggiatura della città. Sono virgole, che invitano a rallentare il passo. Sono parentesi, che trattengono e custodiscono un ricordo di una grazia o di una ferita ancora aperta. Talvolta c'è ancora oggi un lumino, spento da mesi, o un fiore, e poco importa se è di plastica. Non sperano neanche più, le pitture sacre meneghine, in una preghiera, si accontentano di un'occhiata amorevole anche se frettolosa. Quanti dipinti, altarini, edicole votive, bassorilievi, crocefissi, sopravvivono nella nostra città? Difficile rispondere, gli ultimi censimenti risalgono a più di due secoli fa! C'era un Elenco dei segni sacri esistenti nelle strade urbane di Milano, del 1799, censiti dal governo francese. In pratica, una vera e propria geografia dei segni religiosi, da Carlo Borromeo a Maria Teresa d'Austria. Quel registro, a dire il vero, serviva per cancellarli: via altarini e dipinti dalle vie della città, anche per i troppi fatti miracolosi ;Madonne che muovono occhi, piangono, sanguinano...») mal visti dalle autorità. Ma venerati dal popolo. La signora Teresa Cernuschi vedova Croci, come riportano i documenti dell'epoca, se la prese con l'ispettore del primo Rione Urbano mentre «t;faceva levare due immagini di culto esistenti sull'esteriore di sua casa n.4909, in contrada delle Ore». Per essere ancora più chiara, gli gettò addosso un orinale bello pieno. Altri tempi. Le due immagini sono scomparse per sempre, e la buona signora Teresa, dall'Aldilà, sta sbraitando per l'incuria e il poco amore che i milanesi d'oggi hanno verso le Madonne pitturate sui muri.
Quanti dipinti sacri sopravvivono, dunque? Di sicuro sono più di 120 solo nel centro storico; si aggiungano 60 edicole votive sparse nei vari quartieri, i dipinti nascosti nelle vecchie corti e un altrettanto non verificabile numero di altarini nei più recenti cortili.
Anche se rovinato, il dipinto con il Cristo deposto, nel cortile di via Ascanio Sforza 21, sul Naviglio Pavese, conserva ancora una sua forza. Il più bello è in via Sant'Eufemia 20, sulla parete posteriore dell'omonima chiesa. Protetto da una teca di vetro, pare obbligarti a rallentare, a gettare lo sguardo sul suo dolore, a perdere tempo dietro un pensiero.
Sullo spigolo di una casa, in via della Chiesa Rossa, lungo il Naviglio Pavese, una piccola statua del Cristo quasi si perde sulla grande croce abbracciata da un'edera rigogliosa. Poi c'è el Signoron de Milan, per le sue grandi dimensioni, color giallo ocra, lo stesso dell'abitazione privata che lo ospita, sul terrazzo d'angolo, in via San Dionigi, al Corvetto. Un tempo la casa si affacciava sull'acqua del canale della Vettabietta, ora ricoperto. Alta tre metri, la figura del Cristo Redentore dà il benvenuto a chi arriva da sud e benedice i moderni viandanti diretti a Chiaravalle. Trenta anni fa, per la sostituzione di un lampione, la benna di una ruspa aveva troncato di netto la mano destra. Poi, sul finire del 2020, è arrivata la mano nuova.
Alle Colonne di San Lorenzo, si affaccia proprio sulla movida dei giovani: è un Cristo malmesso, seppur protetto dal vetro. La parte inferiore del dipinto è sparita, ma fino a pochi anni fa si intravedeva il teschio di Adamo, quello che abitualmente viene raffigurato ai piedi della croce. Ostinato, quel Cristo protegge ancora i ragazzi che riempiono la notte ai suoi piedi, cercando una birra e una risposta ai tanti perché della vita.
C'è pure una Madonna in sosta vietata, in vicolo Pusterla, un budello di strada, da piazza
DA sinistra, el Signoron di via San Dionigi in una foto del 1971, quando aveva ancora la mano destra originale; sopra, la Madonna con Bambino sul balcone al civico 5 di alzaia Naviglio Grande.
Sant'Alessandro in Zebedia fino al retro dei negozi che si affacciano su via Torino. Il cartello di sosta vietata, il più delle volte divelto, è appoggiato a una spanna dal piccolo affresco che ingentilisce questo pezzetto di Milano così così. Ci sono fiorellini freschi e Maria è incorniciata da una finestra neppure troppo elegante. Lo sguardo è rimasto sereno e pare cercare uno sguardo e invitare il passante a proseguire sul sagrato di una delle più belle chiese della città.
Solo nel primo sorso del Naviglio Grande, alla Darsena, si mostrano alle pareti ben quattro immagini sacre. Al numero 5, quasi affacciata al balcone, c'è una Maria col Bambino e due Angeli. Più giù, sul bistrot all'angolo con via Argelati, le tracce di un altro affresco naif. Al 12, dopo il vicolo dei Lavandai, due Angeli genuflessi al Sacro Cuore. Al civico 4, una Beata Vergine. Segni che si allontano e non è solo il tempo a spegnerli. Una targhetta sotto la Madonna, al numero 20 di via Conchetta, tra San Gottardo e Naviglio Pavese, prova a mantenere in vita una bella preghiera per i giovanotti scapestrati del rione: Distendi il tuo mantello sopra i cuori duri e fa che in questa via, malnatt, drogaa gh'abbien minga da sbatte scontra on mur. Senza giri di parole, dritto negli occhi di Maria: pensa ai ragazzi, quelli di strada, sbandati e forse anche drogati. Una preghiera in dialetto così arriva prima.
Nella vicina via Torricelli, tra i civici 26 e 30, appare una consumata e grossolana pittura della Sacra Famiglia, accanto all'officina di un gommista. I colori si sono stancati di stare alla parete ma, dietro una fila di fiori finti, è rimasta la scritta, gustosa, naif, vera: Voi che passate per questa via, salutate Gesù, Giuseppe e Maria. Parole semplici da sembrare una preghiera.
E così sbiadiscono in un amen anche le altre, in via Gentilino 6, nel rione di corso San Gottardo, in viale Monte Nero, quando già si intravede la Rotonda della Besana, in chissà quanti altri quartieri... Sono tutti pezzi unici. Sono la città. Raccontano la fede di gente umile e di nobili signori. Arte povera solo perché semplice, genuina, commissionata dal cuore. Le immagini sacre che sopravvivono sui muri sono i segni della fede che ha abitato queste vie e queste pietre. Sono segni del nostro passato che si stanno allontanando. E non è il tempo a spegnerli.
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13 Marzo 2024 - mercoledi - sett. 11/073bis
Cosa ascoltare oggi
Comune di Baggio (Bagg)
Nome abitanti: Baggesi
Oggi fa parte del Municipio 7. Il nucleo storico del borgo si sviluppa attorno alla chiesa Vecchia (via Ceriani). Il toponimo deriverebbe da Badalocum (torre militare romana dalla cui sommità si vigilava sul territorio circostante) o da Badia aggeris (abbazia o torre del terrapieno). I primi insediamenti risalirebbero all'epoca celtica e sicuramente fu un borgo romano (IV secolo d.C). La prima testimonianza scritta del toponimo risale al 873 d.C.: si tratta di un atto per una disputa di terreni dove viene citato quale testimone un esponente della famiglia da Baggio. Nel 1861 la sua popolazione era di 1.251 abitanti, che salirà a 6.000 poco prima dell'annessione al Comune di Milano, nel 1923.
Di Baggio ricordiamo:
*Anselmo da Baggio, divenuto papa con il nome di Alessandro II (1061);
*nel Dicembre dell'anno 1400 inizia la costruzione del monastero degli Olivetani, oggi sede del Municipio di zona (cascina Monastero);
*la Cascina Linterno (denominata ad Infernum fine al tardo Cinquecento), oggi nei pressi del Parco delle Cave, dove si dice abbia soggiornato Francesco Petrarca durante la sua presenza a Milano in qualità di consigliere e ambasciatore di Giovanni Visconti;
*l'ultima casa di don Giuseppe Gervasini, el Pret de Ratanà, oggi in via Fratelli Zoia 182 (poco distante dalla Cascina Linterno);
*la strada Baggina, che congiungeva l'antico Comune a Milano, che diede il soprannome anche al Pio Albergo Trivulzio quando, agli inizi del '900, vi venne costruita la nuova sede;
* Umberto Nobile, che partì dall'aerodromo di Baggio il 15 aprile 1928 per la tragica spedizione al Polo Nord con il dirigibile Italia. A Milano è ancora in uso l'espressione dialettale Andà a Bagg a sonà l'òrghen (all'indirizzo degli scocciatori, per invitarli a togliersi da torno), che farebbe riferimento a un organo un tempo affrescato all'interno della gesa Veggia.
Aprile
Primo aprile: pesce d'aprile! Tra le tante leggende nate attorno a questa burla, mi piace ricordare quella ideata nel 590 d.C. dalla Regina Teodolinda, sposa prima di Re Autari e poi del cognato Agilulfo.
Il primo aprile di quell'anno, la grande longobarda, radunò d'urgenza nella reggia di Monza, per importanti comunicazioni, i suoi Sculdasci (Ufficiali con funzioni di giustizia nelle suddivisioni minori del Regno Longobardo). All'ora stabilita la Regina apparve nella sala del trono accompagnata da due cuochi che recavano su di un grande vassoio uno stupendo luccio pescato nelle allora limpide acque del Lambro. Indicando agli stupiti sudditi l'enorme pesce, di quasi un metro di lunghezza, la Regina disse ridendo: "Il problema è questo: sapete dirmi come cucinare al meglio questo splendido esemplare?!". E da allora il "pesce d'aprile" si rinnovò con nuove burle, anno dopo anno, in tutto il Regno Longobardo, arrivando fino ai nostri giorni.
Graziano Ballinari, è un cultore delle tradizioni lombarde e del Canton Ticino, nella sua Garabiolo, piccola località sopra Maccagno, dove si gode una splendida vista del lago Maggiore e delle isole Borromee, ha fondato il Museo Etnografico della Val Veddasca, nel cui interno è ricostruita una antica osteria e tante altre curiosità, fra le quali un settore dedicato alla Gioconda leonardesca (che in Val Veddasca venne nascosta quando fu trafugata dal Louvre) ritratta in tante pose, secondo l'ispirazione dei pittori della valle. Durante una mia visita, ai primi di aprile, mentre gustavamo cibi da lui appositamente preparati con antiche ricette raccolte sul posto, il Ballinari sosteneva che il connubio tra il pesce ed il primo giorno di aprile sia nato attorno al 1560, ai tempi di San Carlo Borromeo, quando ogni primo di aprile i pescatori del lago Maggiore si radunavano con le loro barche attorno all'Isola Bella in attesa della benedizione del futuro santo e, solo dopo averla ricevuta, davano inizio alla pesca primaverile.
La benedizione di San Carlo doveva servire ad infondere speranza nei pescatori e ad indurre i pesci a lasciare il fondale del lago dove si rifugiavano durante l'inverno. Se col ritiro delle reti la pesca era stata abbondante, al ritorno a terra, iniziavano i festeggiamenti con ricche mangiate e bevute che inevitabilmente finivano con scherzi che, anno dopo anno, consolidarono una tradizione arrivata fino ai nostri giorni.
"A Pasqua se mangia el cavrett e l'insalatinna cont i ciappett!" (Capretto, cicorino e uova sode, sono cibi tipicamente pasquali). È in aprile che quasi sempre si festeggia la Pasqua e a Milano, come troviamo scritto in una testimonianza del X secolo (lasciata dallo scrittore Beroldo), il Clero Metropolitano passava in processione dalla cattedrale invernale di Santa Maria a quella estiva di Santa Tecla dove, prima di entrare, l'Arcivescovo batteva tre volte le porte con la croce cantando i salmi poi, prima di dare inizio alle solenni funzioni, dava il bacio della pace a tutti i componenti del Capitolo, dicendo: "Christus Dominus resurrexit", i quali rispondevano: "Deo gratias, alleluia!".
Nel giorno di Pasqua, a Monza, si regalano come augurio i pasqualitt che sono, uova sode col guscio cotte al forno dopo averle posate su uno strato di pasta frolla dolce, tenute insieme da due strisce a crociera della stessa pasta. Ancora oggi si usano le pasquàrole, cioè i regali che si scambiano i fidanzati durante il periodo pasquale; le ragazze donano al loro innamorato un uovo avvolto in un fazzoletto, ricevendo in cambio un ramo d'ulivo dorato su cui sono attaccati oggettini graziosi e un piccolo cero, simbolo d'amore ardente!
Il giorno dedicato all'Angelo, i nostri nonni, portavano i loro figlioli nella basilica di S. Ambrogio a toccare la colonna di Arnolfo (Arcivescovo di Milano) che porta in alto il serpente di bronzo, con lo tenere lontano il male dei vermi.
Pasqua, vegnla basa o vegnla alta, la vegn via cò la sò frasca!". Questo adagio lombardo che ha l'equivalente toscano in: "Pasqua, voglia o non voglia, non fu mai senza foglia!", annuncia il ritorno del bel tempo, come conferma un proverbio mantovano: "Se a april an codéga, ad magg an as sega" (Se in aprile i prati non cominciano a verdeggiare, a maggio non si falcia). Il mese in cui si preparano i campi è aprile anche se: "April fa el fior e magg el gh'ha l'onor!" (Aprile fa il fiore e maggio si prende l'onore) perché è appunto in maggio che la fioritura è completa.
El temp come el sarà?... Mah! Brao chi le sa!". Questo simpatico gioco di parole denota l'incertezza con cui si affronta l'incognita del tempo. sapere con esattezza cosa ci aspetta bisogna consultare, come si faceva un tempo in tutta la Lombardia, una pianta di pesco. A seconda di quando e come avveniva la fioritura e se i suoi bei fiorellini, color rosa tenue, cadevano più o meno precocemente dai rami, si traevano auspici per i raccolti o per prevenire le malattie degli animali da stalla. I fiori di pesco sbocciano in marzo e aprile e, come marzo, anche aprile ha giornate instabili e la pioggia obbliga spesso a sospendere i lavori nei campi: "April, prilett, tucc i di on ruscett!"
(Aprile, apriletto, tutti i giorni una spruzzatina); ma, in questo periodo, l'acqua è benefica: "April ghe n'ha trenta ma se piovess trentun el faria mal a nissun!" perché: "Var pussee ona d'acquada a la soa stagion, che el car d'or del Re Faraon!".
Il volo radente delle rondini è pronostico di pioggia: "Quand la rondena la vola bassa, la ciama l'acqua a brassa!". Le rondini non fanno mai il loro nido sotto quei tetti dove vi è disunione, come ben sa la sapienza di noster vécc: "In d'ona cà dove gh'è discordia la rondena la fa minga el nid!".
Se mars no l'aiuta april, nanca a magg se impieniss el fenil!" (se in aprile i prati non cominciano a verdeggiare, a maggio non si falcia). Nei campi è tempo di compiere una vangatura uniforme per spargere il letame raccolto in precedenza nelle stalle del paese durante l'inverno e, se questo non viene fatto, la terra, per bocca della sapienza di noster vécc, si lamenta:
"Lasm el me stram, ch'am m'incàghi dal tò letam!" ovvero: se non vuoi darmi letame, interra almeno la parte fresca della mia erba e dello strame in modo che da solo arricchisca il mio terreno rendendolo fertile, perché:
In april buta anca el mànogh del badil!" (In aprile germoglia anche il manico del badile).
Freddo e tepore in questo mese si alternano: "April freschin, tantu pan e pocch vin!" (Aprile freddo tanto frumento e poca uva) e questo è un avvertimento anche per le persone: "Caves minga el vestì fin che el nespol l'è minga fiori!" anche se un proverbio mantovano recita: "Quand el ròsp el canta in dla bügnòla dl'invèran a sem föra!"
(Quando il rospo canta nello stagno è primavera). Sempre nel mantovano assicurano che: "A semnar le süche d'april, le ven grose cmè 'n baril!" (aprile è il mese indicato per seminare le zucche, di cui si fa largo uso nella cucina mantovana). Oltre ai famosi ravioli col ripieno di zucca, nei mesi primaverili vengono preparate minestre con ortaggi o erbe selvatiche colte nei prati, come la famosa minestra maridada (fatta con vari tipi di verdure che ben si sposano tra loro e cotte con carne di maiale), oppure si cuoce riso e latte... "el famos rìs e latt che l'è ona bontà!"... ricetta finita nel dimenticatoio per purtroppo lasciare spazio a cibi più sofisticati.
Da secoli il riso è di casa in Lombardia, tanto che ormai fa parte della tradizione derivante dall'antico culto di Gea: la terra.
Il lavoro iniziava con l'allagamento dei campi alla fine di aprile. Le mondine eseguivano fino agli anni Settanta del secolo scorso in risaia il trapianto delle piantine e la monda.
L'invio di riso in occasione di varie feste vale come augurio di prosperità ed è diffusissima la consuetudine di lanciare riso sulle coppie appena sposate mentre escono dalla chiesa, o dal municipio per augurare abbondanza e fecondità alla nuova famiglia.
"Al sòl scalda e l'acqua bagna, Dio al i a fà e 'li compagna!".
A proposito di nozze, segnalo un fatto accaduto qualche anno fa in un ristorante di Sesto San Giovanni, cittadina alle porte di Milano. Doveva essere una giornata indimenticabile e per un certo verso lo fu! Dopo il fatidico "St" davanti al sacerdote, il lancio del riso e le foto di rito, la folta comitiva era finita in un ristorante cittadino. A pranzo ultimato, dopo il tradizionale taglio della torta, uno dei testimoni, di origine meridionale, propose il taglio della cravatta dello sposo e la distribuzione dei suoi pezzetti agli invitati che avrebbero fatto un'offerta, in modo da raccogliere una somma supplementare per il viaggio di nozze. "El taj del terron", come da noi è chiamata tale usanza, venne però contestata da un cognato della sposa, brianzolo puro sangue; tra i due nacque una discussione che, complice l'atmosfera riscaldata dai molti brindisi, fece sì che la comitiva si dividesse in due fazioni, pro e contro il taglio della cravatta. In pochi minuti si scatenò un putiferio con lancio di piatti, bottiglie, bicchieri, seggiole e quant'altro capitasse a tiro dei contendenti tant'è che il proprietario vistosi semi-distrutto il locale chiamò i poliziotti che portarono al commissariato gli sposini e una trentina di invitati! Insomma una grande eccitazione perfettamente in tema con un detto che il grande Carlo Maria Maggi, nel 1600, aveva già messo in una delle sue commedie: "In temp de spos tripilla anca la vacca!".
A San Giorg, da la volta al tròs! A San Giorgio, 23 aprile, è il momento in cui il tralcio della vite comincia a crescere, perciò vanno scelti i migliori ramoscelli portanti una o più gemme produttive, per talea.
A San Giorg el bigatt el se mett al cold". In questo periodo si fanno nascere i bachi da seta che essendo delicati bisognava tenerli al caldo. Si racconta che le donne per assicurarsi che i bachi non mo- rissero li mettessero in bende e le posavano sul seno. Ecco alcune leggende legate a San Giorgio: gli abitanti di Annone Brianza sono chiamati "magna peverascia" (un'erba primaverile detta anche "peverina" di cui sono ghiotte le galline), perché anni addietro legarono una fune al collo di un asino e lo issarono con una carrucola, fin sulla cima del campanile della chiesa parrocchiale di San Giorgio per fargli mangiare un ciuffo di "peverascia" spuntato lassù non si sa come! Il povero ciuchino morì strozzato durante la salita e i suoi avventati impiccatori si meritarono per sempre l'appellativo di "magna peverascia".
La stessa cosa, stando ad un'altra leggenda, accadde a Baggio, popoloso quartiere periferico di Milano. Anche lì un contadino legò una corda al collo del suo asino e lo issò sul campanile della vecchia chiesa per fargli mangiare un ciuffo d'erba che spuntava tra i mattoni - a differenza di quello di Annone Brianza questo però si salvò, fu portato in trionfo a bordo di un tram in centro a Milano e fatto sfilare sul sagrato del Duomo. A Castelletto di Branduzzo, in provincia di Pavia, come ci fa sapere Mario Merlo nel suo Leggende Lombarde, accanto al castello rinascimentale c'è un terreno detto "Campo dei morti".
La leggenda vuole che in certe sere di fine aprile, allo scoccare della mezzanotte in quel campo appaia un bianco cavaliere, avvolto in un alone di luce, che si mette a caracollare col suo destriero per poi scomparire quando suona l'ultimo rintocco della campana.
Siccome nel salone del vicino castello vi è un affresco, raffigurante San Giorgio che lotta col drago, la fantasia popolare lo ha abbinato al cavaliere fantasma.
"San March l'è ona bella gésa!". L'origine di questo detto milanese è antica quanto la chiesa stessa che fu costruita nel 1250 e in seguito abbellita e arricchita con i regali dei vari Visconti che si susseguirono alla signoria di Milano. Ma uno di loro, Bernabò, per rifarsi delle spese sostenute dai predecessori, caricò di nuove tasse i milanesi i quali alla fine ebbero, sì, abbellita la loro chiesa ma a caro prezzo! Da ciò l'ironico detto: "San March l'è ona bella gésa!" che ancora oggi viene pronunciato dai vecchi meneghini quando si sentono proporre una cosa che sul principio sembra un affare ma alla fine finisce col costare parecchio!
Al 25 aprile, giorno di San Marco e anniversario della Liberazione, sono legati altri due proverbi che riguardano l'andamento stagionale:
Se pioeuv fra San March e San Grigoeu l'uga la va tutta in cavrioeu!". Se piove tra San Marco e San Gregorio (9 maggio), l'uva va tutta in pàmpini (il pàmpino è la foglia della vite).
Anche il secondo proverbio, per potersi esprimere ha bisogno di chiedere aiuto ad un giorno di maggio, dice infatti: "Tra San Marchett Crosett, on invernett!" cioè, tra San Marco ed il tre maggio, giorno un tempo dedicato al Ritrovamento della S. Croce, aspettiamoci un ritorno del freddo, chiamato: "Invernin de San Giorg!".
II 29 aprile la chiesa ricorda il martire San Pietro da Verona, ucciso nel 1252 dai patarini mentre attraversava la boscaglia di Farga presso Seveso; fu colpito con una scure alla testa e poi finito col pugnale Eletto, per il martirio che subì, a protettore contro l'emicrania ogn anno, il 29 aprile, i suoi devoti vanno nella chiesa milanese di Sant'Eutorgio a chiedere la grazia di essere preservati dal mal di testa per tutt l'anno. Per esserlo, basta toccare con il capo l'arca, oppure sfregare con fazzoletti o altri indumenti, tipo cappelli o foullard, il vetro dell'urna che custodisce la testa del santo.
Perciò se soffrite di emicrania, l'unico rimedio è andare il 29 aprile in S. Eustorgio "a piccaa la crapada!". Provare per credere! Come diceva...
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14 Marzo 2024 - giovedi - sett. 11/074
redigio.it/rvg101/rvg11-074bis.mp3 - Te la racconto io la giornata
Cosa ascoltare oggi
Che l'abito non faccia il monaco, una linea di moda - C'era pure l'unisex - Intero guardaroba in un solo abito - Cloches, guanti, cornette - Linea di moda "flamboyante" - Civetteria maschile
Storie, personaggi, luoghi di Baggio Il somaro sul campanile
Tanti, ma tanti anni fa, viveva a Baggio un contadino di nome Poldo il cui somaro, chiamato Bigio, ragliava giorno e notte. Smetteva di ragliare soltanto quando mangiava. Era l'animale più odiato del paese! Pareva avesse uno stomaco senza fondo perché mangiava, mangiava e più mangiava più la fame lo perseguitava. Poldo viveva nella costante disperazione di procurargli del cibo ed era costretto a rinchiuderlo nella parte più isolata della cascina, per non infastidire i paesani. Concluso il lavoro, Poldo legava un sacco di fieno alle orecchie del suo inseparabile amico, per andare, senza farlo ragliare, di gran corsa a brucare nei prati e lungo i bordi dei fossi.
Accadde un pomeriggio che Poldo e Bigio, sempre reciprocamente accompagnati dalla disperazione, si accorsero di un appariscente e appetitoso ciuffo d'erba cresciuto sul tetto del vecchio campanile; i due, dopo aver dilatato gli occhi, si guardarono con uguale pensiero e Bigio incominciò a ragliare rumorosamente, impuntandosi tanto che con difficoltà Poldo riuscì a trascinarlo in cascina.
Dopo cena, Poldo ritornò con il somaro sul piccolo sagrato della chiesa. Trovata la porta aperta della torre, Poldo entrò di corsa e sali, come un gatto, sulle scale di legno che conducevano al castello delle campane; da li agganciò una lunga e doppia corda alla croce, in cima al tetto; il canapo lo trovò al piano terra, dove il campanaro ammucchiava utensili e barattoli di grasso. Fatto l'aggancio, Poldo scese precipitosamente verso il suo somaro che, nell'attesa, ragliava, ragliava, ragliava, ragliava ripetutamente... l'imbragò con le corde che pendevano dall'alto del campanile e poi risalì nuovamente, sempre a quattro gambe - o gattoni, per essere più chiari - sulle strette scale di legno sino alle campane, per controllare che tutto fosse ancorato bene. Una volta ridisceso, iniziò a tirare la corda. Poldo tirava, tirava con fatica e il somaro ragliava, ragliava. Soltanto dopo vari tentativi, Bigio capì che non doveva lasciarsi strisciare lungo la muratura, ma sgambettare sulla parete del campanile. Così facendo, passo dopo passo, poté finalmente brucare e gustare il ciuffo che c'era sul tetto.
Una rotonda luna di primavera illuminava l'avventura dei due disperati. Sotto al campanile si erano nel frattempo riuniti degli ubriachi, appena usciti dalla vicina osteria. Nel gruppetto nessuno era in grado di mettere insieme tre parole che avessero fra loro una logica, né riuscirono a rimanere in piedi guardando il somaro brucare sul campanile.
Il somaro Bigio ritornò a terra, sano e salvo. E non ragliò mai più! In quel ciuffo mangiato sul campanile trovò fine la sua ingordigia.
Il contadino e il somaro vissero a Baggio felici e contenti per tanti e tanti anni.
Il giorno dopo l'avventura di Bigio sul campanile, i tre testimoni, superata la sbronza, iniziarono a raccontare di Poldo e del suo somaro, in versioni discordanti, e più arricchivano la storia di particolari, più la allontanavano dalla realtà. Per questo una ceramica parietale di grandi dimensioni ricorda oggi l'esatto episodio: i milanesi la definiscono una favola , ma per noi baggesi altro non è che una delle meraviglie capitateci! E sempre per dimostrare a quei milanesi che non la vogliono capire, e per dare una secca risposta alla loro convinzione che il somaro sia morto strozzato prima di raggiungere l'erba, per ben tre volte abbiamo dovuto portare Bigio in centro: in piazza del Duomo (1945), in Galleria (1981) e a Palazzo Marino (1987), la prima volta sequestrando un tram a Baggio, le due successive sempre su tram ATM, ma noleggiati. Un'altra ceramica, collocata a parete poco lontano da quella del campanile, conferma anche quest'avventura tramviaria.
La nostra storia la raccontiamo con ceramiche o maioliche fra le vie del vecchio borgo. E così, in via Sgambati trovate quella che ricorda papa Alessandro II (Anselmo da Baggio) - nell'incertezza che avesse o meno la barba, l'abbiamo raffigurato in entrambe le versioni , con l'invito a esprimere la vostra preferenza. In via Gianella c'è invece l'elenco di otto famiglie vissute nel 1206. Numerose erano le vigne, dal 1250 sino al 1875, e la pigiatura è ricordata in una ceramica in via delle Forze Armate n.397. Nella stessa via, all'angolo con via Dalmine, l'immagine fra tendaggi con rose vuole ricordare che un tempo, in quello slargo dove si trova la ceramica, c'era l'Osteria della Rosa - i tendaggi sono in stile barocco: non a caso l'artista ceramografo è salernitano. Nel 1395 fu aperta la strada da Baggio al castello di Cusago, su richiesta di Gian Galeazzo Visconti, avvenimento raccontato in una ceramica posizionata all'inizio di via Cusago, che ricorda anche come la strada fosse diritta come un fuso. Sempre in via Cusago un'altra ceramica canta l'inizio di dicembre del 1400, quando prese forma il cantiere per la costruzione del monastero degli Olivetani, edificio sopravvissuto nei secoli e ora sede del Municipio 7. Se invece si desidera conoscere la planimetria catastale di Baggio nel 1722 la si può trovare sempre in Forze Armate, poco lontano dalla ceramica col somaro sul campanile: la mappa è appoggiata su delle ricciole; l'artista è napoletano e si notano piastrelle di vario stile locale, fra cui alcune pompeiane. Cosa c'entrano questi stili non lombardi? La storia di Milano e di Baggio ha visto, nei secoli, coinvolte persone da tutte le regioni d'Italia, e per questo abbiamo espressamente voluto che le varie esperienze nel settore ceramico si potessero notare anche nei nostri racconti. Le ceramiche finora posizionate sono 36 e così, passeggiando, le pareti del nostro borgo raccontano di partigiane, di una locale favolosa squadra di calcio (1946), della nascita della Cooperativa Edile (1907), della Croce Verde (1911), delle storiche botteghe di biciclette con i migliori meccanici del dopoguerra, di un dirigibile di Enrico Forlanini (1912)... Insomma, di certo non vi annoierete venendoci a trovare a Baggio!
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15 Marzo 2024 - venerdi - sett. 11/075bis
Cosa ascoltare oggi
- redigio.it/dati2608/QGLO807-milano-CaOreggia.mp3 - Luoghi di Milano
- redigio.it/dati2608/QGLO808-ripostiglio-Ranza.mp3 - Luoghi di Milano
L'ANTICA PIAZZA DEL MERCATO di Varese (3-3 )
Ma lasciamo le capricciose vicende dell'irrequieta monella e ritorniamo parlare del Sempioncino che dopo alcuni anni di intensa attività, essendo decaduta come sala da ballo, prima della costruzione del Cinema Teatro Impero, venne trasformata in cinematografo, con il pomposo nome di Cinema Italia. Ma la sua esistenza fu di breve durata e ben presto dovette chiudere i battenti, poiché sul piano economico fu un vero disastro.
Riprendiamo la nostra storia alla metà degli anni trenta, quando la piazza del Mercato fu arricchita dal Monumento dedicato ai Caduti in guerra, trasferito dalla piazza XX Settembre, ritenuta troppo ristretta per la mole dell'opera, creata dal grande scultore Enrico Butti di Viggiù, già famoso autore del Guerriero di Legnano , una statua tanto bella da sembrare vivente e che ancora oggi splende nel sole della piazza di Legnano.
Il monumento varesino aveva subito alcune critiche per il suo complicato simbolismo, ma Enrico Butti, con assoluta e ferma convinzione, lo considerava il suo capolavoro che esaltava l'eroismo del soldato caduto al servizio della Patria. E nella piazza del Mercato l'imponente opera monumentale mise in mostra con maggiore evidenza l'equilibrio tra spirito e materia, come disse Michelangelo: La mano che obbedisce all'intelletto e che sa trasfondere nel poderoso cavallo, scattante e nitrente, la fierezza del suo destino guerresco, e nel Milite, che ha vinto e si riposa. La bontà e la forza dell'umile entrato nella storia col fragore e col sangue .
E di fronte a quel monumento, come in tutte le città italiane, anche la popolazione varesina, nel tardo pomeriggio del giorno 10 giugno 1940, si radunò compatta nella gremitissima piazza del Mercato, per ascoltare il Duce, che dal balcone di Palazzo Venezia, annunciò l'intervento in guerra delle Forze Armate italiane al fianco della Germania.
Interminabili applausi e sfolgorio di bandiere salutarono le parole di Mussolini, quando concluse il suo discorso con la parola d'ordine: Vincere!
La sanguinosa guerra, lunga e disastrosa, ci portò lontani da Varese e quando siamo ritornati, alla fine del mese di febbraio 1946, con il treno del le ferrovie dello Stato, dopo un viaggio di undicimila chilometri, abbiamo attraversato a piedi la piazza del Mercato, vuota e malinconica, per raggiungere la nostra abitazione di Bosto. Con una sacca sulle spalle, la giubba e i pantaloni di marca americana, segnati da un vistoso P.o.W. (Prigioniero di Guerra), passando sulla piattaforma del monumento, tutto ci sembrò falso, comprese le bandiere e gli applausi che avevano osannato il discorso del Duce in quel lontano 1940.
Poi venne la Repubblica, e come la piazza Esedra in Roma, anche l'antica piazza varesina del Mercato mutò la sua denominazione. La Fiera (con la nuova sigla di Luna Park) fu trasferita in altro spazio della città, lasciando la monumentale di Enrico Butti in desolata solitudine: simbolo dell' opera l'Italia unita o della Padania?
LA CURT (LA CORTE E I "CORTEGIANI")
La curt, il cortile era una delle tante provincie della regione che era la Verghera di allora. Luogo circoscritto, autonomo con tradizioni, amicizie, disposizione topografica particolari.
Il cortile era un paese in miniatura: sul davanti case di abitazione in genere di due piani, a pianterreno i locali utilizzabili durante le giornate, le cucine erano dotate di camini grandi e massicci, le stanze (mai chiamate camere!) per dormire, come le cucine, ampie e gelate (d'inverno coi fiori di ghiaccio sui vetri e trasformazione in ghiaccio dell'acqua delle brocche); al primo piano ci si saliva o per una scala interna a chiocciola in ferro oppure in legno attraverso un'apertura (arbusèll) praticata nel soffitto in legno, oppure da una scala esterna con gradini di beola.
Il lato della casa che dava sul cortile aveva un marciapiede di cemento chiamato "ul ciment"; davanti alla stanza da letto correva un ballatoio con la ringhiera dove si sostava, appena alzati, a prendere l'aria fresca e pura del mattino.
L'orto sul davanti o dietro la casa, ricco di piante da frutto e di verdure di ogni genere.
Le stalle (buoi, mucche, capre, pecore, maiali) e sopra le stalle i fienili. Nei pollai, due o tre o anche di più e di grandezze diverse, viveva di tutto: galletti dall'andatura baldanzosa, galline faraone, padovane o livornesi razzolavano, cantavano il coccodè, si rincorrevano, si sottoponevano tranquille e rassegnate all'imperio del gallo, oche dalla piuma candida e soffice, anitre mute, anitre dalle piume di colorazioni diverse con riflessi dorati, piccioni, covate di pulcini, tacchini dall'aria un po' sciocca e vanitosa. I conigli venivano allevati nelle gabbie. Nel mezzo del cortile c'erano le rudère o letamai, fosse murate per la raccolta dei rifiuti inutilizzabili e del letame per chi possedeva animali da stalla. Non vi si gettavano i baccelli dei piselli o dei fagioli, non le foglie più esterne dei cavoli, dure anche dopo una lunga cottura, né le pelli delle patate, i resti dei pomodori utilizzati per il ragù o l'insalata; non si gettava l'anima delle zucchine anche se diventavano grosse come una casa, la buccia delle angurie o dei meloni, gli scarti dell'indivia o della cicoria. Era tutta manna per le galline, per i conigli o per i maiali. Le latte vuote o i vetri delle bottiglie venivano gettate sopra il tetto dei gabinetti e si portavano al cavo quando ce n'era abbastanza da riempire un carretto intero.
I gabinetti di ciascuna famiglia erano raggruppati in fila sotto il portico del fienile e poiché in casa non c'era bagno, quando il bisogno impelleva era giocoforza attraversare il cortile sotto l'acqua o la neve, se il tempo era inclemente, di giorno o di sera e anche di notte. Nelle case non c'era neanche l'acqua potabile che si doveva andare a prendere col secchio in mezzo al cortile. Se l'inverno era rigido gelava nella tubatura ed era necessario, tutti i santi giorni, accendere un fuoco di fascine o di margàsc (fusti secchi del granoturco) per sgelarla e renderla potabile.
Fonte alternativa il pozzo, presente in quasi tutti i cortili. L'acqua del pozzo era leggermente tiepida d'inverno e molto fresca d'estate.
Tanti cortili avevano ampi spazi liberi che servivano come aie per far seccare il trifoglio rosso, il granoturco, il frumento, per far asciugare le patate.
Era facile veder piantati, nella maggior parte dei cortili, alberi anche altissimi di noci, di fichi, di kaki, di ciliegie, di albicocche, di robinie e di gelsi, testimoni, questi ultimi, dei tempi in cui era molto attivo e redditizio l'allevamento del baco da seta.
Come in un calendario in uso da tempo immemorabile tutte le ore del giorno erano regolate in maniera fissa. Stabilite le ore del bucato, le ore da passare nell'orto, di andare in campagna, di provvedere per le spese, di stirare.
Alle conversazioni "comunitarie" (Tré donn, mercàa da Saronn) era sacro dovere partecipare. Tutte le comari contribuivano alle chiacchiere segnate all'ordine del giorno, rendendo così, di pubblico dominio, notizie e dicerie.
Ogni donna (il consesso era totalmente femminile) arrivava al luogo del convegno portando ciascuna il proprio seggiolino (cardeghìn) perché la panca addossata al muso di casa non era in grado di dare ospitalità a tutte e un pacchettino con una merendina, per un leggero spuntino pomeridiano.
Veniva passata in rassegna tutta la vita del paese dalla fine della conversazione del giorno precedente al momento della riunione in atto: si raccontavano i fatti succeduti a questo o a quella, le dicerie sulla Marieta o sulla Cesarina, i rincari dei generi alimentari, le malattie capitate al Tizio e al Caio, si parlava dei nuovi nati e si piangeva - a parole - sui deceduti recenti, paesani che la morte aveva reso persone amorevoli e per bene.
Gli uomini del cortile lavoravano tutto il giorno allo stabilimento e dopo, verso sera, in campagna. Il loro intervento nella vita chiacchierata del cortile era molto raro. Solo casi e fatti eccezionali li spingevano a parlare. Le ore libere preferivano passarle al circolo o all'osteria davanti ad un mazzo di carte o a un buon bicchiere di vino piemontese o pugliese.
La denominazione dei cortili, tramandata da tempi assai lontani, faceva soprattutto riferimento al primo proprietario, a chi aveva fondato il cortile costruendovi il primo nucleo abitativo o a chi dei suoi abitanti era stato il più famoso o il più ricco, a chi, insomma, aveva lasciato maggiore memoria di sé: per ricchezza, intraprendenza, capacità o risorse di lavoro o anche per la vita disordinata, dissipata o scapestrata.
Ecco l'elenco dei cortili (curt) più vecchi e famosi: la denominazione della via e del numero civico è attuale:
- CURT DUL FRA': piazza Volta 11, che confina, col lato sud, con proprietà delle suore dell'Asilo.
- CURT DI CULOMB O DU LA MORUCCI: via Palazzo 26, di fronte ai due gelsi centenari.
- CURT DUL BACICIA O DI MUCIT: dopo il cortile Colombo, via Palazzo 28.
-CURT DUL GEPA: confinante con la Curt CRAON: sparite. Sul loro terreno è stato costruito il condominio col negozio del tabacchino, Via Mazzini 14.
- CURT DUL BONGIORNO: via Nino Locarno di fronte alla tessitura Alceste Pasta. Il Buongiorno era titolare di un salumificio attivo intorno al 1920. Passando davanti al cortile, invaso da in mare di erba, si ha l'impressione che sia disabitato.
- CURT DI LAMPUGNAN: aveva sede in quel cortile la bottega di ciclista dei MUSTIOLA - via Indipendenza 31.
- CURT DU LA SCIURA MARIETA: Signorina biondiccia e sbiadita, non si era mai sposata ed era l'ultima erede rimasta dul Carlò Prandoni du la machina. Entrata in piazza Volta al principio di via Mazzini a destra.
- CURT DUL BAGATT: via Mazzini 17.
- CURT DI BARDAZ: Via Indipendenza prima del cortile Lampugnan (i Bardàz vendevano terraglie: facevano i piatè).
- CURT DUL GENI FURNE: in piazza Volta, dove c'era l'atelier di falegname del Marino Puricelli.
- CURT DUL SUMEN: situata in via Indipendenza appena dopo il fruttivendolo e di faccia al panettiere. Il suo piccolo orto, posto dietro la casa, confinava col mio giardino. L'asnèn dul Sumèn (l'asino del Sumèn) era l'animale più famoso di Verghera; come l'asino di Buridano e l'asina del profeta Balaam, nel mondo.
Quando rompeva la cavezza irrompeva nel suo orto: si sdraiava sulla schiena e scalciando per aria, ragliava per una buona mezz'ora (al fèa l'asnaia). Era imprevedibile e pazzoide. Poteva restar fermo, davanti ad una pozza d'acqua, dieci e anche quindici minuti. Il suo padrone era di mano lesta con la frusta, ma non serviva a niente. Duro peggio di un mulo. -
LA CASINA DI CIÒ: casa posta a sinistra dopo la fine della via Di Vittorio, al di là della tessitura Giorgetti ora chiusa (oltre la ex Pozzi, ceramiche).
LA CASINA DUL PRED: (ora Cascina Tangitt) dopo la terza crus e dopo la cà squaràa sulla stradetta (ora allargata e asfaltata) che portava alla Casina di Pòar prima e poi a Busto. Alla casìna dul Pred abitò, per vari anni, mia mamma prima di sposarsi. Alla casìna di Pòar o nei paraggi della Casina di Pòar pare sia nata la Beata Giuliana.
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16 Marzo 2024 - sabato - sett. 11/076bis
Cosa ascoltare oggi
IL PESCE PERSICO DELL'ISOLA DEI PESCATORI
Nel 1935 si tenne a Stresa una famosa conferenza che gli storici ricorderanno certamente. In quella occasione avvenne un episodio che mise in particolare luce una delle specialità gastronomiche dell'Isola Pescatori.
Al termine di una lunga e laboriosa seduta antimeridiana e poiché il programma della giornata non comprendeva alcuna colazione di carattere ufficiale, Laval, allora Ministro degli Esteri francese, all'uscita del Palazzo Borromeo, propose a Fladin, Presidente del Consiglio, di recarsi a gustare nella vicina Isola Pescatori i saporiti filetti di pesce persico.
- Io sono conosciuto da queste parti - aggiunse Laval con un sorriso - e ti farò da guida. Due anni orsono con la mia figliola ho avuto la ventura di capitare in una piccola trattoria dell'Isola Pescatori e di trovarvi del pesce cucinato in modo tale da suscitare l'ammirazione anche degli amici che erano con me. Vedrai che anche tu sarai dello stesso parere. -
I due eminenti uomini di Stato presero posto nella lancia a loro disposizione che li portò rapidamente nella vicina Isola Pescatori. Pochi minuti dopo, mentre tutti gli abitanti erano a rumore per tanta illustre e inaspettata visita, Flandin e Laval, con alcune persone del seguito, erano assisi alla bianca tavola della modesta trattoria... in attesa dei famosi filetti di pesce persico.
In breve, fuori del piccolo esercizio, si radunò una vera folla di quegli umili pescatori ai quali fecero corona alcuni reparti di Balilla, Piccole Italiane e Avanguardisti in divisa, nonché alcuni giovani varesini in crociera a premio sul lago, accompagnati dal Seniore Ugo De Mattei.
Fu così che Flandin e Laval, all'uscita della trattoria, si trovarono circondati da una folla plaudente, ricevendo omaggi dai piccoli in divisa, schierati su duplice fila. Flandin e Laval, sensibili a tale spontanea manifestazione di simpatia, vollero essere fotografati tenendo sulle braccia un balilla e una piccola italiana.
Questa inaspettata visita aveva messo sossopra l'Isola Pescatori, solitamente così tranquilla, anche quando le folte comitive dei turisti vi approdano per visitarla e per gustare la squisita cucina che anche Laval conosceva e apprezzava. Quella brava gente non immaginava che anche il Duce, informato della cena di Laval, avrebbe voluto assaggiare i famosi filetti di pesce persico.
L'avvenimento si verificò nel pomeriggio dell'ultimo giorno della conferenza - una Domenica - poche ore prima che il Capo del Governo Italiano ripartisse per Roma. Il Duce giunse improvvisamente nell'isola suscitando una profonda emozione nella padrona del ristorante e nelle sue figliole quando videro che l'illustre ospite voleva proprio pranzare nel loro modesto esercizio.
Per un momento la gioia e la trepidazione misero lo scompiglio in quella buona gente. Poi, incoraggiate dalla cordialità del Duce le donne ripresero animo ed i loro filetti di pesce persico ottennero un nuovo e meritato successo.
Un'oretta durò la cena, durante la quale il Duce fece onore ai piatti semplici che gli venivano portati, rivolgendo complimenti alle donne per la loro squisita cucina. E quando la sera aveva già velato tutto il magnifico scenario del Golfo Borromeo, il Capo del Governo, accompagnato da Ciano, Starace, Teruzzi e Grandi, lasciò l'Isola dei Pescatori, entusiasticamente salutato dalla popolazione.
Così anche l'Isola dei Pescatori, per merito dei filetti di pesce persico era entrata nel... quadro della Conferenza di Stresa. E vero che questa conferenza fu poi elegantemente ripudiata dagli amici d'Oltralpe; ma la fama dei filetti di pesce dell'Isola Pescatori rimase consacrata anche in questo episodio storico, tanto da continuare a richiamare ancora oggi comitive di visitatori e buongustai i quali sono entusiasti di questo piatto.
Va detto che negli anni trenta, la cucina locale traeva vantaggio delle prerogative dei paesi stessi, privilegiati da un clima delizioso, da fiori smaglianti e frutteti magnifici, mentre il lago forniva dei pesci che erano considerati tra i migliori d'acqua dolce. Purtroppo, in questi ultimi anni si è verificato un motivo di rottura con la natura, costituito da un grave inquinamento, con l'immissione nel suolo, nell'acqua e nell'aria di sostanze nocive in grado di alterare le caratteristiche chimiche e fisiche persino delle risorse. Se non si porrà rimedio nessuno potrà salvare il 'Fritto di pesce persico', la 'Tinca alla graticola', gli 'Agoni in carpione' e la 'Zuppa di pesce' che hanno sempre costituito la specialità di tutta la regione del Verbano.
BOTTEGHE E OSTERIE
Osteria del Pozzo di Locarno Mario Tadela in piazza della Beata Giuliana, in omaggio al pozzo che stava, ai primi anni del '900, in mezzo alla piazza e che dissetava gran parte della popolazione. Osteria Bellaria di via Indipendenza del Silvio Branzagh dove c'era il covo degli specialisti della briscola e dello scopone, dove, soprattutto di domenica pomeriggio, i numeri dall'uno al dieci rimbalzavano da giocatore a giocatore (due coppie) per delle ore di fila senza posa, sussurrati e gridati, a raffiche in un crescendo rossiniano di foga impetuosa.
Che classe! Si trattava del gioco della morra (la mùra), gioco fatto di prontezza, di intuito, di abilità; abilità soprattutto nel prevedere il numero "gridato", tra poco dall'avversario. La squadra di morra di Verghera era la migliore in senso assoluto di tutta la zona. Era composta da quattro Puricelli: i due fratelli della Distilleria Puricelli (I Liquratt), da mio padre e dal mio zio Milò detto Fagiolino per la sua costituzione minuta (era di ferro, un maratoneta coi fiocchi, avversario irriducibile dello Speroni di Busto Arsizio, campione d'Italia).
Il circolino, sede della Banda, era di proprietà della cooperativa di consumo "La Nazionale", proprietaria del favoloso parco, dove si ballava a cielo aperto dalla fine della primavera all'inizio dell'autunno, famoso in tutta la provincia per il viale delle bocce a cinque corsie liscio e preciso come un biliardo, teatro di non pochi incontri e scontri ad alto livello regionale e nazionale.
Trattoria del Sole (zona della pesa pubblica) ritrovo prediletto dei camionisti affamati che transitavano giornalmente sullo stradone, ora strada statale 341 Gallarate-Novara (la stràa nòa).
La trattoria Roma del Cinto suonatore di trombone nella banda musicale, con fermata del tram Gallarate-Lonate Pozzolo; il bar del Massimino Cinquetti (Osteria Stella) un po' prima dell'attuale distributore di benzina all'inizio di Via Nino Locarno; il tabacchino che oltre al tabacco, ai francobolli e al sale vendeva vini e liquori e possedeva, come la trattoria Roma e il Cinquetti, due campi di bocce. Con tutti questi campi di bocce come si poteva, a Verghera, non essere giocatori di cartello e pressoché imbattibili?
Bocce, morra e calcio "specialità" vergheresi. Erano davvero bravi in questi sport i Vergheresi.
Prima della seconda guerra mondiale, negli anni trenta, Verghera annoverava tre fruttivendoli: la Iside in piazza, il Mocchetti detto il Malpensa appena dopo il vecchio Ufficio Postale, sulla sinistra, in principio di Via Mazzini; il Piantanida detto Brighela sulla destra alla fine di via Indipendenza.
Dalla Iside noi bambini andavamo tutti i giorni feriali, per comperare i "bersagliani" (biscottini a forma di animali) prima di andare all'asilo che, come adesso, era posto in Via San Bernardo, dietro il monumento della Beata Giuliana. Che piante enormi di ippocastani (castagni d'India) e quanto giocare coi loro frutti (i "cirlanfurla") che durante la guerra usavamo, dopo averli forati, per non farli scoppiare, nella stufa, invece del carbone.
I negozi di alimentari erano capeggiati dalla cooperativa di consumo "La Nazionale" i cui soci erano tutti cittadini di Verghera; non perseguiva scopo di lucro e devolveva l'utile di esercizio in opere di assistenza sociale operando anche da calmiere per gli altri negozi. C'era in fondo alla via Pastori, sullo stradone, la "bottega" del Milani Marcel; due panetterie: una del Piero Macchi dove si serviva la mia famiglia (che veneziane e cremonesi, sfornava), l'altra era quella della Marion e del Milani Carpàn, portiere kamikaze ed estroverso del Verghera, Allora la squadra era composta di oriundi vergheresi ed il premio di partita (se vinta) consisteva in un salamino cotto che si "consumava" nell'osteria del Tadèla. Qualcuno, quando ero un ragazzotto, l'ho mangiato anch'io.
Dimenticavo di mettere anche il negozio di alimentari del Giuan Puricelli, mutilato di guerra, fratello del Lucio Puricelli macellaio di via Eusebio Pastori, marito della Alma Zaroli passeggiatrice e conversatrice solitaria.
Altra macelleria quella del Rinaldo Ghice Puricelli di via Mazzini sulla sinistra prima di arrivare alla piazzetta della chiesa vecchia. Che qualità sopraffina di carne! Che brodo per il risotto domenicale! Molti contadini allevavano vacche e buoi per arrotondare le paghe, e in genere li vendevano ai macellai del paese. Le bestie, ingrassate a dovere, venivano vendute a peso o a occhio: mio padre vendeva a occhio (a stima) e non sbagliava mai, in più o in meno, di cinque chili, su un peso, per animale, di quattro o cinque quintali.
Il tempo - impietoso - ha stravolto tutto: spariti negozi, cooperative, circoli. Anche qui il progresso i supermercati - ha cancellato o affogato il negozio di una volta, dove compravi il pane che restava tale anche dopo due giorni o la carne che a friggerla non perdeva acqua e bontà.
Così va il mondo, e piangere sul tempo passato fa male al fegato e non risolve alcun problema.
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17 Marzo 2024 - domenica - sett. 11/077bis
redigio.it/rvg101/rvg11-077bis.mp3 - Te la racconto io la giornata
Cosa ascoltare oggi
Che l'abito non faccia il monaco, una linea di moda - C'era pure l'unisex - Intero guardaroba in un solo abito - Cloches, guanti, cornette - Linea di moda "flamboyante" - Civetteria maschile
La radio - Un apparecchio radio degli anni Trenta.
Non è esagerato affermare che la <<scatola parlante» di Guglielmo Marconi abbia cambiato le abitudini e i ritmi di vita delle famiglie italiane. Senz'altro è servita a riunire i componenti, a far sì che si diradassero le ore trascorse all'osteria davanti a una bottiglia di vino. La novità della grande scoperta coglie un po' di sorpresa una popolazione largamente analfabeta che non riesce a spiegarsi un fenomeno del genere. Al tempo stesso i bambini, che chiamano comunemente l'apparecchio radio, pensano che nell'interno nasconda dei nanetti che parlano, cantano e suonano. La radio viene vista, dunque, come un fenomeno affascinante e misterioso. Alcune canzoni, di grande successo, fanno un particolare riferimento alla grande invenzione di Marconi. L'avvento della televisione coglierà gli italiani più preparati. Il grande interesse che susciterà (pensiamo, ad esempio, a Lascia o raddoppia?) è legato all'essenza stessa del quiz televisivo, non al materializzarsi dell'immagine.
Un piccolo schermo casalingo che riporti, con le debite proporzioni, quanto si è abituati a vedere al cinema, non fa della televisione un argomento per la musica leggera, come ai tempi della radio. Dopo tanti anni ritroviamo, ancora cinguettante nella memoria, L'uccellino della radio, di Filippini, Nizza e Morbelli. Come le pecore televisive indicheranno poi un intervallo, il trillo dell'usignolo è il segnale per il passaggio da una stazione radiofonica all'altra. Sono in tanti a credere che, negli studi di registrazione, esista davvero una gabbia con un uccellino vivo. Non sono portati a pensare a una finzione, a una sorta di carillon con una molla da caricare. L'uccellino della radio diventa immediatamente il simbolo stesso dell'EIAR, poi della RAI e adesso lo ritroviamo ancora cinguettante in qualche trasmissione regionale.
Della radio l'usignol stamattina ha preso il vol, al suo libero cielo è voluto ritornar.
Nella gabbia a fili d'or rimaneva a malincuor,
tutti i passeri udendo di fuori cinguettar...
Un'altra canzone di grandissima popolarità e che in un certo senso può considerarsi di fronda perché è stata anche interpretata come un invito all'ascolto della proibitissima Radio Londra, è Silenzioso slow, che molti conoscono come Abbassa la tua radio, per favor, di Giovanni D'Anzi e Alfredo Bracchi.
Abbassa la tua radio, per favor,
se vuoi sentire i battiti del mio cuore,
le cose belle che ti voglio dir tu sola, amore mio, dovrai sentir...
Le mie parole tanto appassionate son timide carezze profumate. Abbassa la tua radio, per favor, perché io son geloso del mio amor.
Nel riascoltare Silenzioso slow si ha, ancora oggi, una piacevole sensazione. La canzone ha resistito agli anni e pur con un testo zeppo di parole tronche, poco in linea con la nostra lingua, pur con la consueta rima cuor-amor con l'aggiunta di favor e le inusitate frastuon-passion e sospir-udir, col richiamo alle timide carezze profumate (?), si fa perdonare per la gradevole melodia che sorregge i versi.
Strano e inconsueto è, viceversa, il tipo di messaggio che due dirimpettai innamorati si lanciano attraverso la radio. Si parla di Radio Torino e del Valentino, di Radio Bologna, Milano e Sanremo, di Radio Igea, di Barzizza e di Angelini, della Termini e di Rabagliati, del maestro Petralia, della Fioresi e del Trio Lescano. C'è, insomma, tutto quanto il firmamento musicale e si fa cenno anche al jazz in tempi ormai sospetti per questo tipo di ritmo «da barbari negri». La canzone si intitola Quando la radio, di Morbelli e Prato, 1940.
Quando la radio trasmette da Torino
vuol dir stasera ti attendo al Valentino, ma se, ad un tratto, si cambia di programma questo vuol dir «attento, c'è la mamma!» Radio Bologna vuol dir il cuor ti sogna, Radio Milano, ti penso da lontano, Radio Sanremo, stasera forse ci vedremo, e Radio Igea vuol dir lontan da te mi sento morir...
C'è l'accenno a Radio Sanremo che non esiste più da parecchi anni e a Radio Igea, anch'essa scomparsa, ma molto attiva in tempo di guerra.
Gradevole risulta anche la composizione di Cherubini e Bixio,
La famiglia canterina.
Dalla sera alla mattina,
zitta, zitta, piano, piano fa in sordina il Trio Lescano. Chi vuol sempre Boccaccini, chi l'orchestra d'Angelini, chi sta a orecchi spalancati per Alberto Rabagliati...
Mamma vuol la melodia, ma la figlia invece vuol il maestro Petralia
quando fa un accordo in do...
Oltre alla novità della radio «di occasione» di cui si fa cenno all'inizio del testo, come nella precedente canzone di D'Anzi e Bracchi, si nominano anche Boccaccini, Angelini, Rabagliati, Petralia, Pippo Barzizza, i brani Biancastella, Sulla carrozzella, Madonna fiorentina, La mia canzone al vento. È un ripasso, anche questo, di quanto la radio ammannisce quotidianamente. Piacevole il riascolto di C'è un'orchestra sincopata, di Cherubini e Bixio, in cui si afferma che nel cuor di ogni strumento dell'orchestra c'è nascosto un sentimento. Il Trio Lescano, con le ben note capacità delle tre ragazze olandesi, ci consegna un brano di grande jazz, a patto che tutti continuino a chiamarlo <<ritmo sincopato>>.
Misteri, magnolie e ombre illustri in quei cortili
Testimoni credibili delle alterne vicende che nel corso degli anni hanno accompagnato la vita di Milano sono i cortili. Non soltanto i cortili che appartengono alla città monumentale, quella che le guide turistiche impongono assolutamente di vedere: i cortili del Castello Sforzesco, i chiostri di Santa Maria delle Grazie, i cortili di Brera, tanto per citare in fretta.
Dal centro alla periferia non si apre cortile che non custodisca un suo particolare capitolo, un brandello di storia ambrosiana da raccontare o almeno da suggerire. E quando non è Storia con l'iniziale maiuscola, viene proposta una curiosità, una nota di colore, talvolta si sconfina nel pettegolezzo, nelle chiacchiere da cortile, appunto.
E' un privilegio che li accomuna, questi nostri cortili. Dai più nobili ai più modesti e disadorni, gli uni e gli altri spesso ridotti a posteggio di auto, cicli e motocicli e a deposito di sacchi d'immondizie. Cortiloni solenni, maestosi, austeri (a palazzo Litta, palazzo del Senato, al Seminario arcivescovile) accanto ad altri raccolti, silenziosi chiostri.
Cortili «mignon" di dimore patrizie, eleganti e intimi, salottini all'aria aperta, qualcuno ridente e altri un po' freddini, con corredo di viti canadesi, glicini, magnolie, nicchie, fontanella, pozzetto, statue corrose dal tempo (ma in gran parte inaccessibili ai curiosi, ai quali soltanto è consentita un'occhiata fugace attraverso pregevoli cancelli in ferro battuto).
Cortili delle case di ringhiera, ingentiliti da una gabbia di canarini, una schiera di gerani, un ciuffo di verde, squillanti di voci come i più vasti cortili degli anonimi casermoni popolari.
Immagini milanesi che un mago della fotografia, Mario De Biasi, ha sintetizzato con 155 splendide "vedute" a colori, in un volume ("Cortili di Milano") curato da Guido Lopez per i testi, da Mario Palumbo per le didascalie e stampato da Cordani per le Edizioni Celip.
Dal Rinascimento in poi, adeguandosi ai dettami dei vari stili architettonici che si sono susseguiti (con particolare indulgenza al barocco, al rococò, al neoclassico, al liberty), i cortili sono riusciti a "datare" avvenimenti ed evocare personaggi: più fedeli di un documento scritto.
Ce lo conferma un altro libro-strenna ("Milano e i suoi cortili" di Attilia Lanza e Marilea Somarè, Libreria Milanese) che suggerisce in itinerario inconsueto, da Porta a Porta, di "visite guidate" a oltre 330 cortili. Una. camminata ricca di sorprese, alla scoperta anche di angoli sconosciuti e in compagnia di ombre magne.
Il selciato, i lastroni, il pavimento del cortile che calpestiamo ci potranno ricordare, se la memoria e le reminiscenze scolastiche ci aiutano, di essere stati attraversati (vengono in mente alla rinfusa e senza rispetto cronologico i primi nomi di un elenco che sarebbe chilometrico) da Ludovico il Moro, Leonardo e Bramante, Tomaso Marino, Beccaria, Parini, Napoleone, Stendhal, Radetzky, Manzoni.
Tutta gente, insomma, che a Milano ha lasciato un'impronta indelebile.
Tanti giardin 'n di cà, ona filera, frascon de poverett e poggioeu in fior profum de ogni sort, 'me l'era vera: sora i lingher e in di porton de scior.
Inscì tra proeus de roeus e 'na magnolia brancad de sògn e ballonitt de bòria.
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